MENZOGNA O POST-VERITÀ?

Ormai siamo abituati a vivere nella menzogna, mentiamo a noi stessi e accettiamo falsità che ci vengono distribuite con tutti i mezzi possibili. Ma cosa è, o potrebbe essere, la menzogna ( o se si vuole la fake news per usare un termine adottato da chi lo ritiene figo, o ignora che ce ne sia uno in italiano forse più preciso, o vuole sfoggiare una falsa cultura nozionistica, o ancora pensa che menzogna sia troppo forte e politicamente scorretto, rischiando di offendere qualche specifica categoria) e, la menzogna, è proprio condannabile a priori o può essere tollerata?

Intanto è indubbio che nella politica e nel governo dello Stato sapere usare con cautela la verità è una condizione necessaria, pena in non riuscire a esercitare le due attività. In alcune situazioni ci si vede costretti, nell’esercizio della vita pubblica, a essere ambigui, evasivi, o, addirittura, di fingere o di mentire e, per dirla tutta, riteniamo anche che sarebbe ingenuo, quando non inopportuno, non farlo. Ma allo stesso tempo pensiamo che mentire sia sbagliato tanto che la scoperta di una menzogna può screditarne autore fino a metterne in crisi la reputazione. È un’ambiguità che, a dire il vero, esiste da sempre; non ci piace e non esaltiamo forse la figura di Ulisse, colui che con l’astuzia inganna uomini e dei, falso, bugiardo, pur di ottenere quanto desiderato? Attraverso la sua figura e il suo mito riconosciamo la forze della menzogna e abilitiamo il suo uso in determinate situazioni, ma, al tempo stesso, la condanniamo.

Già Platone, pur ammettendo che l’uomo o in quanto uomo fatto di parole non potrà mai esserne esente e riconoscendone, se non l’utilità, la tolleranza sulla scia dell’insegnamento di Socrate nel caso della conservazione dello Stato (Repubblica, 389b-389c, 414d-414e, 415a, 416b, 416e, 415c., 414d), condannava la menzogna, sia personale che, per così dire, pubblica, senza riserve, almeno nella prospettiva del perseguimento di una vita moralmente corretta. A questa posizione sono avversi coloro i quali, non senza ragione, sostengono che senza la menzogna non ci sarebbe una vera vita interiore, cioè, in un certo senso, una privacy interiore, e la vita sarebbe un continuo conflitto e riempita di afflizioni.

Tuttavia come concetto generale si ritiene che la società debba sempre partire da un premessa di correttezza, non sarebbe infatti pensabile che trattando con qualcuno o con un’istituzione fossimo convinti che chi ci sta davanti non dice la verità. Insomma siamo pervasi da un atteggiamento duplice: da una parte accettiamo l’utilità della menzogna o meglio la sua necessità, magari contenendola entro certi limiti e con determinate giustificazioni, dall’altra la condanniamo senza riserva come sbagliata conformandoci, in modo o nell’altro, con il pensiero platonico.

I casi sono molti. Per esempio si ritiene tollerabile mentire quando non farlo provocherebbe o renderebbe più intenso un conflitto, o addirittura quando con la menzogna si opera una certa forma di protezione nei confronti di quella parte di popolazione da informazioni che potrebbero far scaturire in loro sentimenti ostili o anche di frustrazione o panico, come il tacere o rendere più tenue da parte di un medico comunicazioni deleterie sullo stato di salute del paziente, cosa tra l’altro oggi quasi impossibile senza il rischio per medico stesso di prendersi una denuncia. Insomma sarebbe lecito mentire o quando meno giustificato, qualora il risultato della menzogna apporterebbe un effetto benefico, insomma migliora la posizione piuttosto che peggiorarla. Ma c’è una questione importante da considerare, che è appunto quella, con più o meno precisione, avanzata da Platone. In fatti per mentire è necessario conoscere la verità, ma stabilire consapevolmente e intenzionalmente di comunicare all’interlocutore proprio l’opposto, se la cosa falsa non si sa che è falsa, non si sta mentendo.

