GIULIETTA DEGLI “ORATORI”.

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Tutte le immagini Courtesy dell’Artista.

 

Le opere di Giulietta Gheller che si possono ammirare nell’esposizione di CENERE, RUGGINE E TERRA, presso gli Oratori di via Barocci a Urbino fino al 15 maggio, possono essere indicativi di un particolare percorso. Già la prima sala, quella dell’Oratorio di San Giovanni, un tempo destinata al ricovero dei malati, mi sembra mettere in luce un’intenzione che si svolge intorno alla figura dell’uomo, non inteso però in senso strettamente umanistico. Non mi riferisco alle doti tecniche, senza dubbio di alto valore dell’artista urbinate, né alle suggestioni a cui fa riferimento la sua poetica, proprio nel senso di “ποίησις”, che pur nella sua evidente contemporaneità nell’uso dei linguaggi artistici, risente di tutta una cultura classica probabilmente recepita durante gli studi liceali, e dico classica non nel senso generico, ma precisamente in riferimento all’arte Classica greca del V secolo a.C, rivissuta e restituita secondo una sensibilità affatto attuale.

Martin Heidegger nel suo Essere e tempo dedica varie pagine al concetto di cura, qui intesa nel suo primo significato: aver cura (Fürsorge) degli altri, nel senso del prodigarsi affinché l’altro possa giungere a realizzare consapevolmente e liberamente un proprio progetto e una propria umanità. Per il filosofo l’uomo è in grado di auto-progettarsi, diventare ciò che è secondo le proprie possibilità. Divenire (o non divenire) se stesso, e questo si può tradurre nell’angoscia, ma con un moto che lo spinge sempre in avanti. Mai fermo all’ hic et nunc l’uomo si proietta innanzi, in costante relazione con il mondo, con l’altro di cui si prende cura nel tentativo di indirizzare e realizzare le sue possibilità verso ciò che lo occupa.

Ne la Pietà, il grande quadro che Giulietta espone, con quest’uomo, o più precisamente un essere umano non definito dal genere o dal sesso, abbandonato in un colore blu sul bianco, con poche gocce rosse che scendono, a definirne quasi il moto discendente, pur nella sua sospensione quasi metafisica in un vuoto e immaginario sudario, si può leggere il bisogno di dare all’altro insito nell’uomo, un porgere che non è finalizzato a un conseguente ricevere, a una restituzione o compensazione, non totalmente almeno, ma alla concorrenza dell’esistenza, del divenire se stessi e del divenire dell’altro, proprio in relazione con il mondo, umano e, si vedrà, anche non umano, un interscambio nel quale la morte, l’angoscia, si esprimono nella pietà, ma non tanto nel senso del compianto sul Cristo morto (del tutto assente), né nella più consueta tematica nordica della Mater dolorosa, qui sembra esserci l’uomo, colui che non è più, che non ha più bisogno di cura da parte degli altri, ma che è forse capace di donarne a chi ne prende coscienza anche con il suo essere cadavere, in fondo cosa, inanimato, ma portatore di valori reconditi, fossero anche quelli solamente dell’abbandono e dell’apparente finito.

Si potrebbe parlare quasi di sacrificio, quello forse che vuole, almeno in parte, significare la video-performance dell’Oratorio delle Cinque Piaghe, accanto a tutti i rimandi a situazioni di ordine sociale per quel che riguarda l’accoglienza dello straniero, appunto pur sempre l’altro. Questa figura presumibilmente femminile che si scioglie lentamente nell’acqua salmastra del Mediterraneo sembra alludere, non solo al sacrificio, ma anche a una restituzione, il tornare da argilla compatta, formata, a terra, polvere, ma non necessariamente nel significato biblico del “terra sei e terra tornerai”, quanto come ritorno alla materia, mescolanza della materia terra con la materia acqua, due dei fondamentali elementi naturali assieme al fuoco e all’aria. L’acqua l’elemento vitale fluido e la terra l’elemento materiale, una fusione dei due, come se il disciogliersi dell’uno nell’altro non determinasse una fine ma un nuovo inizio, una metamorfosi.

