ATTUALITÀ DI ALBERT CAMUS.

 

Due passi da La peste, romanzo del 1947 di Albert Camus, che, pur con le dovute differenze di luogo, tempo e situazione, potrebbero far riflettere sui tempi correnti e su noi stessi.

 

(…) Di più originale, nella nostra città, vi è la difficoltà che si può trovarvi a morire; difficoltà, d’altronde, non è la parola giusta e sarebbe più preciso parlare di scomodità. Non è mai piacevole essere ammalati, ma vi sono città e paesi che ti sostengono nella malattia, in cui si può, in qualche maniera, lasciarsi andare. Un malato ha bisogno di tenerezza, gli piace appoggiarsi a qualcosa, è naturalissimo. Ma a Orano gli eccessi del clima, l’importanza degli affari che vi si trattano, il poco rilievo dell’ambiente, la rapidità del crepuscolo e il genere dei piaceri, tutto richiede la buona salute. Un malato vi si trova proprio solo. E si pensi allora al moribondo, preso al laccio dietro centinaio di muri crepitanti di calore mentre nello stesso minuto tutta una popolazione, al telefono e ai caffè, parla di tratte, di polizze e di sconto; s’intenderà quanto vi può essere di scomodo nella morte, anche moderna, quando sopravviene in un luogo così arido.

 

  1. Camus, La peste, Classici Bompiani, Milano, 2000, pp. 374-375.

 

(…) La parola «peste» era stata pronunciata per la prima volta. A questo punto del racconto, che lascia Bernard Rieux dietro la sua finestra, si concederà al narratore di giustificare l’incertezza e la meraviglia del dottore: la sua reazione, infatti, con qualche sfumatura, fu la stessa nella maggior parte dei nostri concittadini. I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati. Il dottor Rieux era impreparato, come lo erano i nostri concittadini, e in tal modo vanno intese le sue esitazioni. In tal modo va inteso anche com’egli sia stato diviso tra l’inquietudine e la speranza. Quando scoppia una guerra, la gente dice: «Non durerà, è cosa troppo stupida». E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare. La stupidaggine insiste sempre, ce se n’accorgerebbe se non si pensasse sempre a se stessi. I nostri concittadini, al riguardo, erano come tutti quanti, pensavano a se stessi. In altre parole, erano degli umanisti: non credevano ai flagelli. Il flagello non è commisurato all’uomo, ci si dice quindi che il flagello è irreale, è un brutto sogno che passerà. Ma non passa sempre, e di cattivo sogno in cattivo sogno sono gli uomini che passano, e gli umanisti, in primo luogo, in quanto non hanno preso le loro precauzioni. I nostri concittadini non erano più colpevoli d’altri, dimenticavano di essere modesti, ecco tutto, e pensavano che tutto era ancora possibile per loro, il che supponeva impossibili i flagelli. Continuavano a concludere affari e a preparare viaggi, avevano delle opinioni. Come avrebbero pensato alla peste, che sopprime il futuro, i mutamenti di luogo e le discussioni? Essi si credevano liberi, e nessuno sarà mai libero sino a tanto che ci saranno i flagelli. E persino dopo che il dottor Rieux ebbe riconosciuto davanti all’amico suo che un gruppo di malati, senza preavviso, era morto di peste, il pericolo rimaneva irreale per lui. Semplicemente, quando si è medici, ci si è fatta un’idea del dolore e si ha un po’ più di fantasia. Guardando dalla finestra la sua città che non era mutata, appena appena il dottore sentiva nascere in sé quel lieve scoramento davanti al futuro che si chiama inquietudine. Cercava di radunarsi in mente quello che sapeva della malattia. Delle cifre gli ondeggiavano nella memoria, e si diceva che la trentina di grandi pestilenze conosciute dalla storia aveva fatto quasi cento milioni di morti. Ma che cosa sono cento milioni di morti? Quando si fa la guerra, appena appena si sa che cosa sia un morto. E siccome un uomo morto non ha peso che quando lo si è veduto, cento milioni di cadaveri sparsi traverso la storia non sono che una nebbia nella fantasia. Il dottore ricordava la peste di Costantinopoli che, secondo Procopio, aveva fatto diecimila vittime in un giorno. Diecimila morti fanno cinque volte il pubblico di un grande cinematografo. Ecco, bisognerebbe far questo: radunare le persone all’uscita di cinque cinematografi, condurle in una piazza della città e farle morire in mucchio per vederci un po’ chiaro. Almeno, si potrebbero allora mettere dei visi noti su quel cumulo anonimo. Ma, naturalmente, è impossibile far questo; e poi, chi conosce diecimila visi? D’altronde, uomini come Procopio non sapevano contare, la cosa è notoria. A Canton, settanta anni or sono, quarantamila topi erano morti di peste prima che il flagello s’interessasse degli abitanti. Ma nel 1871 non c’era il modo di contare topi. Si facevano i calcoli approssimativamente, all’ingrosso, e con evidenti probabilità d’errore. Intanto, se un sorcio è lungo trenta centimetri, quarantamila sorci allineati farebbero…

