Shhh! Arriva l’uomo nero

Capitolo uno

I passi sembravano rincorrersi lungo la navata laterale. Le colonne. I pilastri. Le nicchie con i loro altari. Le pale di pittori manieristi. Anche celebri. Grandi artisti. Il gotico francescano, forse rivisitato, restaurato, conservava il suo austero richiamo alla povertà, all’essenziale.

Aveva bisogno di quel momento, di quell’atto. Dopo tanto tempo. Anni. Tanti anni. La necessità di vomitare fuori tutto quello che gli corrompeva l’anima o la psiche che dir si voglia. Guardò per qualche minuto il confessionale come volesse studiarlo, quasi per esorcizzarlo e trovare la forza di raggiungerlo. Poi l’orologio. Le sette. Mancava ancora mezz’ora alla funzione.

Si inginocchiò. Si preparò. Il sacerdote non era ancora arrivato. Forse non sarebbe mai arrivato, anche se lui nutriva la certezza che lo avrebbe sentito entrare nel suo scomparto. Lo udì. Sentì i passi riempire lo spazio ampio della navata, la mezza porticina aprirsi e poi chiudersi. Lo scricchiolio del legno del sedile sotto il peso del corpo e la tendina scostarsi. Una tenue luce scura penetrò dalle fessure della grata formata da tante piccole croci.

“Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.” Recitò segnandosi ancor prima che il prete dicesse qualcosa. Si ricordava bene il rito. Già immaginava il prete descrivere una croce nell’aria con le due dita unite.

“Dopo tanti anni devo aprire il mio cuore, svuotarlo, costi quel che co…”

SBRANG!

L’urto del tuono del colpo di pistola corruppe e frantumò il silenzio metafisico della chiesa. La grata divisoria del confessionale andò in frantumi, la sua testa esplose come un cocomero gettato a terra, la faccia volò via assieme alla materia cerebrale grigia e marrone sul pilastro bianco alle sue spalle.

L’assassino non si fermò a verificare che il lavoro fosse stato fatto bene. Era consapevole che quel rumore non sarebbe passato inosservato. Se ne andò di fretta scomparendo nel nulla. Quasi contemporaneamente le arcate a sesto acuto si riempirono dell’urlo di terrore e di stupore del sacrestano accorso, e della flebile bestemmia che il giovane frate addetto alla sorveglianza della chiesa si lasciò sfuggire prima di svenire, alla scoperta del cadavere ancora incandescente che spruzzava sangue, da quel che rimaneva della testa, come una fontana battesimale. Neppure nelle rappresentazioni del costato di Cristo trafitto dalla lancia di Longino in nessun quadro avevano mai visto tanto sangue sgorgare con simile veemenza.

 

“Allora. Che cazzo è successo qui?” Chiese con un tono infastidito il commissario Stecca. Nicola Stecca, bloccato sul pronao della chiesa, accanto a un pilastro, rigirava tra le dita della mano destra la sigaretta elettronica bianca

Si girarono di colpo. Quasi sorpresi gli agenti e i suoi due collaboratori diretti. Il sacrestano e il frate si scostarono un poco, mentre un altro confratello, decisamente più anziano, fece due passi in avanti con il portamento quasi greve di chi ancora cammina dopo una stracittadina di quarantadue chilometri e passa.

“C’è un morto.” Rispose Zappa. Un cenno della testa verso l’interno della chiesa.

“Ma va Leo? Questo potevo intuirlo. Se non altro per l’urgenza. E tutti questi curiosi attorno? Ma non hanno niente da fare? Uno spritz al bar. Tanto per sfuggire la calura.”

“Evidentemente no.” Suggerì Esposito, l’altro collaboratore, mentre si puliva un dente con un’unghia.

“Evidentemente no.”

Si mossero come per cercare qualcosa ma, a parte il pavimento in cotto, a terra c’erano solo cartacce. Stecca si sentiva un po’ oppresso sotto quel loggiato e ancor di più infastidito dalla folla che si era radunata attorno e premeva, allungava i colli oltre le linee di sbarramento del nastro bianco e rosso disposto dagli agenti, per cercare di sbirciare qualcosa. Oltretutto l’aria si era fatta pesante, afosa, con le lancette dell’orologio che andavano ormai verso il mezzogiorno.

“Chi sono quei tre?” Chiese accompagnando la domanda con un cenno della testa.

“Quello lì, diciamo in borghese, è il sacrestano, il signor…” Cercava degli appunti che non aveva.

“Il Sacrestano e basta, Esposito,” disse il commissario con un gesto sgraziato del braccio, “lo sai che tanto io per i nomi…”

“Ma nel rapporto…”

“Il rapporto lo fai tu e accanto al nome, tra parentesi, ci metti Sacrestano.”

