MORTE ASSISTITA.

Morte assistita, suicidio assistito, sono espressioni che tornano con costanza d’attualità, specie di questi tempi che nelle Marche il Tribunale Civile di Ancona avrebbe in pratica autorizzato alla sua applicazione in per un paziente gravemente immobilizzato e fortemente sofferente da numerosi anni. Al di là del caso specifico, quello del suicidio assistito è un tema che muove molti problemi e colpisce la sensibilità comune. È, comunque la si veda, una scelta morale e etica, e questo detto da uno che nella morale e nell’etica poco crede, ma certamente è una scelta che coinvolge la sfera personale e sociale. Non poca però la confusione, prima tra tutte quella di etichettarla sotto il generico termine di eutanasia. Parola mutata dal greco antico, composta dal suffisso “eu” che significa “bene”, e dal sostantivo “thanatos” “morte” (più precisamente presso i greci è la personificazione maschile della morte), che indica, appunto, la “buona morte”, e che comprende varie tipologie: eutanasia volontaria quando il soggetto desidera morire e lo esprime, lo vuole, ma non è in grado di provvedere da solo (il caso delle Marche), e qui ci troviamo davanti a quello che comunemente si definisce suicidio assistito; eutanasia involontaria, quando il soggetto non desidera morire, ma il suo volere viene ignorato, e che spesso si associa all’omicidio; e eutanasia non volontaria quando il soggetto versa in una condizione incosciente o non è comunque in grado di esprimere un volere e la decisione viene presa da altri.

Si diceva che si tratta prevalentemente di una scelta etica e morale, ma, si potrebbe obiettare, “in fondo ognuno ha una propria etica e una propria morale”, vero e ineccepibile, ma, di fatto, anche le posizioni personali, nella nostra cultura occidentale, risentono fortemente di modelli morali e etici che l’hanno caratterizzata e ai quali ognuno, consapevolmente o no, fa riferimento, a seconda soprattutto, dell’educazione ricevuta, del grado di cultura raggiunto, dall’ambiente in cui è cresciuto ecc.. Questi sono i più comuni, cioè in genere quelli più radicati nel nostro modo di pensare, l’Etica Cristiana, l’Etica Kantiana, il Consequenzialismo, l’Utilitarismo i cui maggiori teorici sono stati J. Bentham e L. Stuard Mill e, meno conosciuta, la Teoria delle Virtù, che si rifà più o meno direttamente all’Etica a Nicomaco di Aristotele.

Sotto la suggestione di uno di questi indirizzi, spesso poi adattandolo alle proprie esigenze e credenze, ognuno prende una posizione rispetto ai problemi, in questo caso sul suicidio assistito. Così chi si affida all’etica cristiana, probabilmente, nutrirà seri dubbi su una giustificazione morale della morte assistita come scelta etica consapevole e necessaria per uscire dal dolore, in quanto la vita non appartiene alla persona, ma a Dio e perché sarebbe contraria al Comandamento “Non uccidere”. Ma questo comandamento dell’Antico Testamento potrebbe, agli occhi dei critici, contrastare con quello evangelico “ama il tuo prossimo”, nel senso che se un individuo si trova a dover sopportare un dolore indicibile, può configurarsi come un atto d’amore il concedergli di morire e mettere fine alle sofferenze come crede, poiché da nessuna parte nel Vangelo c’è scritto che il dolore deve essere sopportato e può costituire un valore; Gesù quando guarisce lebbrosi o dona la vista o fa resuscitare Lazzaro allevia il loro dolore senza minimamente cercare di fare capire loro se il dolore possa avere un senso o no, tesi sostenuta oggi, ma direi da sempre, da numerosi e illustri teologi anche cattolici (“Gesù spiegò al lebbroso, al cieco, allo storpio, al morto il significato morale della loro malattia, o li guarì? Alzi la mano chi pensa che nel Regno i beati comprenderanno il significato morale della sofferenza, soffrendo, piuttosto che godere la beatitudine eterna” A. Vaccaro, La linea obliqua, EDB). Opinabile, ma fa riflettere. D’altronde se ci si appoggiasse all’etica kantiana dove in nome dell’imperativo categorico l’uomo non costituisce mai un mezzo ma un fine, e al dovere di non uccidere mai nessuno, trattandosi del volere dell’interessato di morire e non avendone i mezzi per farlo da solo, l’imperativo categorico muterebbe, (per dirla in maniera a dire il vero alquanto imprecisa) e si configurerebbe come una giustificazione morale a favore dell’eutanasia. Per l’utilitarista il problema sarebbe differente, non una questione di doveri, ma sul modo di computare gli effetti sulle scelte operate, se cioè è preferibile che il soggetto muoia come chiede per porre fine al dolore, o lasciarlo in vita contro la sua volontà e soffrire e, pure, quali ricadute avrebbe sulla società in generale la scelta, per esempio sul costo per mantenerlo in vita. In fine un seguace della Teoria delle virtù sposterebbe l’attenzione su chi deve eseguire l’operazione, considerando che uccidere è sempre contrario alla virtù della giustizia e a quella della carità, ma nel caso del suicidio volontario la morte porterebbe un giovamento a chi la chiede volontariamente, per cui per la virtù della carità costituirebbe un beneficio, quindi l’aderente alla Teoria delle virtù non prederebbe posizioni definitive, rimanendo legato alla particolarità di ogni caso. Si potrebbe andare avanti all’infinito con esempi di differenti modi di porsi di fronte al problema e è chiaro che altri ancora se ne aprirebbero, non ultimo quello delle leggi in vigore in singoli Paesi, poiché se si compisse una violazione di una legge entrerebbe in causa anche la discussione sulla eventuale moralità della violazione di una legge.

