DUCCIO.

Immagine profilo FB Duccio Marchi

 

DUCCIO.

Il dialetto è ormai una lingua quasi sconosciuta, poco parlata e poco compresa dalle ultime (si fa per dire) generazioni, una lingua che diviene quasi “colta”, o per lo meno, elitaria, tanto più quando si fa letteratura o arte. Eppure tante filastrocche, canzoni, poesie e perfino racconti non sono comprensibili e godibili se non nella loro versione originale vernacolare e in quella loro lingua sanno portare uno squarcio sulla realtà, anche presente, forse non accessibile all’idioma italiano. È questa una delle caratteristiche, in un certo senso, dell’operazione artistica, musicale, letteraria e teatrale e, si vuole, performativa, di Duccio (Marchi).

È vero che negli ultimi anni il dialetto, e in special modo la canzone in dialetto, ha visto una rinascita all’interno della cultura italiana, per lo più motivata o conseguenza, della rivalutazione delle varietà locali. Forse un particolare stato di nostalgia, dopo anni, decenni in cui, in nome dell’italianizzazione, si è fatta quasi una guerra al dialetto; quasi una vergogna parlarlo, vietato anche in famiglia, almeno in certe regioni o realtà cittadine o, forse, ceti presupposti più culturalmente alti. Sta di fatto che il dialetto ha perso la capacità del parlato quotidiano, della comunicazione immediata, guadagnando però spazio in altre situazioni. Così esso, il dialetto, è entrato a far parte in maniera più decisa di espressioni come la poesia, il teatro, il cinema e, appunto, la canzone d’autore, o sarebbe meglio dire più che “entrato”, ha riguadagnato il ruolo che gli spettava e che già aveva occupato, e dove si è marcata una riscoperta di possibilità espressive che all’italiano mancano, là dove, è bene non dimenticarlo, l’italiano è una lingua che è nata e si è evoluta come lingua scritta e non parlata.

Questo è un primo aspetto che caratterizza la canzone, i testi delle canzoni di Duccio. Il bisogno di dare soddisfazione e sfogo a un’esigenza espressiva immediata, pura, libera, per quanto possibile, da suggestioni culturali letterarie e artistiche “alte”, a favore di una lingua capace di calarsi nel reale, non solo attraverso la descrizione di situazioni e fatti, di ricordi, ma essa stessa nel suo articolarsi come alternativa, pur rimanendo legata a una tradizione bel più consolidata di quella dell’italiano, a tutto ciò che può cadere nello scontato, nel già detto, perfino nel retorico, poiché anche una strofa che ha il sapore di una sentenza come:

el specch m’ha dett:

en t’incassè

ansi m’avresti da ringrassiè

che t’ho fatt veda

el pegg’ de te

el bell el cnosci sal guardi a fè?

(El specc)

detto nella lingua vernacolare assume l’aspetto e il significato della cosa più normale, vera e al tempo stesso sempre valida, che rimane impressa a chi è in grado di capirla. Di capirla, attenzione, al volo, non di tradurla.

E quest’aspetto della canzone di Duccio si impone come una scelta, una consapevolezza della forza di quelle espressioni. Infatti la sua formazione è di tutt’altro tipo e carattere. Non mi riferisco tanto al suo iter formativo culturale-istituzionale; Duccio si è diplomato al Liceo Classico e è laureato in medicina (la più “umanistica” delle scienze, per dirla con Jasper) e per di più specializzato in psichiatria, ma anche e soprattutto nell’ambiente famigliare in cui cresciuto, quella che si respirava doveva essere essenzialmente cultura classica, fortemente umanistica. Non solo infatti il padre Michelangiolo lo ricordiamo come un esimo grecista e latinista e la mamma Anna una italianista, ma va soprattutto rimarcato che l’uno era un fiorentino d’hoc che mai perse un retrogusto dell’accento dell’Arno durante le sue lezioni, ma pure la madre era nata e cresciuta a Roma. Certo l’amore per l’arte e per la cultura umanistica devono avergliela trasmessa loro e penso in maniera forte, se è vero che pure la sorella Donatella si è sempre distinta per il suo lavoro metodico e serio nel teatro d’avanguardia vissuto in maniera diretta e non solo su pagine scritte, ma la scelta del dialetto come lingua veicolo per la propria creatività è plausibile pensare che non l’abbia appresa in famiglia. E allora quel far rivivere una lingua che per forza di cose deve avere appreso per le strade o nei locali, o nei mercati di Urbino, rafforza la volontà e l’esigenza di trovare un nuovo o rinnovato mezzo di espressione artistica capace di rivelare la realtà per quello che è, senza inganni o mascheramenti retorici, insomma quasi una lingua dell’anima, là dove quest’espressione possa avere un senso. Non la ricerca di contenuti o effetti speciali per inseguire e far proprio il “nuovo”, ma un mezzo che era lì, a portata di mano e che aspettava solo di essere pulito dalla polvere dell’ignoranza e dall’arroganza di chi lo aveva abbandonato come inutile, stantio, addirittura diseducativo o volgare.