Sacrestano.”

Sacrestano, appunto.”

“E che ci fa qui?”

“Il Sacrestano. Ha scoperto il cadavere.”

“Il Sacrestano?”

“Il Sacrestano.”

“Ah! E i due indivisa?”

“Quello più giovane è fratello Antonio, anche lui presente alla scoperta,” precisò Zappa.

“Anche lui? C’era una funzione?”

“No. Era l’addetto alla chiesa, non mi chieda a fare che.”

“Non lo chiedo. E l’altro?”

“Frate Casimiro. Il più anziano.”

“Il capo insomma! Come cazzo faccio a ricordarmi questi nomi.” Tirò forte dalla sigaretta elettronica emettendo una nuvola di fumo tipo effetto speciale in un concerto.

“No. O meglio adesso sì.”

“Leo per dio! O sì o no!”

“Ne fa le veci perché è il più anziano del convento. Il Priore, si dice così? Bè quello che è, al momento non è in sede.”

“Lontano?”

“In Africa. In una missione.”

“Abbastanza lontano da non c’entrare niente. Anche lui spettatore?”

“No, l’hanno chiamato subito dopo il rinvenimento. Vuole che li interroghiamo?”

“È il caso?”

“Il Sacrestano è piuttosto scosso. L’altro è svenuto.”

“Sai che precisione. Vediamo il corpo, altrimenti se ascolto prima loro mi trovo poi davanti un’altra scena.”

Varcarono la porta quasi in fila indiana, Zappa davanti, Esposito dietro, il commissario in mezzo. Continuava a portarsi la sigaretta alla bocca per poi distaccarla, indeciso se fosse il caso fumare in quel luogo, anche se si trattava di una sigaretta elettronica.

Degli agenti, alcuni in borghese, stavano fotografando la scena del delitto. Non c’era gran ché da immortalare nelle memorie delle macchine, ma era il loro lavoro. Anche il medico legale era sul posto, ‘anche questa volta per ultimo’ pensò Stecca, con un sorriso accennato sulle labbra che sembrava una smorfia tetanica.

Iniziò a guardarsi attorno.

L’ambiente gli apparve insolito. Inquietante. Non adatto per un omicidio. O forse sì, chissà quanti ne avevano commessi lì o in luoghi simili o perlomeno decisi in nome di cosa neppure sapeva spiegarselo. Ma almeno erano più raffinati, non un volgare colpo di pistola in faccia. Un bel pentolone pieno di olio e pece, per far bollire lentamente l’eretico di turno, come aveva visto e sentito in un documentario su Sky qualche anno prima.

Mariani gli si avvicinò quasi a zig zag tra le colonne. Il viso impassibile. Nascondeva quasi un sorriso ironico, una lamettata sul viso. La sua gamba poliomielitica lo faceva dondolare da una parte e dall’altra, se non avesse avuto la valigetta consueta del medico condotto, non lo si sarebbe detto un dottore. Piuttosto un venditore ambulante con merce scottante dentro la borsa. Doveva aver dormito fino a tardi, pensò Stecca, gli si leggeva ancora qualche traccia delle cuciture del cuscino sulle guance. Pelle delicata quella del medico legale, biancastra e resa più pallida dai suoi completi o magliette bianche o beige, massimo coloniali, che si metteva addosso non appena la primavera si affacciava con i primi calori. E i capelli di un nero corvino che non c’entravano nulla e sembravano una parrucca mal messa per nascondere una calvizie improvvisa da chemioterapia.

“Buon giorno dottore. Felice di essere qui?”

“Non dire stronzate. Volevo andare al mare con mia moglie. È molto che non mi trovi in bermuda.”

“Già. Sai che spettacolo? Anche io volevo riposarmi.” Disse tirando infine dalla sigaretta.

“Ancora fumi dopo l’infarto? Ti vuoi proprio male!”

“È elettronica. Poca nicotina.”

“Fa male uguale, cretino.”

“Non mi sembra. Adesso riesco a fare le salite quasi senza fiatone. Mi sembra di avere dieci anni in meno.”

“Ti sembra appunto. Il cervello può apparire ancora quello dei vent’anni, in certi casi, ma gli organi no. Invecchiano si danneggiano. Specie se li hai trattati come hai fatto tu.”

“Dai, non storpiaresempre la realtà.”

“Spiritoso.”

Erano cresciuti assieme e si punzecchiavano spesso sulle loro debolezze e difetti fisici proprio come quando erano ragazzini all’università.

“Allora? Cosa mi dici?”

“Aspettiamo il procuratore credo che stia arrivando.”

“Hanno chiamato anche loro? Cazzo è una cosa seria allora!”

