SCHEDE D’ARTE: LA “FLAGELLAZIONE” DI PIERO.

 

La “Flagellazione” di Piero della Francesca, conservata presso la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, è uno dei quadri più studiati e interpretati dalla Storia dell’Arte come capolavoro assoluto del primo Rinascimento Italiano e, a tutt’oggi, rimane un enigma irrisolto. Sarebbe quindi arduo tentare di risolvere l’arcano, ma può essere interessante esplorare almeno le interpretazioni che i maggiori studiosi dell’artista di San Sepolcro hanno via via formulato.

Il dipinto è autografo, come si evince dalla firma del pittore sul gradino ai piedi di Pilato e, sicuramente, è stato creato per la corte di Urbino.

La difficile interpretazione dell’opera, in mancanza di notizie coeve, è soprattutto data dalla sua strana e inedita iconografia. La tavola è divisa in due parti, a destra il supplizio di Cristo alla colonna con l’aguzzino intento a flagellarlo, un personaggio di spalle che assiste e un altro, più a sinistra, seduto su di un trono, il tutto all’interno di una architettura classica, romana direi, in cui campeggia sopra la colonna la statua di un dio romano. Sulla destra, in un esterno moderno, lo sfondo di una città, e tre personaggi in abiti quattrocenteschi che sembrano discutere tra loro.

Cosa significa? Qual è il valore simbolico della coesistenza di queste due scene lontane nel tempo e nello spazio tra di loro?

Tralasciando quelli che sono i valori formali, la costruzione prospettica del quadro, la staticità metafisica delle figure (quelle frustate sembrano non calare mai sul corpo di Gesù, sono come bloccate in un istante), che pure sono forse la parte più rilevante dell’opera, ma richiederebbe uno studio a parte, l’interpretazione più antica, e anche quella tradizionale che da sempre è circolata in Urbino, tanto che anche i bambini delle scuola primaria ne sono a conoscenza, e formulata intorno al XVIII secolo, vedrebbe nei tre personaggi sulla destra il conte Odantonio da Montefeltro, fratello di Federico e suo predecessore, al centro del trio vestito della tunica rossa e scalzo, Federico stesso a destra e suo figlio Guidobaldo a sinistra. Ben presto è sopravvissuta solo l’identificazione di Odantonio, il quale fu ucciso in una congiura nel 1444 assieme a alcuni suoi dignitari, rappresentanti negli altri due personaggi e, per la precisione, Manfredo del Pio e Tommaso d’Agnello, considerati “consiglieri malvagi”. L’ipotesi sarebbe avvallata per il fatto che nella simbologia di Piero i personaggi con il braccio destro abbassato sono solitamente deceduti al momento della realizzazione dell’opera, per il fatto che il giovane è scalzo come gli angeli e che indossa una veste rossa, simbolo di potere. La scena sarebbe quindi messa in rapporto simbolico analogico con la passione di Cristo e il suo tradimento, così come Odantonio sarebbe stato tradito dagli urbinati stessi. In questo caso la tavoletta sarebbe da datare al 1444 e la commissione dovrebbe essere attribuita a Federico da Montefeltro che succedette al fratello nella guida del ducato. La cosa pare però improbabile, soprattutto per il fatto che fin dall’inizio si sospettò che dietro la congiura stessa ci fosse proprio Federico, ansioso di prendere il potere.

Secondo Toesca non esisterebbe nessun rapporto tra le due scene, insomma il pittore si sarebbe disinteressato del significato dell’opera. Più accurata forse l’ipotesi di Gombrich che vede nella figura dell’uomo con la barba Giuda, nel momento in cui restituisce ai sacerdoti del Sinedrio le monete del tradimento, ma nel quadro non vi è traccia dei trenta denari, né la presenza di borse o oggetti simili.

Sicuramente più articolata la proposta del Borgo, che fa derivare la raffigurazione dal Vangelo di Giovanni dove si narra che i membri del Sinedrio rimasero fuori da palazzo di Pilato. Ma questa interpretazione non tiene conto di alcuni elementi: la presenza del giovane a piedi nudi e con la tunica, mentre gli altri due uomini sono in abiti moderni. Lo studioso ha sostenuto che Piero si sarebbe ispirato a un affresco perduto raffigurante la Flagellazione di Andrea del Castagno.

