NOTE SU “UMANO INUMANO POSTUMANO. LE SFIDE DEL PRESENTE”, DI M. REVELLI.

 

 

Nell’ultimo lavoro di Marco Revelli, Umano Inumano Postumano. Le sfide del presente, pubblicato per Einaudi, ciò che salta subito agli occhi è uno dei problemi assillanti nel nostro mondo contemporaneo, l’indifferenza. L’analisi di Revelli si svolge innanzi tutto in senso storico, di storia del pensiero, articolata attorno a un concetto fondamentale in tutte le epoche e tornato di pressante attualità nella riflessione contemporanea: l’umano. Già nell’età classica lhumanitas era considerata come “il risultato di ogni Paideia ben riuscita, intesa come educazione dell’uomo alla sua vera forma”, per poi svilupparsi nel Cristianesimo, Rinascimento e Illuminismo come philantropia, cioè “comunanza consapevole” e si ponesse come l’essenza dell’uomo stesso e della sua acculturazione, là dove l’inumano rimaneva qualcosa di esterno, un “fuori dall’uomo”. Tutto ciò, ribadisce Revelli, è finito circa un secolo fa, con il nazismo e, in particolare con Auschwitz.

Noi veniamo dopo. Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach o Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz”, così scriveva George Steiner, evidenziando la rottura con il passato e la presa di potere sul pensiero dell’inumano sull’umano. Un inumano non casuale, non frutto di una forza diciamo in qualche modo istintiva, ma razionalizzato, programmato e eseguito con efficacia e efficienza.

L’inumano viene così a occupare un posto centrale nell’umano, si costituisce come metamorfosi. Revelli ci ricorda, rifacendosi a Steiner, come a Auschwitz la crudeltà e l’atrocità si impose quasi all’interno dell’umanesimo cristiano, del pensiero rinascimentale e classico. Non fu una negazione di questi, ma una specie di “variante”, uno “sviluppo”. In pratica la linea di confine tra umano e inumano viene nettamente oltrepassata, “rivela quanto e come il dis-umano sia in senso proprio, letterale, «in-umano», cioè in-scritto nell’umano, parte di esso, espressione della medesima radice”.

Cos’è dunque l’inumano? Si potrebbe darne una definizione affermando che è la potenzialità dell’uomo di considerare un nulla l’altro uomo, non sapere più vedere e riflettere se stessi nell’altro, di ascoltarlo, di pensare l’altro come essere pensante.

La riflessione del saggista cuneese si sposta ai nostri giorni, alla più prossima attualità. Qualcosa di non-umano è entrato nella complessa biologia dell’uomo, un virus, e è riuscito a sconvolgere in breve tempo tutta l’impalcatura dell’umanesimo che caratterizzava la sua cultura e il suo essere, o almeno quella che ancora sopravviveva, “ imponendo le regole impietose (e fredde) dell’immunitas su quelle amichevoli (e calde) della communitas”. Revelli nota come certi “valori” sono stati ribaltati: quello del “legame” , nel momento in cui la vicinanza diviene minaccia, e la separazione, la distanza tra gli individui, si configura come un dovere sociale e civico; l’uguaglianza, così celebrata nel ‘900,travolt(a) nel momento in cui all’uomo aequalis delle leggi umane subentra l’homo hyerarchicus del codice genetico della natura”, specie quando si arriva a scegliere a chi fornire o no terapie in base a criteri di età e salute “e l’humanum genus si spacca e divide in base a classi d’età, stato di salute, speranza di vita ovvero tra giovani e vecchi, forti e deboli, sani e malati”.

Revelli quasi a conferma di ciò e di come i passaggi epocali caratterizzino la mutazione e l’indeterminatezza del pensiero, prende in analisi uno dei quadri più emblematici e affascinanti di Hieronymus Bosch, l’Incoronazione di spine. I quattro sgherri sono piegati sul Cristo al centro della scena, lo torturano, ma, nota il saggista, hanno sguardi vuoti, persi nel nulla, il loro presunto nemico sembra inesistente o collocato nel niente. Emanano un odio assoluto e immotivato, fine a se stesso, inumano. Uguale a quello manifestato da coloro che, egli chiama i “leoni da tastiera”, in rete acclamano ai morti affogati nel Mediterraneo o che sono indifferenti alla fila di camion di Bergamo, insomma che si vestono di un odio fine a se stesso.