Così nell’affrontare un tema che può apparire marginale, ma che nell’economia di vita di un piccolo borgo o della “provincia” italiana, non lo è, come quello dello “sparlare”, del voler sapere e commentare tutto di tutti, che Duccio affronta ne La sartina, dove il titolo già è indicativo di quel “taglia e cuce” proprio di un detto anche italiano, mi è venuto spontaneo alla mente un brano di un altro grande cantautore italiano che vi si è dedicato: Ivan Graziani ne Maledette malelingue. Ebbene a ben vedere, per quanto il testo di Graziani sia accattivante, non riesce a dare nell’immediato quel sapore ironico sì, ma al tempo stesso drammatico, nel descrivere una situazione usuale, criticata, ma praticata e accettata da tutti, che i versi di Duccio con la spontaneità istintiva del dialetto sottolineano e che proprio tramite il vernacolo e la rima “facile” della filastrocca, conquistano la possibilità di giungere diretti, strappando un sorriso, ma costringendo alla riflessione:

CUC’ E TAJA LA SARTINA

DALLA SERA ALLA MATTINA

SA LE FORBICI E LA LINGUA

LA SARTINA LA SA LONGA

TAGLIA E CUCE LA SARTINA

DALLA SERA ALLA MATTINA

SA LE FORBICI E SAL FIL

LIA SA TUTT DE TUTT URBIN

 

C’E’ DA FARE UNA RIGHETTA

C’LA SFACCIATA D’LA MARIETTA

RICUCIRE UNA CERNIERA

L’HO INCONTRATA IERI SERA

ARCIAPLARE QUALCA PESSA

LUNGO I PORTICI D’LA PASSA

ARFE’ L’ORLO MA LE TEND

SE BACIAVA SA UN STUDENT

 

CUC’ E TAJA LA SARTINA

DALLA SERA ALLA MATTINA

SA LE FORBICI E LA LINGUA

LA SARTINA LA SA LONGA

TAGLIA E CUCE LA SARTINA

DALLA SERA ALLA MATTINA

SA LE FORBICI E SAL FIL

LIA SA TUTT DE TUTT URBIN

 

EL DITAL

LA RENATA

EL ROCHETT

S’E’ INNAMORATA

FILA FILA

SA UN LASSARON

E’ SPOSAT C’HA DU TRE FIOL..

 

CUC’ E TAJA LA SARTINA

DALLA SERA ALLA MATTINA

QUQND’ E’ SATNCA

PURTININA

VA TEL LETT E STA’ SITTINA..

Il dialetto, però, è anche lingua della memoria, il trait d’union tra passato e presente, forse tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori. È capace di porsi come testimone di un mondo culturale e umano e non solo, che sembra perduto, quasi scomparso, ma che permane nel sottosuolo culturale di una città, di una regione, come portatore di valori radicati. In Duccio il ricordo sembra delinearsi su due livelli: uno legato essenzialmente alla riscoperta di tradizioni, di motivi, allacciato a un passato a cui anche lui ha appartenuto in un’infanzia e in una giovinezza che ha visto cambiare il mondo con una rapidità e una accelerazione mai constatata prima, capace di non solo sorpassare i tempi come sempre è accaduto, di farlo con tanta spinta da eclissare in maniera quasi definitiva ciò che aveva alle spalle, tanto che molte delle tradizioni, anche le più banali, non solo non sono più praticate dalle nuove generazioni, ma sono del tutto ignorate e, spesso, pure incomprensibili, sia livello antropologico che linguistico. L’operazione che Duccio opera per esempio in un pezzo come Ciccol ciccol, parte da una filastrocca che tutti coloro che appartengono alla sua generazione e quelle precedenti conoscono, che sempre in prossimità del carnevale, si sentiva recitare, e che oggi rimane totalmente aliena, o quasi, ai bambini e ai ragazzini, ma non solo per il suo significato, ma pure per tutto il “cerimoniale” che sottintendeva, quella specie di questua scherzosa che ogni bambino mascherato faceva di porta in porta, indipendentemente dal ceto a cui apparteneva. Oggi, quando la si racconta e la si spiega, ci si sente rispondere: “insomma, un ‘dolcetto o scherzetto’ di Halloween in tono minore”, ignorando tutto il significato che la tradizione invece si porta dietro in quel:

