POCHE PAGINE DI STEPHEN KING.

Per undici mesi, più o meno esperti in materia, ci hanno descritto, o tentato di farlo, come si diffonde un’epidemia e come viaggia con le persone e i loro spostamenti, in realtà lasciando tutto a un livello un poco superficiale, nel senso che più di ascoltare le loro parole, le si odono quasi distrattamente e dandole per scontate. Queste poche righe di Sthephen King, tratte da uno dei suoi migliori libri, L’ombra dello scorpione del 1978, riescono, a mio parere, a rendere l’idea del problema meglio di qualsiasi analisi specialistica e fredda, e a far comprendere quanto sia subdolo e incontrollabile un virus se non si prendono gli adeguati provvedimenti preventivi, e, come non di rado accade con i lavori dello scrittore statunitense, pure belle da leggere.

CAP 8

Il 18 giugno, cinque ore dopo che aveva parlato con suo cugino Bill Hapscomb, Joe Bob Brentwood bloccò un tale per eccesso di velocità sulla US40 del Texas, una quarantina di chilometri a est di Arnette. Il contravventore era Harry Trent di Braintree, un assicuratore. Andava a più di cento all’ora in un tratto di strada dove vigeva il limite di ottanta. Joe Bob gli contestò una multa per eccesso di velocità. Trent l’accettò umilmente, poi fece ridere Joe Bob tentando di convincerlo a sottoscrivere una polizza sulla casa e la vita. Joe Bob stava benone; l’idea della morte era l’ultima cosa che gli passasse per la testa. Eppure, era già malato. Al distributore Texaco di Bill Hapscomb non aveva fatto il pieno solo di benzina. E a Harry Trent non diede soltanto una contravvenzione per eccesso di velocità.

Harry, un individuo socievole che amava il suo lavoro, trasmise la malattia a più di quaranta persone durante quel giorno e il successivo. A quanti altri quelle quaranta persone la trasmisero, a loro volta, impossibile dirlo: tanto varrebbe chiedersi quanti angeli possono danzare sulla capocchia di uno spillo. Volendo fare una cauta stima approssimativa di cinque a testa, si arriverebbe a duecento. Usando la stessa formula prudente, si potrebbe dire che quei duecento ne infettarono mille, i mille cinquemila, i cinquemila venticinquemila.

Nel sottosuolo del deserto californiano, finanziato con il denaro dei contribuenti, qualcuno Sant’Antonio che funzionava davvero. Una catena di Sant’Antonio decisamente letale.

Il 19 giugno, il giorno in cui Larry Underwood tornò a New York e Frannie Goldsmith disse a suo padre del Piccolo Forestiero in arrivo, Harry Trent si fermò a pranzare in un ristorantino del Texas orientale chiamato Babe’s Kwik-Eat. Ordinò un grosso hamburger al formaggio e, per dessert, un pezzo della squisita crostata di fragole di Babe. Aveva un leggero raffreddore, forse una forma allergica, e continuò a starnutire e a sentire il bisogno di sputare. Durante il pasto, infettò Babe, il lavapiatti, i due camionisti nel separé d’angolo, l’uomo che entrò a consegnare il pane, l’uomo che entrò a cambiare i dischi del juke-box e quel bocconcino da leccarsi le dita che lo servì al tavolo. Le lasciò un dollaro di mancia che brulicava letteralmente di morte. Mentre usciva, arrivò una giardinetta: aveva un portabagagli sul tetto ed era stracarica di ragazzini e di valigie. L’auto aveva la targa di New York e l’uomo al volante, che abbassò il finestrino per domandare a Harry come raggiungere la Statale 21 in direzione nord, parlava con l’accento di New York. Harry diede al tizio di New York indicazioni chiarissime su come raggiungere la Statale 21. E, senza neppure saperlo, diede anche a lui e a tutta la sua famiglia le loro condanne a morte.