Da qui l’argomentare di Revelli sfocia nel postumano, la tendenza filosofica, scientifica, artistica, economica, politica, forse etica, insomma di pensiero, che sta prendendo campo nella nostra cultura e nel nostro modo di interpretare e stare al mondo ormai da decenni, almeno dagli anni ‘80 del secolo scorso, ma che ancora non ha trovato una definitiva collocazione. Il postumano, che viene subito distinto dal transumano, è analizzato in quasi tutte le sue manifestazioni, tecnologica, naturale, umana, forse con un accento un po’ troppo calcato sull’aspetto dell’homo deus, di “un uomo oltre l’uomo”, che avrebbe annullato ogni differenza con il divino, un “oltre-umano, in sostanza, in cui di ‘umano’ sembra restare ben poco, e che assomiglia piuttosto a una sorta di universo an-umano per non dire dis-umano”, e dove possono esercitare il proprio potere le politiche, indifferentemente dal loro presunto colore, la “sovranità”, per usare un suo termine, che facendo leva sulla paura, istituzionalizzandola, le forniscono un presupposto legislativo.

Revelli non ha una ricetta per uscire da questa impasse, non potrebbe probabilmente, e ricorre alle parole tratte dal titolo del secondo paragrafo dell’enciclica di Papa Bergoglio, Niente di questo mondo ci risulta indifferente, dove legge l’invocazione a restare umani anche nella corsa per superare il concetto di antropocentrismo, recuperando valori quali la fratellanza e il riconoscimento dell’altro, nel tentativo di costruire un mondo in cui non sia basilare possedere, ma coesistere, coabitare.

Un bel lavoro questo del professore piemontese e in gran parte condivisibile, anche se forse in qualche punto ci si potrebbe permettere di non essere del tutto convinti. Come ad esempio sul di-sumano e l’in-umano ascritti fondamentalmente al secolo XX e a questi primi decenni del XXI, nei termini da lui definiti, soprattutto in rapporto al covid19. Quegli atteggiamenti, l’isolamento, il distanziamento ecc., dopotutto ci sono sempre manifestati in occasioni tragiche e allarmanti come quella che stiamo vivendo, basti pensare a come ci viene descritta la figura dei monatti e degli untori e dei lazzaretti nelle epidemie di peste dei secoli scorsi, o al trattamento, appunto disumano, riservato ai lebbrosi fin dall’antichità. E anche in riguardo al postumano, ben distinto è bene ripeterlo dal transumanesimo, visto dallo studioso forse troppo come una trasformazione dolorosa e non come un traguardo, come il superamento di una concezione umanista sì, ma decisamente e fortemente antropocentrica, che non può più sussistere in un mondo in cui la tecnica, la scienza e il mondo naturale, animale e vegetale, stanno prendendo sempre più un ruolo centrale decentrando l’uomo, non considerandolo più l’unico degno di usufruire e sfruttare tutto ciò che gli sta attorno. Anzi, fino al punto di poter considerare l’eventualità di una coscienza, di una dimensione etica, nell’alterità. Non più dicotomie e dualismi, non più valori e dis-valori, non più nelle posizioni dell’uno o dell’altro sarà, così sembra, da ricercare e trovare un nuovo sistema di essere e di concepire umanisticamente l’uomo, ma nel dialogo tra le parti, nel loro rapporto, nell’essere nomade nel mondo.

Siamo in transizione, ma il futuro sarà probabilmente segnato da questo nuovo concetto di uomo e di civiltà che ci si augura prenda piede senza troppi traumi, che si aspetta, anche se noi non lo vedremo, ma si auspica sarà forse prerogativa dei nostri figli e nipoti.

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