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A PARTIRRE DA UN RICORDO.

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Forse il problema del fascismo, del totalitarismo, andrebbe affrontato all’origine. Nel senso di capire perché il loro rifiuto non è componente autonoma e radicata nei giovani e nei bambini di oggi, dove il termine giovane, ha un senso molto dilatato. Perché queste fasce generazionali non l’hanno, in un certo senso, connaturato, come invece avveniva qualche generazione fa? A questo proposito mi si affaccia alla mente un episodio autobiografico. Facevo forse la 4° elementare, visto che la storia romana si faceva in quella classe (il programma di allora recita: “Gli eroi romani: lezioni, letture e visione dei ricordi e monumenti di Roma, specialmente di quelli che esistono nella regione), quindi avevo intorno agli 8/9 anni essendo stato mandato a scuola con un anno d’anticipo. La Maestra, cara, unica, Maestra, una mattina affrontò una lezione sull’Apologo di Menenio Agrippa alla plebe romana, siamo intorno al 496 a.C., passo famosissimo che non sto a riassumere.

Alla fine del suo bel e romanzato racconto ci disse qualcosa del tipo “e questo è considerato il primo discorso fascista della storia”. Che lo fosse veramente è opinabile, d’accordo, ma non è questo il punto e chiaro è che la Maestra intendeva il termine fascista nel senso lato e generico del lemma, cioè dispotico, oltre che classista ecc., non di partito. Esclusa è anche ogni ipotesi che la Maestra volesse in qualche modo indottrinare gli scolari, non andava ancora di moda, lo sarebbe diventato meno di un decennio dopo in tutti gli ordini di scuola, ma ancora non ci si pensava neppure. Erano gli anni in cui quando si entrava in classe si salutava il Presidente e prima di sedersi sui banchi si recitava la preghierina, e non era neppure quello indottrinamento, ma solo tradizione.

Ma a parte ciò quello che mi ha stupito in questo vivido ricordo è il fatto che la Maestra, lo rimembro bene, non pensò neppure di spiegarci cosa volesse dire quella parola, fascista, che poteva essere se non nuova, non usuale per dei bambini di nove dieci anni, cosa a cui era di solito molto attenta, ogni termine difficile, e inedito per noi, sia che venisse dai testi, sia nel dialogo, veniva puntualmente spiegato in parole semplici, e neanche noi bambini chiedemmo spiegazioni, nessuno alzò la mano. Perché? Perché sapevamo già cosa significasse, in ogni sua declinazione, o quasi. Come poteva essere accaduto? La scuola l’abbiamo praticamente esclusa, in parrocchia o oratorio non si parlava di politica, i mass media erano, diremmo oggi, ridotti all’osso, due canali nazionali, Rai3 iniziò le trasmissioni nel 1979, e sempre ben attenti a quel che dicevano, inoltre a quell’età, come adesso e giustamente, il TG ci interessava poco. PC, social, smartphon uguali alla fantascienza, non ci rimaneva che giocare a pallone in qualche piazzetta o campo improvvisato, correre giù per i vicoli dopo aver suonato qualche campanello a caso e farci una rosetta alla mortadella al negozietto sulla via. E allora? E allora non rimane che la famiglia. Se ne parlava in famiglia, in ogni famiglia probabilmente, senza distinzione di ceto o di livello culturale, nella mia classe c’erano bambini provenienti da “classi sociali” molto eterogenee, (virgoletto, tante volte leggesse qualche giovanissimo che non capirebbe il senso che aveva l’espressione “classe sociale” a quei tempi). Inoltre va considerato che la mia generazione, nata durante gli anni ‘60 del secolo scorso, si trovava in una situazione particolare. Cresceva nel boom economico, non aveva conosciuto direttamente il fascismo e la guerra, ma neppure l’acerrimo antifascismo del primo e primissimo dopoguerra. Si trovava in un momento di passaggio, di riflessione, anche la grande contestazione e la supremazia intellettuale della sinistra e estrema sinistra (nella sua espressione totalitaria, perché l’intellettuale era per già per antonomasia di sinistra e engagé) stava ancora nascendo e sarebbe esplosa il decennio successivo. A nove anni eravamo sul limite e avevamo assorbito un clima del tutto particolare.

Ma cosa e come quel sentimento di repulsione verso il fascismo, il dispotismo e il totalitarismo era così già radicato in noi? Perché sapevamo già cosa fosse e non lo accettavamo? Almeno la stragrande maggioranza dei bambini, non mettevano in dubbio che fosse una cosa brutta, cattiva. Certo vi era una memoria storica nei nonni e nei genitori, ma questo non è sufficiente a spiegare il perché quel sentimento fosse vissuto a livello generale, in tutti senza differenza ideologica, o quasi, e, soprattutto, radicato.

Una spiegazione forse me la sono data. E non ragionando con i filosofi, i sociologi e gli psicoanalisti, ma pensando ancora alla mia famiglia che era uguale a tante altre. Velocemente partiamo dai nonni. Vivevano quasi sempre con noi e erano molto comunicativi. Due erano in pratica monarchici, il nonno era stato in trincea nella Grande Guerra del ‘15-’18 e ne andava fiero, gli altri due democristiani devoti si potrebbe dire fino all’osso, ma il nonno raccontava che lui le botte le aveva viste dare durante il Ventennio e le aveva anche prese, o qualcosa di simile. Babbo e mamma socialisti, con visioni diverse, si potrebbe commentare come da cliché medio borghese del periodo, ma socialisti. Un bel pot pourri, belle discussioni tra i sei, memorabile quella sul divorzio, molti anni dopo il periodo che qui interessa. Ma forse proprio questa è stata la forza di quelle convinzioni che ci hanno trasmesso. Intanto salta agli occhi una cosa importante, che non era una famiglia in cui l’ideologia, il modo di pensare era ereditario, del tipo “sono di destra o di sinistra perché la mia famiglia lo è sempre stata”, che è una delle dichiarazioni peggiori che si possano sentire. Ognuno si era formato secondo le proprie inclinazioni e esperienze e i risultati di quell’educazione aperta si sono visti. Tre fratelli, loro figli e nipoti, con tre idee politiche e tre Weltanschauung differenti. Ma un punto comune lo avevano tutti, il fascismo, in tutte le sue declinazioni era qualcosa di sbagliato e orribile.