Il newyorkese era Edward M. Norris, tenente di polizia, squadra investigativa dell’Ottantasettesimo distretto della Grande Mela. Era la sua prima vera vacanza da cinque anni. Lui e i suoi familiari si erano divertiti moltissimo. I ragazzi si erano sentiti al settimo cielo al Disney World di Orlando e, non sapendo che l’intera famiglia sarebbe morta entro il 2 luglio, Norris aveva già in mente di dire a quell’acido figlio di cane di Steve Carella che era possibilissimo portarsi moglie e figli in auto da qualche parte e divertirsi. Steve, gli avrebbe detto, sarai anche un bravo investigatore, ma un uomo che non è in grado di mantenere l’ordine nella sua famiglia non vale un buco fatto con il piscio nella neve.

La famiglia Norris fece uno spuntino nel locale di Babe, poi raggiunse la Statale 21 seguendo le precise indicazioni di Harry Trent. Ed e sua moglie Trish commentarono ammirati l’ospitalità del Sud, mentre i tre ragazzini coloravano un album sul sedile posteriore. Lo sa solo Cristo, pensò Edward, che cosa avrebbe combinato invece quella coppia di mostriciattoli di Carella.

Quella notte si fermarono a dormire a Eustace, nell’Oklahoma, in un motel. Ed e Trish contagiarono il portiere. I ragazzini, Marsha, Hector e Stanley, contagiarono i compagni di giochi del motel – ragazzini diretti verso il Texas occidentale, l’Alabama, l’Arkansas e il Tennessee. Trish passò l’infezione alle due donne che stavano facendo il bucato alla lavanderia a gettone a due isolati di distanza. Ed, percorrendo il corridoio del motel per prendere del ghiaccio, contagiò un turista che incrociò sulla porta. Tutti entrarono nel gioco.

Trish svegliò Ed di prima mattina per dirgli che Heck, il piccolino, stava male. Aveva una brutta tosse raschiante e la febbre. Le pareva che si trattasse di difterite. Ed Norris emise un borbottio e le disse di dare al marmocchio dell’aspirina. Se la dannata difterite avesse aspettato solo altri quattro o cinque giorni, Heck si sarebbe ammalato a casa sua e a Ed sarebbe rimasto il ricordo di una vacanza perfetta. Udiva il povero bambino che latrava come un cane, attraverso la porta di comunicazione.

Trish si aspettava che i sintomi di Heck sparissero in mattinata – la difterite è una malattia subdola – e invece, a mezzogiorno del 20, dovette ammettere tra sé e sé che la cosa non si verificava. L’aspirina non abbassava la febbre; il povero Heck aveva gli occhi vitrei. La tosse ora aveva un timbro cavernoso che non piaceva per niente a Trish, e il respiro era affannoso e strozzato dal catarro. Di qualunque cosa si trattasse, pareva che anche Marsha se la stesse prendendo, e Trish avvertiva un fastidioso pizzicore in fondo alla gola che la costringeva a tossire, anche se finora era una tosse leggera che riusciva a soffocare con un fazzolettino. “Dobbiamo portarlo da un medico,” disse alla fine.

Ed si fermò a una stazione di servizio e studiò la carta stradale attaccata allo schermo del parabrezza. Si trovavano a Hammer Crossing, nel Kansas. “Non saprei,” disse. “Forse possiamo almeno trovare un dottore che ci dia l’indirizzo di uno specialista.” Sospirò e si passò preoccupato una mano fra i capelli. “Hammer Crossing, Kansas! Gesù! Perché si è dovuto ammalare al punto di aver bisogno di un dottore in un buco maledetto come questo!”

Marsha, che stava studiando la carta al di sopra della spalla del padre, annunciò: “Qui dice che Jesse James ha rapinato la banca di questo paese, papà. Due volte.”

Chi se ne fotte di Jesse James,” grugnì Ed. “Ed!” esclamò Trish. “Scusa,” fece lui, pensando che non aveva proprio niente di cui scusarsi. Rimise in moto.

Dopo sei telefonate, durante ciascuna delle quali Ed Norris dovette mantenersi calmo con tutte le sue forze, alla fine trovò un medico a Polliston disposto a visitare Hector se fossero riusciti a portarglielo entro le tre. Polliston non era sulla loro strada, una trentina di chilometri a ovest di Hammer Crossing, ma adesso la cosa più importante era Hector. Ed cominciava a preoccuparsi molto per il bambino. Non l’aveva mai visto così abbacchiato.

