FUTURISMO E GRAMSCI.

A mio parere il “Movimento” artisco-letterario-culturale italiano più importante del ‘900 è stato il Futurismo, l’unico, tra l’altro, a avere avuto un’eco e un’influenza internazionale. Un’idea che non nasce solo dal fatto che ritengo “belle” le opere figurative e letterarie futuriste, ma anche dalla costatazione che è stato l’unico movimento veramente “Rivoluzionario” nato in Italia e uno dei pochi a livello planetario. Rivoluzionario da un punto di vista artistico, letterario, culturale e politico, al di là delle più o meno opportunistiche adesioni del movimento al fascismo avvenute nella sua seconda fase. Questa portata rivoluzionaria è testimoniata anche dalle parole spese da uno dei più lucidi intellettuali e critici del periodo che seppe coglierne immediatamente la portata e, senza dubbio, non in odore di fascismo. Ecco le parole di entusiastico plauso al futurismo marinettiano di Antonio Gramsci.

È avvenuto questo fatto inaudito, enorme, colossale, la cui divulgazione minaccia di annientare del tutto il prestigio e il credito dell’Internazionale comunista: a Mosca, durante il II Congresso, il compagno Lunaciarsky ha detto, in un suo discorso ai delegati italiani (discorso, si badi, pronunciato in italiano, anzi in un italiano correttissimo, cosa per cui ogni sospetto di dubbia interpretazione deve essere a priori scartato) che in Italia esiste un intellettuale rivoluzionario e che egli è Filippo Tommaso Marinetti. […] Il campo della lotta per la creazione di una nuova civiltà è […] assolutamente misterioso, assolutamente caratterizzato dall’imprevedibile e dall’impensato. Una fabbrica, passata dal potere capitalista al potere operaio, continuerà a produrre le stesse cose materiali che oggi produce. Ma in qual modo e in quali forme nasceranno le opere di poesia, del dramma, del romanzo, della musica, della pittura, del costume, del linguaggio? Non è una fabbrica materiale quella che produce queste opere: essa non può essere riorganizzata da un potere operaio secondo un piano, non può esserne fissata la produzione per la soddisfazione di bisogni immediati controllabili e fissabili dalla statistica. In questo campo nulla è prevedibile che non sia questa ipotesi generale: esisterà una cultura (una civiltà) proletaria, totalmente diversa da quella borghese; anche in questo campo verranno spezzate le distinzioni di classe, verrà spezzato il carrierismo borghese; esisterà una poesia, un romanzo, un teatro, un costume, una lingua, una pittura, una musica caratteristici della civiltà proletaria, fioritura e ornamento dell’organizzazione sociale proletaria. Cosa resta a fare? Niente altro che distruggere la presente forma di civiltà. In questo campo «distruggere» non ha lo stesso significato che nel campo economico: distruggere non significa privare l’umanità di prodotti materiali necessari alla sua sussistenza e al suo sviluppo; significa distruggere gerarchie spirituali, pregiudizi, idoli, tradizioni irrigidite, significa non aver paura delle novità e delle audacie, non aver paura dei mostri, non credere che il mondo caschi se un operaio fa errori di grammatica, se una poesia zoppica, se un quadro assomiglia a un cartellone, se la gioventù fa tanto di naso alla senilità accademica e rimbambita. I futuristi hanno svolto questo compito nel campo della cultura borghese: hanno distrutto, distrutto, distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso un’opera superiore a quella distrutta: hanno avuto fiducia in se stessi, nella foga delle energie giovani, hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista, quando i socialisti non si occupavano neppure lontanamente di simile questione, quando i socialisti certamente non avevano una concezione altrettanto precisa nel campo della politica e dell’economia, quando i socialisti si sarebbero spaventati (e si vede dallo spavento attuale di molti di essi) al pensiero che bisognava spezzare la macchina del potere borghese nello Stato e nella fabbrica. I futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari; in questo campo, come opera creativa, è probabile che la classe operaia non riuscirà per molto tempo a fare di più di quanto hanno fatto i futuristi: quando sostenevano i futuristi, i gruppi di operai dimostravano di non spaventarsi della distruzione, sicuri di potere, essi operai, fare poesia, pittura, dramma, come i futuristi; questi operai sostenevano la storicità, la possibilità di una cultura proletaria, creata dagli operai stessi”.

A. Gramsci, Marinetti Rivoluzionario?, in “L’Ordine Nuovo”, 5 gennaio 1921, I, n. 5; raccolto in IDEM, Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo 1921-1922, Giulio Einaudi Editore, Torino 1966, pp. 20-22.

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