cICCOL CICCOL MASCHERINA

SEN C’E’ L’OV C’E’ LA GALINA

EL BAGHIN L’AVET MASAT

SO TEL TRAV L’AVET TACAT

S’EN VE CHIAPPA LA FANTASIA

SENSA CICCOL EN VAG VIA.

Nostalgia forse trapela da questa canzone, ma vissuta e espressa con ironica allegrezza, consapevole che è inutile cercare di fermare i tempi, che tutto scorre e si evolve, si trasforma, ma che ciò non è necessariamente sinonimo di abbandono e oblio, anzi, fondamentale rimane rinverdire sempre, in un modo o nell’altro, la tradizione, perché nel sentire quel ritornello e quelle parole incomprensibili per molti, c’è sempre la possibilità che il bambino, il giovane, chieda “Cos’è? Cosa vuol dire? Perché lo si faceva?”.

Il ricordo però non si manifesta solamente con la vena ironica e divertita di questo genere di canzoni, ne esiste uno anche malinconico, drammatico, una presa diretta su di una realtà trasformata dall’avanzare dei tempi, ma che si porta dietro l’errore e la tristezza dell’abbandono, del non avere saputo cogliere e capire ciò che il tempo imponeva, relegando la tradizione e la vita stessa a quella che appare una lenta e inevitabile agonia. Bella C’era ‘na volta Urbin, capace di evocare un mondo perduto, meglio dire abbandonato, che rivive attraverso il filtro del ricordo nostalgico, un ricordo che non affonda le proprie radici in un passato lontano, non troppo lontano, che ma che è talmente dimenticato, tanto da assumere quasi il connotato del mito. Urbino, la Città ideale, la storia, ma anche l’animazione del borgo, dello schiamazzo dei bambini per i vicoli angusti e pittoreschi, le occupazioni tipiche degli artigiani, il chiacchiericcio della gente in giro, tutto perduto, rimane quasi solo un’immagine metafisica nel senso peggiore del termine, perduta nel tempo e la cui fine sembra segnata, relegata al nulla, allo svuotamento, nell’impossibilità di proporre e adeguarsi ai tempi e rassegnata dell’esodo costante dei giovani verso altre realtà, possibilità di una vita che possa aprire anche solo lo spiraglio di un avvenire:

V’ARCONT COM’ERA URBIN

QUAND S’ER UN RAGASSIN

CHE LA TU SIA FERNANDA

C’ARCONTAVA D’LA FILANDA

E C’ERA LA FORNAC’

LA PISTA D’I GO KART

LA NEV TUTT I NATAL

LA BRECCIA AL MERCATAL

E C’ERA TANTA GENT

T’I VIGOL SPECIALMENT

O BEN O MAL CAMPAVA

INSOMMA S’INGEGNAVA

EL FABBR EL FONTANIER

LA STROLGA EL CANTONIER

OGNUN EL SU MESTIER

STUDENTI PER LA VIA

I VECCH’ ALL’OSTERIA

E TRE QUATTRE SPASSIN

PULIVNE TUTT URBIN

SA I’OCCH’ D’UN PISCIALETT

STE MOND ERA PERFETT

E SE CALCO’ MANCAVA

C’PENSAVNE BABO E MAMA

ADESS DOP TUTT STE TEMP

E’ MEJ SICURAMENT

A URBIN EN MANCA NIENT

EN C’E’ MANCA LA GENT!