In altre parole quando si tratta di trasportare teorie etiche sul lato pratico della vita le cose si complicano molto. Tanto più oggi, basterebbe pensare ai progressi e alle ricerche, molto avanzate anche se poco pubblicizzate, spesso sponsorizzate anche da Stati nazionali, sulla genetica volti al prolungamento della vita fino la unlimited life (attualmente alcuni tra i ricercatori più ottimisti parlano di 300 anni di vita in salute e con una giovinezza praticamente stabile e attualizzabile già sulla generazione dei figli dei nostri adolescenti), sulla sconfitta della vecchiaia considerata da molti scienziati non un semplice ciclo della vita, ma una patologia e che come tale va combattuta (note le ricerche di A. de Gray e M. Rae, La fine dell’invecchiamento, D. editore, 2016, testo scientifico, ma ben fruibile, con qualche difficoltà e con un dizionario di medicina e biologia accanto, anche a un lettore non specializzato), verso la realizzazione della felicità umana a cui l’uomo ha sempre teso, fin dalla nascita della filosofia, della scienza e della tecnica, che altro non sarebbe che la sconfitta definitiva del dolore e della morte, concetto indiscutibile, poiché pure le posizioni religiose altro non fanno che tendere a una vita eterna di qualsiasi tipo sia. Insomma il raggiungimento, in un’epoca come la nostra in cui la tecnica è divenuta il mezzo, ma anche il fine (sostituendosi all’episteme pur volendolo superare?), per il raggiungimento di quello che Emanuele Severino chiama il “Paradiso tecnologico o della tecnica”, auspicato, ma del quale poi, il filosofo, non evita di sottolinearne i rischi e l’impossibilità di cancellare comunque l’alienazione umana.

Ma questo è un altro discorso, quello che rimane evidente è che ogni modo di affrontare simili problemi che coinvolgono la sfera dell’etica sono utili per chiarire e avanzare nella discussione, anche perché si tratta di decisioni che rimangono comunque le più difficili da prendere, ma anche le più importanti, di quelle che si devono adottare nella vita personale e sociale. La responsabilità di ogni scelta individuale, nella nostra società, ricadrà a conti fatti sulla vita di tutti, la condizionerà e ne indicherà, in maniera più o meno netta, la direzione. Sorge, in altre parole, un problema di responsabilità personale verso se stessi e verso gli altri, siano essi individui direttamente coinvolti nella nostra esistenza come figli, amici, parenti, o la moltitudine che compone la società organizzata in cui abbiamo scelto, volenti o per caso di nascita, ma i termini non cambiano poiché si potrebbe sempre scegliere di andarsene o di mutarla in maniera pacifica se se ne hanno i mezzi, di vivere.

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