SCHEDE D’ARTE: IL CRISTO DERISO DEL BEATO ANGELICO

Il Rinascimento non è stato solamente il trionfo dell’umano, del mondano, ma al suo interno, e non certo in una posizione defilata, ha continuato a svilupparsi una tensione mistica che ha trovato altissima espressione. Certo non ci si trova più di fronte a una visione fortemente teocentrica, come nel Medio Evo, ma a una quasi trasposizione di valori a livello simbolico, dove l’uomo recita una parte comunque di tutto rilievo, e i significati mistici o metafisici vengono espressi attraverso la simbologia dello spazio e del colore o, anche, di una alta astrazione intellettuale.

In questa direzione mi sembra si muova l’opera del Beato Angelico, al secolo Guido di Pietro e detto Giovanni da Fiesole (1395-1455), pittore domenicano beatificato da Giovanni Paolo II nel 1982.

Diverse sono le opere note del pittore toscano, ma sicuramente le più presenti al grande al pubblico rimangono quelle del Convento di San Marco a Firenze, a cui si dedicò, su incarico di Cosimo de’ Medici, tra il 1438 e il 1445. I contemporanei dell’artista sono soliti attribuire tutto il ciclo degli affreschi all’Angelico, in particolare Giuliano Lapaccini, ma oggi, sia per una questione di tempi di esecuzione, sia per la sovrapposizione di più stili, anche se tendenti a imitare quello del maestro, si ritiene che siano intervenute più mani, soprattutto quelle degli allievi, pittori tuttavia non certo di secondo calibro, se si considera che tra questi vi era Benozzo Gozzoli.

Tra gli affreschi presenti nel convento fiorentino, un particolare interesse ha in me sempre destato, quello ubicato nella cella numero 7 del dormitorio, sia per la peculiarità dell’esecuzione, anche se sono presenti dei precedenti, sia per i valori formali che lo caratterizzano: il Cristo deriso.

La rappresentazione prende lo spunto dai Vangeli, soprattutto Luca 22, 63-65, Matteo 27,27-31, e poi riproposti da Jacopo Da Varagine ne la Leggenda Aurea e da Caterina Da Siena ne la Lettera a monna Tora, figliuola di misser Pietro Gambacorti in Pisa, Lettera n.194, solo per citare i testi più diffusi al tempo.

Cristo è rappresentato bendato con in testa la corona di spine. La veste bianca non è qui simbolo di purezza, ma quella che veniva fatta indossare ai pazzi; una spugna al posto della sfera e un bastone a quello dello scettro, i simboli regali. Attorno a lui l’aguzzino di profilo che gli sputa, mani sospese nel vuoto che stanno per schiaffeggiarlo, un bastone pronto a picchiare. Un’iconografia che è certamente mediata dalle Imagines Pietatis medievali rappresentanti gli strumenti della Passione, ma la sintesi che ne opera l’Angelico è da ritenersi innovativa oltre che particolare.

La postura di Cristo bendato, come nell’omonimo quadro dell’Argenti, (quasi come l’immagine classica della fortuna) è frontale, grave quasi come quella degli antichi evangeliari romanici, il Christus Triunphans, con l’aureola frontale, la raggera in rosso che aveva trovato un suo precedente nel Christus Triumphans tunicato disegnato da Veneziano Fortunato nell’illustrazione dell´inno De Cruce Domini. Inoltre, volendo, si può notare come aureola contrasti con la corona di spine, con una sicura scienza prospettica, che si troverà nell’opera del Masaccio. I colori, bianco, rosso e verde, rimandano ai simboli della Fede (bianco), della Speranza (verde), e dell´Amore (rosso).

Ma non è tutto, in questo affresco spazio e tempo determinano un piano, si potrebbe dire, metafisico. Degli aguzzini compaiono solo visi e mani pronti allo scherno e sono dipinti nel fondale verde, ne fanno parte, compendiati iconicamente in uno spazio-tempo diverso da quello di Cristo, anche se vi interagiscono. Tuttavia Cristo non è del tutto al di qua del fondale spazio-temporale, ma ne è in qualche maniera avvolto, nonostante che il suo trono gravi su un basamento marmoreo ben posato nello spazio antistante, mentre il sedile rosso sembra compenetrarsi con il fondale. In questo modo la sua estensione non appartiene, se non minimamente, allo spazio esterno con lo zoccolo del sedile posto sul limite tra il verde del fondale e il basamento marmoreo. Ne viene che la figura del Salvatore è partecipe di due spazi-tempi e li mette in relazione, infatti gli strumenti della passione non sono tutti sullo stesso piano, ma alcuni davanti e altri dietro a lui. Così come il contrasto dei colori si pone come evidenziatore di questi spazi-tempi, dove il basamento marmoreo bianco dona un che di statuarietà, di immobilità, atemporale e aspaziale, al di là dello spazio-tempo alla figura di Cristo.

Così tempo e spazio di Cristo sono interagenti e sono in grado di ospitare la Madre vicina alla strazio del figlio anche da un punto di vista temporale e San Domenico, invece, che risulta lontano dalla scena, ma che ne viene ugualmente coinvolto, ponendosi come tramite tra il mondo mistico e quello terreno, invitato a seguire l’esempio e l’insegnamento di Gesù, nel caso dei Domenicani, attraverso la meditazione, la preghiera e lo studio, come testimonia il libro nelle mani del santo e la sua intensa lettura. Le figure appaiono semplificate e alleggerite, la cromia tenue e spenta. La forte plasticità di forma e colore, derivata da Masaccio, crea per contrasto un senso di viva astrazione. I gesti sono ispirati a una gamma varia e naturale, che si ritroverà poi negli affreschi del soggiorno romano del pitture, in particolare nella Cappella Niccolina in Vaticano, anche se alcuni studiosi attribuiscono la Vergine alla mano di un collaboratore.

Anche l´accordo dei colori è prevalente in tutta la scena, e rimane indelebile nella memoria dello spettatore. Lo suo splendore cromatico che caratterizza la Buona Novella di Cristo Re dell´universo, apparentemente in contrasto con il soggetto della scena, la passione, prevale sul mistero doloroso che rappresenta. Cristo umiliato e deriso resta il Re, che con questo suo percorso in discesa è arrivato a tutti.

Un affresco, non certo facile da osservare e capire a fondo, che trasmette, nel suo complesso, un senso di immobilità, che lo sfondo piatto accentua con l’isolamento della figura principale e eludendo così qualunque distrazione che allontani l’attenzione dai confini della scena e che rimane, a mio parere, uno dei massimi esempi di arte simbolica e di innovazione della pittura del tempo.

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