È questo è il secondo aspetto che mi sembra emergere da questa esposizione dalle sculture a dalle pitture di Giulietta, soprattutto da quelle nel cortile di San Giuseppe oltre a quelle di San Giovanni. Metamorfosi colte forse nel momento del non sono più ma non sono ancora, e tuttavia non mi appaiono come metamorfosi vere proprie, non nel senso diciamo tradizionale, ovidiano del termine. Sembrano piuttosto delle mutazioni, che conservano il ricordo, la coscienza di ciò che si è stato e fanno emergere nella mia memoria più che Ovidio l’Empedocle del Poema fisico lustrale, la dove dichiara di essere stato “un giovane e una ragazza, e un virgulto e un uccello e uno squamoso pesce del mare”.

Mutazioni, il trasformarsi in qualcosa d’altro, ma che conserva pur sempre l’essenza originale. Da notare credo che in sculture come Amore fusionale, o Crisalide o ancora nelle sculture istallate nel cortile dell’Oratorio di San Giuseppe c’è un moto inverso rispetto alle metamorfosi descritte da Ovidio, ma anche dai bestiari medioevali e dalla tradizione umanistica in generale. Non dall’uomo, la forma di essere animale umano, a vegetale, animale non umano o altro, ma da questi a quello, come una rinascita che però non si completa, rimane ibrida, e colta nel proprio viaggio di mutazione, a cavallo tra l’uno e l’altro, in un territorio di mezzo, in quello spazio, non necessariamente dialettico, che si instaura tra due antinomie e dove si può trovare la vera essenza dell’essere. Un soggetto nomade è soggetto in divenire e nello stesso tempo incarnato e localizzato.

I tronchi degli alberi della Cesana sono bruciati, morti quindi, ma non sono divenuti nulla e in questo si attua la trasformazione, forse una rinascita, non saprei, ma quei fusti anneriti dal fuoco, da cause non probabilmente naturali, ma per l’intervento dell’uomo, casuale o criminale, ma comunque causato, segnano una continuità tra il vissuto e nuovo vivere, ibrido forse, se la mutazione si arresta, ma comunque ibrido anche se si completa in quanto fusione di elementi apparentemente differenti, ma ognuno con proprie caratteristiche che li rendono partecipi e vivi, li adattano alla novità. E qui tornano alla mente le parole della Gheller rilasciate in un’intervista di qualche tempo fa, quando descrivendo il suo fare arte, sottolineava come il legno, a differenza del marmo, non è un materiale da cui si toglie, si scava per far emergere neo-platonicamente la forma, come in Michelangelo ad esempio, ma è necessario “adattarlo”, seguire in qualche modo il suo essere tronco, nodo, corteccia, stratificazione. Insomma una mutazione che si conformi e sia in grado di vivere, nel proprio viaggio e nella sua ibridazione, il tempo che si sta trasformando, che ha ormai abbandonato il presupposto umanistico verso qualcosa di differente, in comunione con il resto del mondo, non più una visione antropocentrica, human-centered, ma rivolto verso l’altro, umano, animale e, perché no, anche se in Giulietta questo aspetto non è toccato, artificiale.

In conclusione devo ammettere che non saprei dire se Giulietta Gheller abbia pensato o intendesse con la propria opera trasmettere allo spettatore concetti simili. Questo è ciò che ho letto io, che ho sentito davanti ai suoi lavori. E dopotutto non è compito dell’artista dire qualcosa, trasmettere per forza un messaggio antecedente al fare artistico stesso, anche perché molto spesso l’opera finale risulta poi molto diversa da quella progettata o sul foglio di carta o nella mappa mentale dell’artista. L’importante è che l’artista esprima qualcosa e in questo esprimere stabilisca un contatto estetico con il fruitore dell’opera che saprà, se sarà in grado, di costruire una propria idea, una personale sensazione estetica, un rapporto privilegiato con la bellezza o con il proprio ideale di bellezza o di sublime. In questo Giulietta è riuscita pienamente credo, e mi si affacciano alla in mente a tale proposito le parole di Rauschenberg quando alla domanda sul messaggio dell’arte rispondeva: “se ci fosse un messaggio specifico, sarei limitato dai miei ideali e dai miei pregiudizi. Insomma, ciò che mi interessa è un contatto, e non esprimere un messaggio.

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