SUL CONTAGIO.

 

È arrivato. Ospite indesiderato. Non ha ancora preso possesso di questo corpo, ma si aggira, minaccioso, misterioso, ambiguo e sicuro della propria potenza. Come un cecchino dalla trincea della Grande Guerra, o come il killer che si nasconde dietro l’anta della finestra del palazzo a lastroni di marmo del centro di Sarjevo, all’incrocio di due vie principali, e aspetta, paziente, prende bene la mira e colpisce. Infido.

Si è presentato di soppiatto, lontano migliaia di chilometri. Un evento naturale come un altro, questa volta globale. Ma era là. Qui ci si sentiva quasi sicuri, comunque protetti dalla distanza, dai chilometri che nessun Marco Polo questa volta avrebbe potuto percorrere senza controlli, e dall’illusione che non varcasse le frontiere, quasi fosse un clandestino. Senza passaporto. E poi eccolo (improvviso? imprevedibile?), prendere cittadinanza nelle nostre città, stabilirsi nei locali pubblici, nelle scuole, annidarsi in agguato nelle nostre case.

L’animale umano è imprevedibile e quasi privo di reazione istintive. Un po’ di preoccupazione iniziale, poi allarme, poi panico, eccessivo, forse non del tutto motivato, malgrado l’inopportuno bisogno di immagine e protagonismo di Presidenti di regione con mascherine sul viso, man mano che la macchia epidemica si allargava e nonostante le rassicurazioni degli esperti e degli organi di governo, non tutti a dire il vero.

Il rimedio, per chi ne è capace? Fatalismo, augurarsi che la Moira ci sorrida, che qualcuno ci abbia passato una pennellata di sangue di agnello sul corpo o sulla soglia della porta, che il flagello se ne vada via, che ci ignori come la decima piaga del Esodo per il Popolo d’Israele. Ma un Dio, qualsiasi, ‘sta volta non c’entra nulla, è innocente. Non c’è nessuno da punire o da convincere. È natura, non è la prima volta e non sarà l’ultima. Nient’altro da fare, se non seguire le indicazioni preventive fornite e, giustamente, ripetute all’infinito dagli addetti ai lavori istituzionali e sanitari.

Zona rossa, zona arancione, zona gialla, zone di contagio. Sembra di essere tornati in tempo di guerra, dicono i più anziani. Già! Ma io non so cosa è una guerra. Non l’ho mai vissuta, non ne ho fatto esperienza. Neppure per gioco durante le esercitazioni nell’anno di leva. L’ho letta sui libri, a volte con tante belle figure fin dalle Elementari che esaltavano l’aspetto ipocrita dell’eroico (dei vincitori chiaramente), quello sì, e me ne sono fatto un’idea del tutto mia, per quanto sia, una visione quasi mitica, a volte ancorata alla storia del passato, distorta, falsa, priva, in realtà, di tutta la componente emotiva e di sofferenza e di dolore che sottintende e si porta dietro. Dentro per chi l’ha vissuta.

L’ho vista. Nelle foto, nei filmati alla TV, telegiornali, special, special di special, talk show. In internet, sui social. Ma era lì, rappresentata, null’altro. Presente, ma distante. Non era storia, perché faceva parte del mio presente in atto, la vedevo, ma era al tempo stesso passato che non mi avrebbe toccato, né cambiato, né, forse, fatto riflettere. E poi se fosse stata fiction? Insomma, indifferente.

Le epidemie sì, quelle me le ricordo. Il colera nel ’73 del secolo scorso. Quella volta una certa paura l’ebbi a dire il vero, forse perché ero un ragazzino suggestionabile, anche per le decine e decine di telefonate che arrivavano al mio babbo medico da pazienti ansiosi e terrorizzati. E con tanto di qualche episodio di dissenteria psico-somatica, prontamente messa a tacere dai rimproveri severi di mio padre incazzato come una Jena, che ci ripeteva di non essere paranoici. Lavare le mani, non mangiare cibi crudi, stare attenti insomma. Poi l’AIDS e anche lì un accentuato nervosismo si faceva sentire, erano i tempi dell’Università in pieni anni ‘80, quando essere in voleva dire essere out, trasgressione insomma, e incontri occasionali non ancora propriamente protetti non erano una rarità. La Mucca Pazza, che non è un virus, ma che per uno goloso di fegato alla vicentina come me qualche disagio lo creava. L’Aviaria, la SARS, alle quali non feci quasi caso. Oddio, ci pensavo, era anche impossibile non farlo con quella copertura mediatica seppur centinaia di volte minore di quella di oggi, ma tutto sommato non mi sentivo in allarme.

E ora siamo qui, con una grande tirata di culo, mi si passi l’espressione. E allora? E allora fare il possibile, senza psicosi inutili e dannose e più contagiose di qualsiasi microrganismo acellulare, continuare la vita, anzi il vivibile, per quel che si può, auspicarsi che smetta di diffondersi, evitare di contagiare gli altri se si avesse la jella di beccarlo, e magari sperare che presto la tecno-scienza ci permetta di trasformarci in cyborg, o fare un bel mind uploding, o pilotare il genoma verso un organismo perfetto, immune. Chissà se sarà meglio. Speriamo. Auguriamocelo.

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