Alle due del pomeriggio erano già nella sala d’attesa del dottor Brenden Sweeney. A questo punto, anche Ed starnutiva. La sala d’attesa del dottor Sweeney era affollata; i Norris dovettero aspettare fin quasi alle quattro. Trish non riusciva a strappare Heck da una sorta di fiacca semincoscienza e si sentiva febbricitante anche lei. Solo Stan Norris, nove anni, stava ancora abbastanza bene da dar noia con la sua irrequietezza. Durante l’attesa nell’anticamera del dottor Sweeney trasmisero la malattia, che presto sarebbe stata nota in tutto il paese come “Captain Trips”, a più di venticinque persone, compresa una matrona che fece solo una capatina a pagare la parcella prima di andare a contagiare tutte le signore del suo circolo del bridge.

La matrona in questione era la signora Bradford, Sarah Bradford per il circolo del bridge, Cookie per suo marito e per gli amici. Sarah giocò bene quella sera, forse perché giocava in coppia con Angela Dupray, la sua migliore amica. Pareva che quelle due comunicassero con una sorta di felice telepatia. Vinsero nettamente tutt’e tre i rubbers, facendo anche un grande slam nell’ultimo. Per Sarah, l’unico neo della serata fu che, a quanto sembrava, le stava venendo un leggero raffreddore. Non era giusto, gliene era appena passato uno.

Lei e Angela andarono a bere qualcosa in santa pace in un bar, quando la riunione si sciolse, alle dieci. Angela non aveva fretta di tornare a casa. Quella sera toccava a David ospitare gli amici per il poker settimanale e lei non sarebbe riuscita a prender sonno con tutto quel fracasso… a meno che prima non prendesse un piccolo sedativo non esattamente prescritto dal medico, che nel suo caso consisteva in un paio di gin fizz fatti con il gin di prugnole.

Sarah prese un Ward 8 e le due donne discussero tra loro della partita di bridge. Nel frattempo, riuscirono a contagiare tutti gli avventori del bar di Polliston, ivi compresi due giovanotti che bevevano birra poco più in là. Erano diretti in California in cerca di fortuna, proprio come avevano fatto una volta Larry Underwood e il suo amico Rudy Schwartz. Un amico aveva promesso loro un lavoro in una compagnia cinematografica. Il giorno dopo, ripartirono verso ovest, diffondendo la malattia.

Le catene di Sant’Antonio non funzionano, è un fatto ben noto. Il milione di dollari che vi promettono se solo spedite un unico dollaro al nome in cima alla lista, aggiungete il vostro in fondo, e poi diffondete la lettera ad altri cinque amici, non arriva mai. Questa catena, la catena di Captain Trips, funzionò alla perfezione. La piramide si andava costruendo non dal fondo verso l’alto ma dalla cima in giù: dove la cima era una guardia di sicurezza dell’esercito di nome Charles Campion. Tutte le pecore stavano arrivando all’ovile. Solo che, a differenza del postino che recapita a ciascun partecipante sacchi e sacchi di lettere, contenenti ognuna un biglietto da un dollaro, Captain Trips portava con sé sacchi e sacchi di camere da letto con in ciascuna uno o due corpi, e buche in trincea, e fosse comuni, e infine corpi gettati negli oceani da ogni costa e nelle cave e tra le fondamenta di case mai finite. E da ultimo, ovviamente, i corpi sarebbero rimasti a marcire là dove cadevano.

Sarah Bradford e Angela Dupray tornarono insieme verso il parcheggio dove avevano lasciato le auto (contagiando quattro o cinque persone che incontrarono lungo la strada), poi un bacetto sulle guance e via, ciascuna per la propria strada. Sarah andò a casa a contagiare il marito, i suoi cinque compagni di poker e la loro figlia adolescente, Samantha. Senza che i suoi lo sapessero, Samantha aveva una terribile paura di essersi beccata lo scolo dal suo ragazzo. Sta di fatto che se l’era beccato. Sta anche di fatto che era una paura superflua: di fronte a quanto le aveva passato la madre, una bella, dose di scolo non era più grave di un invisibile eczema su un sopracciglio.

Il giorno dopo Samantha avrebbe proceduto a contagiare tutti i presenti nella piscina dell’YWCA di Polliston.

E così via.

King, Stephen. L’ombra dello scorpione, Bompiani, Edizione del Kindle, pp.103-108

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