L’interpretazione si Gilbert, che inizialmente aveva liquidato i tre uomini sulla destra come “passanti”, si è poi concentrato sulla scritta “Convenerunt in unum”, un tempo assimilata al quadro, e che negli Atti degli apostoli è legata alla passione di Cristo. Quindi i personaggi potrebbero essere identificati con Pilato sul trono, Erode (l’uomo col turbante) e in primo piano, da sinistra a destra, un gentile, un soldato e Giuseppe d’Arimantea. Seguentemente Clark avanzava l’ipotesi che i tre personaggi fossero intenti a meditare sulle sofferenze di Cristo, per cui si proposero due probabili datazione dell’esecuzione: il 1459 in occasione della convocazione del Convegno di Mantova da parte di Pio II per convincere i principi cristiani alla nuova crociata e il 1461 quando la reliquia dell’Apostolo Andrea fu portata a Roma da Tommaso Paleologo rappresentato nell’uomo con la barba, come indicherebbero i vestiti.

Nuova la versione di Aromberg Lavin per il quale il pittore avrebbe rappresentato il colloquio tra Ottaviano Ubaldini della Carda, consigliere di Federico e suo fratello, e committente del quadro (a sinistra) con Ludovico Gonzaga marchese di Mantova. I due personaggi starebbero parlando delle sventure familiari che avrebbero colpito entrambi: rispettivamente la morte del figlio e l’invalidità del nipote, raffigurato al centro prima della malattia. Ottaviano inviterebbe Ludovico a rassegnarsi, ricordandogli, attraverso la flagellazione, che la gloria cristiana è superiore ai dolori terreni. È, questa, una lettura però molto contestata, tanto da ritenersi infondata.

L’ipotesi che ha maggior credito è tutt’oggi quellla di Gouma-Peterson che, rifacendosi a Clark, nota che le calze cremisi indossate da Pilato erano parte del bardamento degli imperatori d’Oriente. Pilato sarebbe da identificare con Giovanni VIII Paleologo e la flagellazione simboleggerebbe le sofferenze della Chiesa sotto la minaccia dei Turchi. L’uomo a destra sarebbe un principe occidentale, l’uomo barbuto un greco, come indicano le vesti, mediatore tra Oriente e Occidente, il giovane invece sarebbe “l’atleta della virtù” pronto per la lotta.

Lo scarto tra i due mondi, quello del presente e quello della passato del supplizio di Cristo, è sottolineato anche dalla diversità delle fonti di luce, provenienti da sinistra e da destra.

A commissionare il quadro sarebbe stato il cardinal Bessarione, e rappresenterebbe una specie di “missiva” inviata a Federico per convincerlo a intraprendere una crociata contro i turchi. Nell’uomo barbuto sarebbe rappresentato il ritratto del cardinale Bessariore.

Al di là delle interpretazioni riportate quello che si può notare è come Piero voglia de-storicizzare l’evento della Flagellazione, nel senso che collocandola nel suo periodo storico, a sinistra, ma contemporaneamente, dipingendo un momento quotidiano della sua contemporaneità, ne porta il valore a assoluto: quel fatto ha un valore che travalica i limiti della datazione storica, diviene universale.

A sostegno di questa lettura c’è in fine da notare un’altra particolarità importante. Almeno fino al 1839, sotto i tre personaggi si poteva leggere la scritta, tratta dal Salmo II, “Adstiterunt reges terrae et principes convenerunt in unum adversus Dominum et adversus Christum eius”, che il completamento a quella già citata, e che la tradizione cristiana poi, attribuì alla passione di Cristo, in particolare alla celebrazione del Venerdì Santo. Piero potrebbe averla posta in quel luogo per sottolineare il significato universale dell’opera. Una traduzione di tale frase potrebbe essere: “I re e i principi si riunirono e concordarono all’unanimità contro il Signore e contro Cristo”, dove quel “Christum eius” sembra proprio voler sottolineare l’appartenenza al divino, a una sfera superiore che rende senza tempo e dona un valore unico e universale quanto accaduto.

Il discorso rimane aperto, ma sarà difficile giungere a una interpretazione definitiva, anche perché della biografia di Piero della Francesca sappiamo poco e quindi anche del suo milieu culturale, se si toglie la corte urbinate che, già se per se stessa, era luogo in cui la simbologia proveniente da culture diverse, arabe, ebraiche, greche ecc. era di casa. Certo è che per la sua particolarità, non sembra possibile pensare che, come alcuni pretendono, non abbia in realtà nessun rinvio simbolico o allegorico, ma sia solamente un raffinato esercizio stilistico, prospettico e geometrico.

Lascia un commento