UN CAPOLAVORO “CORTO”.

Non sono mai stato uno che ama i cortometraggi, mi sono sempre apparsi noiosi e al tempo stesso troppo brevi, rapidi. Si cambia idea nella vita e a me è capitato durante e dopo la visione del bel lavoro di Matteo Damiani, il giovane regista urbinate, che sbarca a Los Angeles. L’ultima festa (visionabile fino al 29 marzo su MY MOVIE, al link https://bit.ly/3tK91m8 e candidato al 17 Los Angeles Italia, Film Fashion and Art Fest, evento che precede la notte degli Oscar). Interpretato dalle bravissime Dora Romano e Luisa De Santi, per la regia appunto di Matteo Damiani, è un piccolo (nel senso di breve) capolavoro, che in soli 20 minuti riesce a raccontare una vita, una vita quasi ripescata da un tempo passato, appartenuto a nonni che sembravo ormai avi persi nella storia, ma che invece ancora segnano, e in maniera profonda, la nostra vita. Un mondo che sembra scomparso, e invece tuttora vive in alcune, molte, realtà paesane anche dei nostri luoghi.

La storia sembra quasi banale, ma in quella quotidianità apparentemente persa nel tempo, si rivela il significato, o il presunto senso, di un intreccio di vissuto e di vite che non riescono a esaurirsi nell’immagine stereotipata del presente, dell’apparente che continuamente bombarda il mondo che ci circonda, volutamente ignaro del passato che ha segnato e si è impresso nel DNA di ognuno di noi. In venti minuti, la storia di due sorelle, l’aspettativa di una festa paesana al Parco di San Bartolo di Fiorenzuola, l’imprevisto di un disastroso viaggio verso Gabicce su di un improvvisato furgoncino, per una visita specialistica di una delle anziane donne, Teresa, patologia rivelata, ma che è solo pretesto, non pietistico ritorcersi sulla trama, che mira invece a tutt’altro scopo.

Il ritorno, deluse, per un referto che in fondo non c’è stato. Toccante e realistica la scena al piccolo cimitero, la visita delle due donne alla lapide di Chiara, omaggio voluto da Teresa e ignoto a Celeste, quasi abbandonata tra il falasco alto e tagliente, e il gesto solito e istintivo proprio di Celeste, la sorella “sana”, che deposita con composto ritegno un fiore di campo sulla tomba. Atto forse naturale in quella cultura ancora legata in qualche modo alla terra e al rispetto dei morti, ma capace di smuovere anche in noi ricordi di gioventù un tempo subiti con noia o angoscia e ora, nel tempo, divenuti quasi rimpianto. Ma la meta rimane sempre quella, la festa, momento mitico, rituale e ancestrale. Festa perduta, troppo tardi, il furgoncino le ha tradite. Delusione, forse, meglio dire rassegnazione. Ma il rito non può non compiersi e nella notte le due sorelle danzano con malinconica contentezza nella piccola piazza del parco paesano accompagnate dalle note immaginarie di una musica leggera, popolare, penetrante, che riporta a luoghi e tempi passati, andati, ma registrati e impressi nella memoria collettiva di chi li ha vissuti direttamente o ne è stato imbevuto, come carta assorbente, dai racconti, più o meno ascoltati o fin anche solo tollerati, di genitori e di nonni.

Un piccolo grande film da vedere e da assaporare in tutta la sua semplice e pregnante bellezza, donata da un’interpretazione eccellente delle due protagoniste e, soprattutto, da una regia che si dimostra già, nonostante la giovane età, in qualche modo matura, collaudata, nella direzione dei gesti, nelle inquadrature, nei panorami che avvolgono le azioni non come sfondo ma come comprimari, negli scorci paesani che restituiscono un vissuto non più solamente meta di un turismo curioso e occasionale.

Bravo Matteo e auguri per Los Angeles.

Lascia un commento