Passi sulle lastre tombali del pavimento. Echi sulle nicchie laterali dove regnavano i sarcofaghi d’illustri cittadini. Più o meno illustri. E dame mogli di illustri cittadini. Di più o meno illustri cittadini. Passi di tacco, decisi, ritmati, non una marcia, o forse sì, ma non militare. Più sonora, più decisa e, al tempo stesso, disinvolta, pronta a farsi sentire e notare.

“Ecco che arriva.” Disse il dottore.

“Chi?” Domandò il commissario girandosi.

“La De Pisis. Il magistrato. Anzi la magistrata.”

“Piantala cazzo, poi si offende.”

“E di che? L’altra sera la Ferroni, quella dei carabinieri, a cena mi ha ripreso perché le ho chiesto quale era il femminile di capitano.”

“Risposta?”

“Che non c’era, se non un capitanache qualcuno osa usare.”

“Balle!”

“Balle! Ma ci tiene.”

“E io che da ragazzo ho fatto la comparsa in un film girato qui come dovrei definirmi, un comparso?”

“Probabilmente.”

“Quando prendi questi discorsi mi sembri piuttosto un clistere…Buongiorno dottore.”

“’Giorno.”

Francesca De Pisis si mise tra i due ufficiali. La borsa in mano, il tailleur che le stava a pennello e sottolineava tutte le curve giuste. Un tailleur estivo, leggero, grigio. “O l’ha fatto sistemare da una sarta, o è di una stilista,” penso Stecca. Ma le stava proprio bene.

Si accorse immediatamente che i due uomini la stavano guardando, anzi studiando e non con un occhio disinteressato, ma piuttosto con un atteggiamento di giudizio sensuale. Non gliene importava nulla, era lì per lavorare e voleva dimostrare quello che sapeva fare.

“Vedo che avete fatto i primi rilievi.”

“Sì,” rispose Stecca. “Al momento non ci sembra ci sia nulla di particolare. In pratica…”

“Mi illustri lei dottore e lei commissario smetta di inquinare l’aria con quella cosa. Non mi sembra il luogo adatto.”

“Certo mi scusi, ha ragione,” rispose Stecca sopprimendo a malapena un ‘’Sta stronza’.

Mariani fece due passi in avanti cercando di nascondere l’andamento claudicante. Sembrava una papera quando si muoveva, la spalla gli si alzava e abbassava a seconda della gamba che fungeva d’appoggio. Di usare un bastone non ne aveva mai voluto parlare e non è che gliene importasse molto delle occhiate degli altri, ma quando si sentiva sotto lo sguardo di una donna, specie se attraente, il disagio cresceva.

“C’è poco da dire…”

“Me lo dica lo stesso.” Disse il P.M. bruscamente.

“Sì, già. La vittima deve essere entrata dalla porta laterale.”

“Chi è?”

“Non lo sappiamo ancora e…”

“Gambacorta!” Si sentì quasi gridare da un lato.

“Gamba che?” Chiese il commissario.

“Gambacorta.” Ripeté la voce.

“Gambacorta…e tu che cazzo ne sai?” Domandò il dottore girandosi verso l’agente in borghese che aveva parlato.

“Il sacrestano. Me lo ha detto il sacrestano. Lo ha riconosciuto.”

“Ah. Dopo domanderemo.”

“Sì! Dopo. Vada avanti.”

Stecca estrasse il cellulare e si mise a controllare la posta. Lo aveva già fatto pochi minuti prima. Non c’era nulla d’interessante o d’urgente. Smanettava sullo schermo come se fosse impegnato, ma cercava solamente di non dover incrociare lo sguardo del P.M. e di escludere la possibilità che lo chiamassero in causa.

La chiesa per lui poteva essere qualunque luogo in quel momento. Ne sorbiva gli odori semi forti, amplificati dal calore dell’estate, anche se lì dentro era certamente più fresco che all’esterno. Riconoscere l’incenso? No non c’era profumo di incenso. Un afrore che gli ricordava qualcosa e che lo estraniava lo aveva assalito alle narici.

Le ginocchia scoperte. Pantaloni corti. Ginocchia magre aguzze scattanti, un paio di bretelle verdi che dividevano il suo busto in tre parti. Più larga la banda centrale. La mano stretta da qualcuno. Qualcuno di cui si fidava, una mano femminile. Gli dava noia, quasi dolore, quella fede al dito che lo feriva quando la mano stringeva un po’ di più. Sensazione di offesa, uno scappellotto sulla nuca. Leggero, ma imperativo e significativo. Non toccare il maiale. Lo sporchi. Non l’hanno appeso per giocarci. La voce della madre.