Non un tabù, attenzione, ma sbagliato, su cui discutere e farsene una ragione critica. E non tanto il fascismo come partito, quello era un fatto storico che andava studiato come tale, ma il fascismo come espressione del pensiero, visione di vita, pure se oggi personalmente sono abbastanza contrario a etichettare tutte le espressioni di dispotismo, totalitarismo e violenza sotto quel termine. La stessa cosa valeva pure per il comunismo, sempre con diverse prospettive e in maniera più leggera, probabilmente proprio per il fatto che loro non lo avevano vissuto direttamente sulla pelle, non almeno il potere comunista.

Ora come mai nelle nuove generazioni ciò non accade, si mescola nazismo con fascismo e a volte con comunismo, che è vero sono tutte espressioni di violenza e autarchia, ma in maniera differente. E soprattutto, perché non c’è un vero rifiuto al concetto in sé, a ciò che significa come visione di vita, diciamo pure come Weltanschauung. Quello che sta accadendo in Ucraina è la manifestazione evidente di questo atteggiamento, forse sia da una parte che dall’altra, anche se certamente l’aggressione militare sposta l’ago della bilancia. Ma il solo fatto che ci si trovi davanti a una ideologia che vuole a tutti i costi essere dispotica non si può, non si potrebbe, che esprimere dissenso, repulsione.

Sia chiaro, non mi interessa qui il fatto in se stesso, non so chi ha ragione (sempre aggressione a parte), non sono né filo né anti-americano, e neppure filo o anti-russo, sono europeo, forse anche prima di essere italiano, non so neppure se l’invio di armi sia giusto o meglio, necessario, o no, non sono così efferato in politica estera e strategica e le mie sarebbero solo opinioni, doxa, quasi nel senso parmenideo del termine, ma che l’antifascismo non sia un concetto ancora acquisito quasi a livello genetico non lo capisco. Non mi appartiene.

È vero che i giovani sono figli di genitori che si collocano come generazione in un’altra dimensione rispetto alla mia e che forse manca loro la testimonianza diretta di chi quel periodo lo ha vissuto sulla propria pelle (e comunque non tutti), e che di conseguenza il sentimento antifascista può arrivare ai loro figli in maniera più attenuata, ma esso, il sentimento, è o era talmente radicato nella nostra cultura europea e, sopratutto, italiana, che mi sembra impossibile che ancora non sia così vivo, direi istintivo. E chi scrive è abbastanza revisionista dal punto di vista storico, ma i fatti sono fatti. Non si cambiano.

Comincio a credere che ci sia un altro fenomeno all’origine di tutto ciò. L’indifferenza. Questa può essere un gran pregio per chi l’ha, rende la vita più facile e sopportabile. Ma può essere anche pericolosa. Come si può comprendere, o tentare di comprendere, il reale, il mondo in cui si vive se si è totalmente indifferenti?

Il nostro mondo è nel caos, forse lo è sempre stato, ma il momento sembra cruciale. Le barriere ideologiche sembravano crollate e sostituite da una globalizzazione probabilmente non troppo ben meditata. Anzi per essere a passi col tempo, col capitalismo, rispolverato dagli ultimi interventi in materia. E questi hanno fallito? Forse sì, ma non danno alternative, continueranno, rigenerare se stessi, più o meno nello stesso modo; rinnovarsi per rimanere fermi dove si era già. E dopotutto non è abbattendo che si crea il nuovo. Ma il rischio che questo pseudo-nuovo sia sotto l’insegna del totalitarismo è un rischio reale. Sotto l’insegna del totalitarismo, quindi non di qualcosa di inedito, ma già esistito e ancora esistente in molte parti del Globo, a conferma della rigenerazione della globalizzazione e del capitalismo (mai tramontato) uguali a se stessi. E questi atteggiamenti di non condanna, di giustificazione, non fanno che dare carburante al processo insinuandosi nelle menti, indifferenti, delle nuove generazioni.

Una soluzione non l’ho, ma credo sia necessario prendere coscienza che per evitare che ciò accada sarebbe importante capire e sapere valutare il tutto da dentro il problema, forse portando all’eccesso i suoi risultati, o meglio di vivere all’interno del caos e da lì pilotare il mondo verso il meno possibile sfacelo dimenticandoci di essere il centro del tutto. E in questo eventuale processo verso una almeno balenata libertà, l’opposizione a qualunque manifestazione di dispotismo, assolutismo, diciamo fascismo, mi sembra fondamentale. Averne coscienza critica certo, ma anche un istintivo radicale rifiuto, come accadeva a generazioni passate, non a tutti gli individui, ma a gran parte. Chiunque della mia e altre generazioni, anche quelle venute dopo che siano di destra o di sinistra o di ciò che vogliono, all’udire la parola fascismo un brivido raccapricciante d’orrore, per quanto attenuato, lo sentono scorrere lungo la spina dorsale. Così non è più, non è pensiero fascista quello di Putin, non lo è quello del governo cinese o brasiliano e così via, e se lo è “me ne frego”, tanto per restare attinenti al tema anche dal punto di vista linguistico.

Questo è il nuovo pensiero? Il nuovo ordine?

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