Ma il dottore si spazientiva; si lasciava andare, ed era male. Pochi casi non fanno un’epidemia, e basta prendere delle precauzioni. Bisogna attenersi a quel che si sapeva, lo stupore e la prostrazione, gli occhi rossi, la bocca cattiva, i mali di testa, i bubboni, la terribile sete, il delirio, le macchie sul corpo, l’irrigidimento interno, e dopo tutto questo… Dopo tutto questo, una frase tornava in mente al dottor Rieux, una frase che appunto terminava, nel suo manuale, l’enumerazione dei sintomi: «Il polso diventa filiforme e la morte sopraggiunge in occasione d’un movimento insignificante». Sì, dopo tutto questo, si era appesi a un filo e i tre quarti dei malati, era la cifra esatta, erano tanto impazienti da fare quel movimento impercettibile che li rovinava.
Il dottore guardava sempre dalla finestra. Da una parte del vetro il fresco cielo primaverile e dall’altra la parola che ancora risuonava nella stanza: la peste. La parola non conteneva soltanto quello che la scienza ci voleva mettere, ma anche una lunga serie d’immagini straordinarie che mal si accordavano con quella città gialla e grigia, moderatamente animata a quell’ora, ronzante piuttosto che rumorosa, felice insomma, se è possibile essere insieme felici e tetri. E una tranquillità sì pacifica e indifferente negava quasi senza sforzo le vecchie immagini del flagello, Atene contagiata e disertata dagli uccelli, le città cinesi piene di moribondi silenziosi, gli ergastolani di Marsiglia che accatastavano nelle buche i corpi grondanti, la costruzione in Provenza d’un gran muro che doveva fermare il vento furioso della peste, Giaffa e i suoi orribili mendicanti, i letti umidi e putridi stesi sulla terra battuta dell’ospedale di Costantinopoli, i malati trascinati con gli uncini, il carnevale dei medici mascherati durante la peste nera, gli accoppiamenti dei vivi nei cimiteri di Milano, le carrette di morti in Londra atterrita, e le notti e i giorni pieni dappertutto e sempre dell’interminabile grido degli uomini. No, questo non era ancora sì forte da uccidere la pace di quella giornata. Dall’altra parte del vetro, la campana d’un tram invisibile respingeva in un attimo la crudeltà e il dolore. Soltanto il mare, oltre la cupa scacchiera dei caseggiati, testimoniava di quello che vi è d’inquietante e di mai stabile nel mondo. E il dottor Rieux, guardando il golfo, pensava ai roghi di cui parla Lucrezio, innalzati davanti al mare dagli Ateniesi, ai tempi del morbo. Vi si portavano i morti durante la notte, ma il posto mancava e i vivi si battevano a colpi di torce per mettervi coloro che gli erano stati cari, sostenendo lotte sanguinose piuttosto che abbandonare i cadaveri. Si potevano immaginare i roghi rosseggianti davanti all’acqua tranquilla e scura, i combattimenti di torce nella notte crepitante di scintille e gli spessi vapori velenosi che salivano verso il cielo intento. Si poteva temere…
Ma una tale vertigine non reggeva davanti alla ragione. E’ vero che la parola «peste» era stata pronunciata, è vero che in quello stesso minuto il flagello scuoteva o abbatteva una o due vittime. Ma insomma, lo si poteva fermare. Quello che bisognava fare era riconoscere chiaramente quello che doveva essere riconosciuto, cacciare infine le ombre inutili e prendere le misure necessarie.
Poi la peste si sarebbe fermata, in quanto la peste non la si concepiva o la si concepiva falsamente. Se si fermava, ed era la cosa più probabile, tutto sarebbe andato bene. Nel caso contrario, si sarebbe saputo che cosa fosse, e se non vi fosse modo di adattarvisi prima per vincerla poi.

Il dottore aprì la finestra, il brusio della città si accrebbe all’improvviso. Da un’officina poco distante saliva il sibilo breve e ripetuto d’una sega meccanica, Rieux si scosse: là era la certezza, nel lavoro d’ogni giorno. Il resto era appeso a fili e a movimenti insignificanti, non ci si poteva fermare. L’essenziale era far bene il proprio mestiere.

 

  1. Camus, La peste, Classici Bompiani, Milano, 2000, pp. 400-403.

Lascia un commento