Ora vedeva quasi chiaro. La macelleria. Quella dove la mamma andava a comprare la carne e lo trascinava dietro se la nonna non se la sentiva di tenerselo in casa o il parroco aveva sospeso l’oratorio. Con le scuole chiuse dove lasciarlo quel monello che non faceva altro che arrampicarsi? Sui mobili, delle porte, sulla ringhiera delle scale. Persino alle finestre, con il rischio che il peso del testone lo trascinasse giù. Slash sui sanpietrini.

Eccoli lì i buoi e i maiali appesi ai ganci, scuoiati, con le fasce muscolari ben in vista, peggio di una lezione di anatomia su cadavere. C’era anche un agnellino a testa in giù e non faceva tenerezza, non più degli altri, gli avevano lasciato la testa con il pelo. Se ne stava con il collo teso, la bocca aperta tirata dal gancio appeso alla staffa del soffitto, la lingua leggermente sporgente, gli occhi terribilmente sbarrati.

SBRANG. La mannaia del macellaio su una coscia di porco. Separato di netto lo stinco dal resto della gamba. ‘Ma chi mangiava stinco di maiale in piena estate?’ si domandava, ‘già, costa molto meno del bue’. I conigli, quelli sì, anche loro scorticati dalle zampe alla testa. Quella testa piccola, affusolata con quei denti incisivi che uscivano prepotenti e minacciosi da quella piccola bocca, gli occhi tondi che sembravano cattivi, fuori dalle orbite. Somigliavano a dei gatti, di quelli che cacciava con gli amici a fiondate per i vicoli del paese. Quei cadaveri di coniglio gli mettevano paura e si nascondeva dietro la gonna della madre.

Ecco cos’era quel odore. Non incenso, non qualche altro aroma. Era l’odore del sangue, simile a quello che impregnava la macelleria allora, il sangue che scaturiva dall’avanzo della testa implosa della vittima, odore del cervello spappolato, somigliante a quello che la nonna friggeva quando poteva procurarsene un poco. Fetore di ferro, aldeidi, chetoni e organo fosfine.

“Perché proprio dalla porta laterale?” Chiese il magistrato e Stecca tornò connesso con il presente.

“Perché dalla laterale?” Rispose il dottore.

“È quello che ho chiesto.”

“È che io non me lo sono chiesto.” Precisò Mariani. “Perché dalla porta laterale?” Ripeté guardandosi in torno come se cercasse una soluzione, ma si aspettava che qualcuno gli venisse in aiuto. Fu fortunato.

“Nella nicchia a metà navata c’era il fraticello.” Disse Zappa.

“E allora?” insistette la De Pisis.

“E allora se fosse entrato dalla porta centrale e attraversato la navata maggiore l’avrebbe visto.”

“E non l’ha visto.”

“Evidentemente no!”

“E lei chi è?”

“Zappa. Zappa Leonardo. Collaboratore del commissario.”

“Stecca, Zappa. Cos’è quel commissariato un ripostiglio di attrezzi?”

Nessuno rise, tranne il P.M. Compiaciuto.

Il dottore si guardava le punte delle dita come se ne stesse valutando la lunghezza delle unghia, non certo l’esattezza della campitura di smalto, non in quel momento almeno, quasi indeciso se continuare o aspettare una nuova sollecitazione da qualcuno. Decise di ripartire.

“Credo che sia venuto direttamente al confessionale, senza fermarsi altrove.”

“E dove doveva fermarsi?” Chiese con stizza Stecca.

“Magari a fare una preghiera, che ne so una genuflessione davanti a una nicchia. Se si confessa è religioso e se è religioso prega. Almeno credo. Le tracce sul pavimento sono leggere, solo polvere, ma in controluce si distinguono e sono di due paia di scarpe diverse, quali vedremo.”

“Quindi presumibilmente l’assassino e la vittima?” Chiese Zappa.

“Presumibilmente.”

“Ma chi è arrivato prima? Commissario, quella sigaretta per favore!”

“Scusi, scusi, è l’abitudine. La metto in tasca.” ‘Fanculo’.

“Credo la vittima. Si è direttamente inginocchiata e ha aspettato il prete o presunto tale, magari pregando.”

“Perché?”

“E dagli! Perché se è venuto a confessarsi doveva essere religioso e i religiosi pregano.”

“Intendevo perché per primo?”

“Il confessionale non ha la tenda che nasconde l’occupante. Arrivando avrebbe visto chi c’era dentro e si sarebbe accorto che non era un prete.” Azzardò Zappa.

“E perché non un prete?”

“Perché di solito sono i preti o i frati che confessano e sempre di solito i preti non sparano in faccia ai fedeli. E se vedeva che non era prete non si sarebbe inginocchiato. Anzi si sarebbe insospettito. Credo.”

