ROS LO CONTE: IL “FLUIRE” DELLA POESIA.

La poesia è qualcosa che sta al di là dei calcoli, del senso e del significato, non è soggetta alla

storia. Non ha un luogo, non è qui, dentro l’uomo e neppure fuori di esso, è una forma di attesa, di

domanda che non chiede risposta, una sorta di dialogo. E mi sembra sia quello che emerge

dall’ultima raccolta di Ros Lo Conte, Risvegli (Il Convivio Editore, 2022), dove l’ansia di una

rivelazione inattesa si dipana lungo versi che oscillano tra l’aspettativa di un dopo e la presenza

forte della rêverie, intesa nel senso che le ha dato nei propri studi Gaston Bachelard, ma con

sfumature del tutto personali che, al tempo stesso, impongono una certa distanza tra i versi di Ros e

la poetica del filosofo francese.

La rêverie non intesa propriamente come “sogno”, come stato inconscio o comunque onirico, ma

come astrazione dal presente pur essendoci immersi dentro, non un “oppio” o una

morfinizzazione”, per citare un grande critico, ma come una presa di coscienza di un modo di

essere e di interpretare, restituire la realtà, in maniera inedita e sempre aperta a domande, a

interrogazioni che scendono nel profondo del corpo più che dello spirito e lo rendono partecipe di

ciò che lo circonda, pur calandolo in un’attesa, fosse anche solamente l’attesa del risveglio o del

disincanto.

Infondo l’immagine poetica è una conquista della parola e per questo per Bachelard la rêverie non

si può raccontare (come accade dallo psicanalista), come un sogno, ma necessita di essere scritta. Si

materializza in oggetti, in animali, in immagini che solo apparentemente sono disposte a svanire,

ma che in realtà permangono e partecipano a modificare il reale o, meglio, a renderlo un altro reale

che sembra scomparire quando il risveglio si presenta, con più o meno dolcezza, magari riportando

a galla sensazioni lontane, perfino infantili, che hanno però segnato indelebilmente il presente. E

tutto ciò attraverso la parola poetica che Lo Conte articola in versi che a volte scivolano via, a volte

sembrano fermarsi e, come nell’ultima sezione del libro, disciogliersi quasi in filastrocche infantili

dove la rima apparentemente facile gioca il ruolo di depistare dal senso ultimo e vero, reale che quei

versi sottintendono. Si leggano questi della parte intitolata Risvegli.

Sognavo di dormire

e il sogno

era di aspettare

il risveglio.

E mi guardavo

da lontano

piccolo come una formica

dello stesso colore

delle cose

sulle quali viveva.

E ancora

da più lontano

ci osservava entrambi

(me e quello che era

l’occhio di me stesso)

una grossa palla

che rideva di noi

e ci faceva paura

con una voce spessa

da clown

per nulla divertito.

Così il ritorno

tardava a venire

e continuavo a sognare

di svegliarmi,

fino ad incontrare

una mano

che finalmente vicina

mi scuoteva,

un poco e dolcemente.

Lo stesso sogno

fatto tante volte

da ragazzo

quando, come ora,

la mia strada

era in tutto sconosciuta

e quando era

la mano di mia madre

e la sua cura

a custodirmi

in una realtà

prossima e sicura.

Tutto ciò tuttavia per il poeta non si risolve o non si limita a quei momenti di trapasso tra il sonno e

il risveglio, al dormiveglia per intenderci, ma si presentano anche nella piena coscienza,

trasformando in immagini quasi oniriche oggetti e situazioni che poeticamente si trasmutano in una

speciale fantasticheria che astrae. Ma il presente, il reale non è esiliato, c’è sempre, forse è in

agguato, come nel bel pezzo, l’unico in prosa – prosa poetica direi – del libro, e dove l’azione

avviene in un luogo ben definito anche geograficamente, ma che viene trasfigurato o forse

dimenticato nel momento in cui la forza della poesia si impossessa delle immagini che ha davanti:

la gondola in disarmo nel caso specifico, rivelando altre realtà, anzi quasi trasformando elementi

tecnici” della piccola imbarcazione, in motivo di spogliazione, come se l’immaginazione fosse già

al servizio dell’immagine finale, tetra, funerea, crea una correlazione forte tra oggetto e soggetto e il

poeta plasma un mondo che può esistere in quanto sognato, ma che attraverso un elemento

sensoriale torna poi immediatamente da dove era partito; da un piatto di risotto al nero di seppia.

Mentre mangiavo in un ristorante di Venezia con i tavolini sulla riva di un canale minore mi è

capitato di assistere, da una posizione privilegiata, alle operazioni di ricovero notturno di una

gondola. Il gondoliere, che prima aveva dismesso il cappello con il nastro rosso e la maglietta a

righe bianche e blu, indossando abiti borghesi, ripara la gondola lontano da scale che danno sul

canale e la lega, facendo scendere sulle fiancate le protezioni di gomma. Poi, toglie il Gonfalone

con il leone alato dorato che è sulla prua dopo il “ferro” con i sei sestrieri della città e il Cimiero

(una specie di diadema in legno intagliato) che corona il divanetto a poppa. Li ripone nei cassoni

della gondola.