In fine, ma non per questo meno importanti, sono le canzoni nelle quali Duccio rivolge la propria attenzione all’attualità, diciamo così, di cronaca, a quegli avvenimenti, spesso imposti dall’alto e subiti quasi passivamente, che colgono la gente comune variando, alla fine, il loro modo di vivere, ma che non trovano l’esatta risposta, il giusto riconoscimento del danno o, quantomeno, del disagio che creano. Domina in questi casi ancora l’ironia sul limite della comicità, ma la denuncia appare chiara, netta e non lascia scampo alla presa di posizione che l’ascoltatore può nascondere dietro un sorriso, ma che inevitabilmente lo colpisce e lo fa riflettere, se non altro per il coraggio e l’onestà con cui sono state denunciate e non relegate solo nello sterile lamento del bar sotto casa. Si legga il testo di questa Le rotond:

Per gì a Pesre per gì a Pesre

per la Montelabbatese

ce sarann ducent rotond

venghen sò piò svelt di fong

Per gì a Pesre per gì a Pesre

per la Montelabbatese

per fè tutte stè rotond

el cervell me se confond

Incminciam dalla Morciola

c’è la chiesa c’è la scola

la rotonda stà tel mess

el pess brutt incmincia adess

Tla rotonda che vien dop

c’ann mess dentra tre bambocc’

tre bugatt sa l’armatura

che a guardai ce fann paura

La rotonda sa i Shangai

chi l’ha fatta tocca mnai

n’altre gir chiappand a destra

e me chiappa el mal de testa

Per gì a Pesre per gì a Pesre

per la Montelabbatese

ce sarann ducent rotond

venghen sò piò svelt di fong

Per gì a Pesre per gì a Pesre

per la Montelabbatese

per fè tutte stè rotond

el cervell me se confond

La rotonda d’Montlabbat

sa chel vetre tutt spaccat

io la chiapperia a testat

tant el dann ormai l’hann fatt

Tle rotonde d’la Berloni

me s’argirne anca i cerchioni

n’altre quattre rutaticc’

me se vricchien le costicc’

Tla rotonda du c’è Snoopy

me sent mal e anca stupid

quand so vers Villa Fastiggi

me dann sotta le vertigin

Per gì a Pesre per gì a Pesre

per la Montelabbatese

ce sarann ducent rotond

venghen sò piò svelt di fong

Per gì a Pesre per gì a Pesre

per la Montelabbatese

per fè tutte stè rotond

el cervell me se confond

Questa è l’ultima rotonda

ma la testa me se sfonda

e davanti all’Ipercoop

me s’arbalten anca i occh’

Pass el pont de Mirafiori

e rivomito di fuori

bugo dentro al bug soccors

el dottor me da de mors

Ma sa ch’enn tutte ste storie

per tre o quattre rotatorie?

En c’è el post all’ospedal

buttet giò tel port canal

Per gì a Pesre per gì a Pesre

per la Montelabbatese

tra le ond e le rotond

oramai so git a fond

Per gì a Pesre per gì a Pesre

per la Montelabbatese

per fè tutte stè rotond

el cervell me se confond

Non si può alla fine concludere senza un accenno alle altre manifestazioni espressive artistiche che Duccio frequenta con impegno e successo, come l’attività teatrale nella “Compagnia Dialettale Urbinate”, dove partecipa come commediografo, musicista e attore, ai suoi videoclip esilaranti e ben centrati in rapporto al testo poetico e musicale e a quelle che mi piace chiamare “performances estemporanee”, realizzate in giro per i vicoli urbinati o per i borghi limitrofi e, qualche volta, intelligenti e efficaci provocazioni volte a denunciare lo stato di fatto in cui si trova la “gente” a vivere, senza che chi di dovere provveda almeno per attenuare il disagio, come nella breve, fulminante Risolta la problematica del parcheggio nel centro storico d’Urbino.

Insomma Duccio (Marchi) rappresenta per questa piccola città che non sa staccarsi dalla sua immagine immobile di centro rinascimentale, se non in ciò che la rende sempre più isolata e svuotata e incapace di trattenere quelle tradizioni culturali e antropologiche che sarebbero invece fondamentali per una identità cittadina, un esempio unico, forte, capace di imprimere o almeno di spingere, verso la presa di coscienza dei problemi che attanagliano la città e i cittadini e il tutto attraverso l’ironia, il divertimento, la musica originale e piacevole, l’immagine di sé scissa e, al tempo stesso, compartecipe da quella professionale, il cui impegno e valore rimane indubbio. Lui ci mette l’”anima”, noi forse dovremmo ascoltare e guardare e riflettere.

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