“Ma poteva averlo visto arrivare.”

“Più difficile. L’entrata è spostata rispetto al confessionale e poi i penitenti di solito se ne stanno con la testa nascosta tra le ante del confessionale con la faccia tra le mani. Comunque il prete o pseudo prete o falso prete è entrato e quasi immediatamente ha esploso il colpo in faccia al… al…Gambacorta.”

“Gambacorta.” Ripeté il commissario.

“Un colpo solo. Al centro della faccia. Tra il setto nasale e il frontale. BOOM. Tutto schizzato via. Mi chiedo come abbiano fatto a riconoscerlo.”

“Chiediamolo,” disse la De Pisis, “ma per me non era un prete.”

“Probabile. Forse un demone. Un inviato di Lucifero.” Commentò Stecca.

“Non faccia dello spirito commissario, non mi sembra il luogo e il momento. Dove possiamo interrogarli tranquillamente?”

“Credo nella segreteria, pardon, sacrestia, dottore.” Propose Mariani. “Li va a chiamare Zappa? Per favore.”

“Certo.” E si avviò.

I tre si incamminarono, mentre il dottore cercava di terminare il suo resoconto. L’assassino doveva avere lasciato la chiesa immediatamente, magari passando proprio per la sagrestia. Non aveva verificato il proprio lavoro, forse temendo che lo vedessero. Lo sparo avrebbe richiamato sicuramente qualcuno, come in effetti era avvenuto. E poi c’era poco da verificare.

Entrarono nell’ampia sala. Ai muri alcuni armadi che dovevano contenere i paramenti per le cerimonie, poi sempre sui lati delle panche antiche che percorrevano tutto il perimetro della stanza. L’odore era sacrale. Si sedettero e il commissario ebbe un piccolo cedimento, come uno sbalzo di pressione.

“Tutto ok?” Chiese Mariani.

“Sì. Solo un piccolo giramento di testa. Deve essere il caldo.”

“Ma qui non è caldo.”

“Fa lo stesso. Pensi che se ne sia accorta?”

“Chi?”

“La P. M.”

“Ah. No, era girata dall’altra parte.”

Zappa entrò e si fece da parte per fare passare il primo dei due. Il sacrestano si mise quasi al centro della stanza, con le mani raccolte sul grembo, la testa bassa. Attorno gli ufficiali seduti sugli scanni lo scrutavano quasi volessero capire qualcosa dal suo linguaggio corporeo. A Zappa sembrò di rivedere una scena di un vecchio film sull’inquisizione spagnola, con quel figuro in quello spazio che apparve improvvisamente molto più vasto di quello che fosse in realtà.  Una linea minimale posta quasi per sbaglio in un contesto gotico rivisitato barocco.

Zappa era incuriosito, avrebbe volentieri aperto un banco di scommesse su chi avrebbe interpretato la parte di Torquemada, chi avrebbe condotto l’interrogatorio e chi emesso la sentenza.

Il commissario no di certo, lui se ne stava rannicchiato nel suo posto guardando i muri e i mobili attorno, piegandosi di tanto in tanto velocemente sotto il banco per fare un tiro dalla sigaretta elettronica quando il P.M. era distratto. Il dottore non ci avrebbe neppure pensato, si sistemava la gamba matta come meglio poteva nello stretto spazio che il legno del mobile gli concedeva e poi non era il suo ruolo. Rimaneva il P. M. e, da come s’era avviata la mattinata, poteva benissimo assumersi le vesti dell’inquisitore iberico, torture escluse naturalmente. Almeno quelle fisiche e con testimoni presenti. Sicuramente non si sarebbero dovuti rimettere al braccio temporale della legge visto che già la rappresentavano.

Giuseppe Pio Quaresima con il suo grembiulone nero da servizio se ne stava quasi fermo, facendo dondolare la gamba sinistra con nervosismo, ma senza far trapelare una sensazione di ansia. Era il sacrestano di quella chiesa da prima di diventare calvo, ormai qualche decina d’anni e lì dentro passava gran parte della sua giornata, se non altro per sfuggire alle lamentele della moglie, donna irascibile e che aveva sposato solo per far tacere certe voci che giravano per il paese sul suo orientamento sessuale, considerato che mai lo avevano visto prima in compagnia con una donna. Sempre in chiesa, sempre a pulire.