Certo che il problema non è propriamente semplice, anche per il fatto che mentendo si commettono, in pratica due scorrettezze contemporaneamente. Da una parte quello di essere a conoscenza della verità e di nasconderla volontariamente, e dall’altra quello di indurre gli altri nell’errore volontariamente ingannandoli. Tuttavia che mentire, nei casi sopra citati sia comune e per alcuni necessario, è un’evidenza e, anche se negato, accettato dal senso comune. Così alcuni filosofi, moralisti e sociologici hanno cercato di metterci una pezza e, tra questi, spunta, ormai come un leitmotiv quasi tedioso, il nome di Immanuel Kant. Per il pensatore tedesco naturalmente non dire la verità è sbagliato a priori, ma, ecco la scappatoia, si può omettere la verità, se non siamo interpellati e. a volte è possibile e concesso dire una non-verità o tacere, non dire nulla, anche se in linea teorica ciò rimane una menzogna, che però non danneggia l’interpellato, né chi aspetta la risposta, esempio noto quello di Kant: “Un uomo che sa che ho del denaro, mi domanda, per esempio: «Hai del denaro?». Se taccio, l’altro concluderà che ne ho; se rispondo affermativamente, me lo porterà via; se dico di no, mento. Cosa si deve fare in un caso del genere? Dal momento che sono costretto con la forza a fornire una confessione che mi riguarda, che di quanto avrò detto verrà fatto un uso illegittimo e che tacendo non mi potrò salvare, la menzogna è una difesa. L’estorsione di una dichiarazione, di cui si abusa, rende lecita la mia difesa. Infatti, l’estorcermi una confessione equivale qui a portarmi via del denaro. Perciò in nessun caso può essere ammessa la menzogna per necessità, a meno che non si tratti di una dichiarazione estortami e io sia convinto che l’altro ne vuol fare un uso indebito. Ma una menzogna, che non leda nessuno e gli interessi di nessuno, è ancora una menzogna? Sì”, (I. Kant, Lezioni di etica, p. 260). A parte l’esempio citato capita continuamente anche nella quotidianità di mentire con buon intento, per esempio se dobbiamo fare un complimento a un genitore con un figlio decisamente brutto, meglio tacere, ma se ce lo chiede? Se rispondiamo che “sì, è bello”, mentiamo a noi stessi, ma se siamo sinceri rischiamo di offendere l’altro. Risposta solita “è un tipo”, “sì, e molto particolare” ecc. Insomma una non-verità. Cosa in qualche modo ribadita dalla Bibbia: “Nel molto parlare non manca la colpa, chi frena le labbra è prudente” (Proverbi, 10:19).

In altre parole siamo portati a accettare le così dette “bugie innocenti”, per usare un linguaggio destinato solitamente all’infanzia, ammettendo che la verità non debba essere sempre tutta la verità. A questo principio fanno eco le parole di Nietzsche per il quale il fatto che la menzogna sia necessaria testimonia che le relazioni umane non siano mai del tutto libere dal disagio che genera la suscettibilità, la gelosia e l’incertezza.

Sempre che non si finisca, come oggi accade, nella così detta post-verità, cioè nell’uso della menzogna a fini propagandistici rendendo reale ciò che non lo è. L’Oxfor Dictionary ne dà questa definizione: “Post-truth: un aggettivo che si riferisce a circostanze i cui fatti oggettivi sono meno influenti nel plasmare l’opinione pubblica degli appelli alle emozioni e alle credenze personali”, e Dizionario Treccani: “post-verità: Argomentazione, caratterizzata da un forte appello all’emotività, che basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati tende a essere accettata come veritiera, influenzando l’opinione pubblica”. In altre parole il tentativo, purtroppo spesso riuscito, basti considerare le notizie e i commenti sull’epidemia, i vaccini ecc., di creare una condizione in cui i fatti, i dati di fatto, non interessano molto, se per nulla, il mondo della comunicazione, reso possibile dall’uso, o meglio dall’abuso, dai mezzi di comunicazione di massa, in primis i social. Ne risulta una destabilizzazione, creandosi una situazione in cui manca la sensazione che ci possa essere una verità e, soprattutto, che proprio coloro, istituzioni, politici ecc., che dovrebbero garantirla e tutelarla, non siano interessati a farlo, anzi proprio l’opposto, usando la falsa verità per i propri fini.

Si finisce così per ritenere corretto che informazioni false, tendenziose e utili solo a screditare qualcuno o qualcosa, posano essere intenzionalmente lanciate nella stessa maniera di quelle attendibili, venendo recepite e considerate buone, vere, e rendendo difficile, se non quasi impossibile, agire secondo un preciso pensiero, credere nella comunicazione e prendere decisioni. Sembrerebbe una cosa poco possibile. Infatti se la post-verità mette in crisi la verità, sarebbe logico pensare che l’analisi del dato di fatto, che ha la possibilità di porre fine a un avvenimento o a una notizia fasulla con l’evidenza dei fatti stessi, sarebbe sufficiente a permettere di predisporre e adottare sistemi seri di verifica per chiudere il discorso svelando l’evidenza e quindi la verità. Ma è proprio qui che intervengono i mass media, internet e i social network con campagne di persuasione massicce sull’utente con false notizie, là dove, tra l’altro, lo stesso fruitore tende a cercare e a adottare l’opinione che in qualche modo è più vicina a quella che aveva già, riconfermandola, reputando falsa quella di chi vi si oppone. Inoltre un simile atteggiamento, amplificato e spinto da chi ne ha interesse, mette in crisi l’attendibilità dello stesso mezzo di verifica. Tutto ciò avviene anche per il motivo che spesso il credere un fatto, un evento, un enunciato vero, dipende da chi lo enuncia, cioè, se non si ha una dimensione critica autonoma, ci si fida di chi è credibile o tale si rende, attraverso una gestione della propria immagine ben studiata e sfociando, non di raro, nel populismo. Questo è un atteggiamento che nel corso della storia ha agito e è stato sfruttato sovente dal potere o da un presunto contro-potere, spesso con conseguenze disastrose se non nefaste. E forse è proprio a questo che si dovrebbe reagire.

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