I cuscini rossi delle poltroncine che sono davanti al divanetto vengono riposti nel divano stesso e le

poltrone piegate a terra davanti a questo.

Poi vengono tolti i Cavalli (decorazioni dorate laterali) e i vari Pomponi rosso e “e manine” (sorta

di ganci dorati) e tutti conservati in cassoni.

È l’ora del remo e del remo di riserva che obliquamente trovano spazio nella gondola.

La barca disadorna adesso assume sempre più un colore nero che prima era solo prevalente. Nera è

la copertura impermeabile divisa in due parti tra poppa e prua con una cerniera al centro che segue

la forma di un arco che prima viene montato al di sotto. Adesso la gondola viene chiusa da questo

coperchio impermeabile ed è completamente nera. E assomiglia proprio ad una bara che

galleggia dolcemente, così come poeticamente la vedevano Goethe,

Thomas Mann e D’Annunzio.

Beh…il mio risotto al nero di seppia, tipicamente veneziano, sta per diventare freddo e così

abbandono i brutti pensieri.”

E la gondola, Venezia, ci introducono in un altro elemento importante nella poesia di Lo Conte:

l’acqua. Torna naturalmente il magistero di Bachelard, per il quale la rêverie è intimamente legata

ai quattro elementi primordiali, forse sulla scia e la suggestione di Jung: “Sognando davanti al fuoco, l’immaginazione scopre che il fuoco è il motore del mondo. Sognando

davanti a una sorgente, l’immaginazione scopre che l’acqua è il sangue della terra, che la terra ha

una profondità vivente. Toccando con le dita una pasta dolce e profumata, cominciamo a

manipolare la sostanza del mondo” (La poetica della rêverie). Però la poesia di Lo Conte prende

una via differente da quella indicata dal filosofo d’oltralpe, forse parte dagli stessi presupposti, ma

poi vi si distanzia e trova una sua strada. Bachelard non ama l’acqua in tutte le sue manifestazioni,

egli predilige l’acqua dei fiumi, dei torrenti, l’acqua dolce “ la vera acqua mitica […]” mentre

quella del mare “è un’acqua disumana, che viene meno al primo dovere di qualsiasi elemento che si

rispetti, ovvero di servire direttamente gli uomini”. Il mare con la sua salinità rinvia a un senso di

perversione che finisce per inibire la rêverie naturale capace di lenire il dolore, il mare non crea

sogni, ma è solo adatto a formulare racconti. Posizioni che per Bachelard derivano forse dalle sue

origini, dalle sue sensazioni infantili, legate a ambienti non certamente marini: “Sono nato in un

paese di ruscelli e di fiumi, in un angolo della Champagne ondulata, nel Vallage, così chiamato a

causa del gran numero delle sue valli(…) Avevo quasi trent’anni quando ho visto l’Oceano per la

prima volta. Così, in questo libro, parlerò male del mare, ne parlerò indirettamente ascoltando quel

che ne dicono i libri dei poeti, ne parlerò restando sotto l’influenza dei luoghi comuni scolastici

relativi all’infinito. Per quanto riguarda la mia rêverie, non è l’infinito che trovo nelle acque, è la

profondità”.

Ros ha percorso un itinerario contrario, è nato, partito, dalle splendide acque di Salerno per

approdare nell’affascinante, ma immobile, serenità del lago di Como. Forse per questo il suo

atteggiamento è differente e la sua poesia acquista un altro tono, un’altra cifra di fronte la

suggestione delle acque. Per lui mi sembrano più appropriate le parole di Melville nell’incipit del

suo capolavoro: “Prendete qualsiasi sentiero vi piaccia e, nove volte su dieci, questo vi conduce in

una valle e vi lascia lì, acanto a uno stagno formato dalla corrente. C’è del magico in questo. Che il

più distratto degli uomini sia immerso nelle sue più profonde fantasticherie: mettete quest’uomo in

piedi, fategli muovere le gambe, ed egli, infallibilmente, vi condurrà all’acqua, se acqua c’è in tutta

la regione.. Se vi succedesse mai di restare assetati nel gran deserto americano, provate

l’esperimento, dato che la vostra carovana sia eventualmente fornita di un professore di metafisica”.

In queste parole l’acqua sembra rivestire il ruolo di un richiamo, quasi mistico, che induce chi la

osserva a perdersi; esercita un’attrazione forte che può portare fino a perdersi, e per questo forse

Melville evoca il mito di Narcisio, di colui che nell’acqua scompare: evoca il mistico richiamo che

induce lo sguardo a una contemplazione sognante fino a smarrirsi, a lasciarsi assorbire: “E ancora

più profondo di significato è quel racconto di Narciso, non potendo stringere l’immagine

tormentosa e soave che vedeva nella fonte, vi si tuffò e annegò. Ma quella stessa immagine noi la

vediamo in tutti i fiumi e negli oceani. Essa è l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita; e

questo è la chiave di tutto”. L’acqua è l’elemento dell’origine, in cui è possibile la contemplazione

dello scorrere incessante dell’esistenza e, nello stesso tempo, quel caos forse primordiale da cui si

proviene e in cui si può ritornare attratti dalla volontà e dal desiderio di lasciare che il fato compia il

proprio corso trascinandosi via tutto.