La cosa lo aveva alla fine innervosito un po’ troppo al limite della sopportazione e qualcuno aveva cercato anche di spiarlo in certi suoi movimenti notturni, quando i frati dormivano e lui poteva sgattaiolare fuori dalla piccola dependance che i religiosi gli avevano concesso come alloggio, per raggiungere quelle due o tre massaie nubili e di mezza età, ma con ancora un certo prurito là dove una donna per benee timorata di Dio non dovrebbe sentire, e passare una notte divertente. Alla fine sfinito dai commenti e dalle risatine in osteria o dalle occhiate lungo la strada o in piazza, era riuscito a convincerne una a sposarlo. A convincerla per modo di dire, la signora Adele, anzi allora signorina Adele, aveva accettato prima ancora che lui finisse di formulare la domanda.

Conosceva ogni angolo, ogni oggetto di quella chiesa e un interrogatorio non lo spaventava, immaginava che sarebbe potuto essere preciso e d’aiuto agli investigatori, anche se in realtà aveva visto ben poco.

Il Fraticello, Antonio, forse non il vero nome secolare, immediatamente fuori dalla sacrestia mostrava invece una certa paura, se non panico. Si sentiva inquisito, muoveva i piedi, cercava di mettersi a posto il saio che non gli cadeva proprio a piombo lungo il corpo magro e si interrogava su come avrebbe dovuto rispondere per non mettere, in un modo o nell’altro e anche inconsapevolmente, in imbarazzo il convento. Avrebbe preferito che Fratello Casimiro fosse al suo fianco. ‘Chissà perché lo avevano lasciato sul porticato?’ pensò, con un brivido lungo la schiena.

“Qualcuno prende appunti?” Disse il P. M.

“Lo faccio io.” Rispose Esposito entrato da poco a sostegno. Estrasse da una tasca una penna e si guardò attorno in cerca di carta.

“Lì, dietro quel tabernacolo vuoto”, dissi il sacrestano indicando con un dito, “c’è un computer con una stampante e dei fogli bianchi. Può usare quelli, ma non esageri, la carta non ce la regalano.”

“Bene. Lasciamo perdere le solite cose, nome, ruolo, date di nascita, tanto poi sarete convocati per il verbale e, più o meno sappiamo chi siete. Voglio sapere, uno per volta, cosa è successo. Cosa avete visto e sentito.” Continuò con tono fermo la De Pisis. “Cominci signor…signor…”

“Quaresima.” Suggerì Stecca mentre riponeva la sigaretta in tasca.

“E cosa vuol sapere signora?”

“Dottore!” Sottolineo la De Pisis. “Cosa stava facendo, a che ora è arrivato, chi c’era in chiesa, cosa ha sentito o visto? Queste cose.”

“’Sta mattina?”

“Questa mattina, questa mattina.”

“Questa mattina. Bo! Le solite cose.”

“Cosa santo Dio!” Si morse le labbra. Non era un’espressione adatta al luogo. Tanto meno per una signora e soprattutto per un Magistrato della Repubblica. Stecca rise chinando la testa per non farsi notare.

“Sono arrivato alle 6, di mattina naturalmente. Non mi pesa molto, abito qui dietro con mia moglie e lei, mia moglie, ha la bella abitudine di mettersi a smadonnare per casa già dalle cinque. Il diavolo se la porti. La chiesa era vuota ma già illuminata dal sole, una luce tenue, fredda. Ma si vedeva e ancora era fresco. Ho riordinato l’altare, pulito i confessionali, spolverato le nicchie, acceso le candele, anzi le lampadine sotto i santi. Insomma le solite cose prima che la gente, le vecchiette e qualche giovane, arrivassero per la prima messa.”

“A che ora inizia?”

“Cosa?”

“La messa, la messa.”

“Alle sette e mezza, di mattina. C’è poca gente di solito.”

“E a che ora arrivano solitamente.”

“Chi?”

“I fedeli, i fedeli.”

“Ah, i fedeli. Cinque, massimo dieci minuti prima. Tanto la funzione non inizia mai puntuale e hanno il tempo o di confessarsi, se trovano un frate, o di fare due chiacchiere.”

“E questa mattina?” Si intromise il patologo.

“’Sta mattina stavo pulendo le nicchie…”

“Già detto. Credo.”

“Ho sentito dei passi e lo scricchiolio del legno.”

“Del legno?” Chiese il commissario.

“Sì. Di qualcuno che si inginocchiava al confessionale. Sono vecchi e scricchiolano sotto il peso. Ormai ho l’orecchio abituato.”

“Capisco. Continui.”

“Poi altri passi. Questa volta lenti, forse incerti. Indugiava. Ma soprattutto quasi sommessi come se chi camminava non volesse farsi sentire. Ho chiamato Antonio, pensando fosse lui, ma forse non mi ha sentito.”

“Poi?”

“Poi lo sparo. Lì per lì ho pensato a un’esplosione di qualcosa, ce ne so di qualche tubo, o qualche ragazzino con i petardi, a volte ne fanno di scherzi, ma era troppo presto per loro. Sono andato a vedere e ho trovato quella testa esplosa. Ormai mi prendeva un colpo.”

