SILENZIO.

 

SILENZIO.

La cappa divelta agganciata dietro il punto estremo delle orecchie, bianco parallelepipedo sterilizzato, utile schermo alla premura delle insolite vie che si insinuano tra le papille storte. Attorno il chiarore inusuale di un soffio che proviene dal basso, forse una finestra non chiusa in corrente con la porta dimenticata spalancata, o per un cambio d’aria, da fumo acre accumulato di tabacco, o di strati emergenti di noia, apatia e paranoia.

Questo chiassoso caos di assenza di suoni e rumori, si lacera sotto lo stridore delle unghie del gatto che avanza, che vuole insegnarmi come si campa in assenza di suppellettili utili, protesi antiche e nuove, magari amplificatori artificiali, innaturali, e non risonanze di gole scavate da torrenti per anni e anni.

Bisogna scacciarlo il gatto quando si assume una tale presunzione, ma subito, appena il pesante volume pieno di segnetti arcaici neri gutemberghiani in Garamont corpo 12, lo sfiora, lo manca per un pelo, alle unghie retrattili graffianti il cotto centenario, prezioso, di una casa del centro, subentra il fruscio sottile del computer rimasto acceso. Anche lui ha da insegnarmi qualcosa. Se poi prendo con la mano il muose, forse qualcosa ne verrà fuori da quella freccetta bianca che vaga sul corpo dello schermo rivelando la sua anima.

E poi guarda che caso? Proprio un topo, per quanto di plastica e solo di forma vagamente simile, comanda il gioco, un topo, come quello da cui tutto è partito, da cui si è creato il silenzio, con le ali d’accordo, il topo, e bollito da un’orientale goloso, brodo con spaghetti di soia.

Si ricorrerà a terapie dell’urlo senza soluzione, assenti di proposte, grido nel vuoto lanciato a caso per espellere tutto ciò che un io ramingo ha inglobato. Necessità di tirarsi fuori dall’altro o di appellarsi a qualche immagine di santo con l’effigie pagana, un Apollo travestito da San Sebastiano legato a una colonna e trafitto nelle sue nudità, che elargisce promesse sicuro che qualcuno sarà pronto a scommettere sulla propria vita.

E in tutto ciò un silenzio bronzeo per le strade, che quasi gela le discese e il Palazzo, l’assurda regolarità della sua piazza, nega il vento ai vicoli in un’apparente dimensione metafisica, dove ci si rende viandanti, nomadi permanenti.

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