Così in Lo Conte dal ricordo “irrisolto” emerge il “mare azzurro” e sensazioni forse infantili legate

a quello, assieme a altre indeterminabili, ma per venire a capo delle quali sarebbe forse necessario

navigare “a vista / tra imprinting / e vecchie / sensazioni”, tra ciò che ci è connaturato, che è antico

e che abbiamo assorbito con un procedimento naturale senza neppure rendercene conto.

Poesia irrisolta

Non so a voi…

ma il mio ricordo

procede a tratti

come i sogni,

mettendomi davanti

un attimo tra i tanti

o una parola

che non c’entra

niente.

E, senza un anello

conseguente,

riaffiorano dispersi

altri momenti.

Certo,

mi viene in mente

il primo mare azzurro,

visto chissà dove,

e un orologio

regalato dallo zio,

ma mancano

all’appello

i tanti momenti

degli amori

(tranne un addio),

le ore interminabili

al lavoro

e i discorsi

a voce alta

sui massimi sistemi.

E come il sogno,

la storia dei ricordi

sembra avere

un senso suo,

ma non tanto.

E per capirci

un po’di più,

perché questa

è la prima volta

che ci penso,

converrà tornarci su

in maniera dirimente,

navigando a vista

tra imprinting

e vecchie

sensazioni.

Ma appunto non c’è questa differenza tra mare e acqua dolce che invece si manifesta nel filosofo

francese. L’unità, il ritorno all’origine, al caos, è possibile anche davanti o dentro la tranquillità del

lago, o forse è proprio quello che ci spinge a negare che proprio nelle sensazioni più grandi, ridotte

a piccole cose, o nell’esatto contrario, stia il “prodromo del nulla”, l’inizio infausto, ma anche, se

diversamente letta quella parola, restituendole il suo significato arcaico, come quella parte che

possiamo considerare l’introduzione a un’opera maggiore.

Forse l’unità

che abbiamo cercato

in un punto lontano

tra cielo e mare

possiamo ancora trovarla

qui, in questo dolce lago,

immoto tra i venti e i tempi.

O piuttosto,

senza specchiarci altrove,

stiamo solo piegando

la nostra immagine

in un hortus conclusus,

a mutare grandi

con piccole passioni.

Negando

che in esse

versi l’indifferente

prodromo del nulla.

Un hortus conclusus in cui si può assorbire la tranquillità e la necessaria serenità che conduce alla

parola poetica, magari contemplando la bella scultura sulla diga The life electric di Libeskind.

Della serenità del lago

leggo su un cartello

a spiegazione

di un’opera di Libeskind

che non piace a molti

però sta in un bel posto

per prendere il sole

per scrivere poesie

e fare il pieno di Energia,

rovello dell’autore.

(…)

L’acqua è la fonte della vita, ma anche il suo scorrere il suo indefinibile fluire verso qualcosa di

atteso, di imprecisato, che trova i suoi intoppi, i propri momenti di stasi che sono però illusori e

menzogneri attimi, per riprendere poi il corso in vista del ricordo del luogo o del baleno in cui tutto

è iniziato. Un ritorno, ma per il raggiungere il quale è necessario “tuffarsi” in quell’acqua, capirne il

corso, il verso, e seguirlo, o meglio, lasciasi andare al suo fluire, alla corrente del caso, se si vuole

del destino, che governa, in fin dei conti, il tutto.

Adesso che il fiume

è presso la sua foce

di molto rallenta

il corso

e se, per capirne

il verso,

getto nell’acqua

un fuscello,

dato ormai

per perso…

credo che

si fermi un poco

e poi,

dentro a un mulinello,

pure m’inganna

e mente

come un ricordo

verso la sorgente.

La vita, l’esistenza, appare come un susseguirsi di azioni, più o meno evidenti, un agire sì, pure un

opporsi, ma comprensibile solo nella sua mobilità, non nel suo essere fermo, dato, concluso, anche

quando le acque sono placide e sembrano irrimediabilmente stagnanti. Ros Lo Conte ci restituisce

una poesia che non si compie in se stessa, ma lascia aperte domande che forse non richiedono

neppure una risposta, non una cifra definita, una verità, ma un susseguirsi di stupore e di attese, un

dialogo ininterrotto con se stesso e quindi con la poesia, con la letteratura, in una lotta interminabile

con il tempo e con la materia, con lo spirito, con tutto ciò, in pratica, che riveste l’immagine di un

mondo minore.

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