“E nessun altro?” Chiese il P.M.

“No. Cioè sì. Contemporaneamente a me è arrivato Antonio. Ha bestemmiato, mi sembra, ha vomitato e poi è svenuto.”

“E cosa ha fatto?”

“Fatto? Niente. Quando ho capito che Antonio non aveva avuto un infarto, ho chiamato la polizia col cellulare. Quasi non mi sono mosso. Seguo anch’io la televisione e ho sentito in quei filmetti quando l’investigatore dice Non toccate nulla, non inquinate le prove, aspettate l’arrivo della scientifica. A proposito dov’è la scientifica?”

“Siamo in un buco. Arriveranno probabilmente dal capoluogo, credo. Chissà quando, ma arriveranno. Disse il dottore.

“Come ha fatto a indentificare la vittima? È sfigurato. Completamente irriconoscibile.” Chiese il P. M.

“L’anello.”

“L’anello?”

“Sì. L’anello con la croce. Di quelli che portano le suore. Conoscevo solo lui che ne indossava uno simile. Era un frequentatore abituale della chiesa.”

Ci fu silenzio. Nessuno probabilmente sapeva più cosa domandare. Certo non avrebbero potuto chiedere al Sacrestano Lei dove si trovava il tal giorno a tale ora e c’è qualcuno che può confermarlo?; era lì, proprio a quell’ora e poco lontano c’era il fraticello.

Stecca aveva una gran voglia di andarsene e di inabissarsi da qualche parte dove nessuno avrebbe potuto disturbarlo, aveva già intuito che quegli interrogatori sarebbero stati inutili, non avrebbero rivelato nulla di interessante, e aveva una l’urgenza di fumarsi qualche tirata in santa pace, bersi un caffè e, magari, ingollarsi una delle sue pillole. Ma non sembrava probabile, se non possibile.

Fu fatto entrare il secondo testimone dopo che il sacrestano era stato congedato.

“E lei come si chiama?” Chiese la De Pisis al fraticello.

“Frate Antonio.”

“È il nome secolare?”

“Per metà. Mi chiamo Antonio Fugari.”

“Veneto?”

“Veneto.”

“Cos’ha da dirci?”

“Non so. Niente di più di quello che, presumo, è stato già detto.”

“Capisco. Ma non ha sentito il sacrestano quando l’ha chiamata?”

“Sì. Ma non ho risposto subito. Tanto lo avrei raggiunto immediatamente dopo.”

“E ha avuto una reazione di shock.”

“Sì. Non avevo mai visto una cosa del genere. Tutto quel sangue. La testa spappolata. Nella casa del Signore. Mi viene di nuovo da vomitare a pensarci.” Si portò la mano alla bocca.

“Per carità,” disse il dottore, “facciamolo uscire. Vuole sentire frate Casimiro dottore? Lui non ha visto nulla è arrivato praticamente quasi assieme a noi.”

“Non importa. Voglio avere delle informazioni.”

Aria pesante in sacrestia. Forse, a parte la De Pisis, nessuno credeva o sperava che da quegli interrogatori, se così li si vuol definire, potesse uscire qualcosa di interessante. Il commissario, il dottore, ma anche i due assistenti, avevano ormai quasi archiviato la faccenda come caso non risolto, cosa che accadeva spesso in quella cittadina dove, tra l’altro, un omicidio era già di per sé qualcosa di eccezionale.

Il frate entrò con un passo incerto, che denotava la sua età e soprattutt0o, una vita non condotta certamente tra gli agi. Apparteneva alla vecchia generazione di ecclesiastici e prima di approdare a quel convento che ospitava pochi confratelli e dove tutto sommato la vita era tranquilla, aveva esercitato in luoghi ben più difficili dove anche gli stenti corporali non si facevano di certo desiderare. Insomma il saio e il cingolo per lui non erano solo una divisa, ma una forma di vita.

Non mostrava di essere intimorito, lo spazio attorno a lui sembrava gli appartenesse, ne era padrone. Guardava gli astanti con uno sguardo sereno, né altezzoso, né sottomesso, ma come se fossero persone inserite nella più scontata normalità. La morte per lui, anche in quella situazione particolare e angosciosa, non era qualcosa di eccezionale, un motivo di lavoro, o una curiosità di cui parlare la sera davanti a un bicchiere di birra o tra una pausa pubblicitaria e l’altra durante il talk show serale. Era solamente una parte della vita e neppure la sua conclusione.

“Buongiorno padre.” Esordì il P. M. con tono che svelava un che di ossequio.

“Buongiorno signori.”

“Credo che abbia ben poco da dirci o aggiungere su quanto accaduto.”

“Infatti. Mi hanno chiamato appena ripresi dalla sorpresa. Sono il più anziano in convento. Sono corso. Ho capito subito la gravità, anche se il sacrestano farfugliava e fratello Antonio non riusciva proprio a parlare. È giovane, ha poca esperienza ancora della vita. Se solo avesse assistito a quello che ho dovuto vedere io in Somalia o in Congo.

“Comunque ho potuto solo constatare che il signore era stato ucciso, bè evidente, e in chiesa. Non so come, anche se posso intuirlo. Che Dio lo accolga tra le sue braccia misericordiose.” Si segnò la croce e tutti, quasi meccanicamente, fecero altrettanto.

“Ecco,” continuò il P. M. dopo un attimo di silenzio, “a proposito di Africa, mi può dire qualcosa sul priore o quello che è?”

“Padre Ignazio. Non è il priore, è il parroco.”

“Ignazio?” Chiese Esposito. “Non l’avevo mai sentito in un frate. In onore dell’omonimo santo?”

“Non è un frate. Intende Loyola?” Rispose Casimiro. “No! Non credo, non abbiamo una gran simpatia per il gesuiti. Penso che anche lui abbia tenuto il nome civile. Ignazio Mari.”

“Come mai un prete?”

“Mah! La comunità è piccola e per un certo periodo non c’era nessun fratello. Avevano invece messo una parrocchia nella chiesa con padre Ignazio a capo. Credo che abbiano preferito lasciare tutto così. Al convento penso prevalentemente io, padre Ignazio si occupa dei fedeli e della parrocchia, in nostra collaborazione chiaramente.”

“Bene. Ci dica allora.” Insistette il comandante.

“Padre Ignazio è qui da circa cinque, sei anni. Si è distinto nel corso degli anni per la sua carità e la capacità di comunicare, oltre a avere diverse pubblicazioni di teologia e sociologia.”

“Quindi è da poco in città?”

“No, no. Ho detto che è a capo della comunità da pochi anni. Praticamente dal suo primo incarico, non è mai stato spostato. Penso che sia qui da, vediamo, ha circa sessant’anni, almeno da quaranta.”

“Quindi conosceva bene la città?”

“Conosceva tutti, si potrebbe dire.”

“Anche la vittima?”

“Oh certo. Molto bene. Il Gambacorta è stato allevato qui. Lo hanno abbandonato appena nato davanti al convento. Naturalmente a quello che mi risulta non è stato accolto subito come sarebbe accaduto un secolo fa o più. Ci sono state varie procedure legali, poi, non chiedetemi perché che non lo so, il giudice ha deciso di affidarlo alle cure del convento. Il cognome deriva dal fatto che si sospettava che fosse il figlio dell’erbivendola, una volta c’erano gli erbivendoli, che era zoppa. È rimasto fino a diciotto, diciannove anni, se non sbaglio. Un ragazzo bravissimo, devoto, come vedete continuava a frequentare questa chiesa. Padre Ignazio e tutta la comunità dei fedeli più assidui hanno collaborato anche a permettergli di avviare l’attività. Faceva il manovale in proprio.”

“E dove mi si diceva che è ora? Il prete, non il morto.”

“In Africa. In una missione. Ci va spesso. Almeno una volta all’anno e si trattiene per mesi. Liberia per la precisione.”

“Come mai la Liberia? Evangelizzazione?” Domandò Stecca.

“No. O meglio, anche. La Liberia è a maggioranza cristiana, ma è anche uno degli stati più poveri al mondo. C’è tanto bisogno di aiuto. Sanitario soprattutto.”

“Capisco.” Intervenne di nuovo la De Pisis. “E l’avete già informato dell’accaduto. Voglio dire, che è accaduto nella sua chiesa.”

“La chiesa non è sua. È di Dio o dei fedeli. Comunque no, lo faremo, o meglio ci proveremo. Non è a Monrovia o a Pnayesville, ma in un villaggio all’interno. È da quando è partito che non abbiamo contatti. È difficile.”

“Capisco. Va bene può andare grazie.”

Uscito il frate calò un penoso silenzio nella sacrestia. Sembrava che ognuno stesse tirando le fila di quanto ascoltato dai tre testimoni. Cioè quasi nulla. Più probabilmente ciascuno pensava ai fatti propri e non vedeva l’ora di andarsene. Si salutarono rimanendo intesi di tenersi aggiornati e rivedersi soprattutto se ci fossero state novità. La De Pisis si raccomandò a Stecca che gli facesse pervenire, il più presto possibile, notizie sulla vittima, e il commissario girò l’incarico ai due assistenti, prima di recarsi con il dottore al bar per prendersi qualcosa di fresco da bere.

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