A PROPROSITO DE “AL CENTRO DEL MONDO” DI ALESSIO TORINO.

“Anche il delitto bene spesso è un eroismo, cioè p.e. quando il farlo torna in danno o pericolo, e nondimeno si vuol fare per soddisfare quella tal passione ec. tanto più eroismo quanto che bisogna superare tutta la forza della natura reclamante, e dell’abitudine (se si tratta p.e. di un giovane, di un innocente ec.) ec. E però è un eroismo anche senza il danno o il pericolo tutte le volte che è commesso da persona non solita a commetterlo, costando sempre uno sforzo e una vittoria di se stesso, nel che consiste l’eroismo. Quindi da un delitto di questa sorta si può sempre argomentar bene o almeno alquanto straordinariamente di una persona. In somma ogni sacrifizio di cosa cara ogni sacrifizio difficile è un eroismo, anche quello della virtù, e dei sentimenti più sacri, quando questo sacrifizio ancora costa” (G. Leopardi, Zibaldone, c.72).

 

Cosa c’entra questa citazione dallo Zibaldone di Leopardi con Al centro del mondo, ultimo bel romanzo di Alessio Torino? Apparentemente nulla, ma forse un nesso, e non irrilevante, esiste e avvicina lo scrittore urbinate in maniera ancora più marcata alla figura del recanatese e alle sue tematiche.

Intanto si potrebbe prendere in considerazione Villa Croce, il luogo in cui si svolgono la maggior parte delle vicende del romanzo. Villa Croce appare come un microcosmo, il “centro del mondo”, ma sempre un microcosmo chiuso, non propriamente isolato, ma chiuso e questa chiusura ha una caratteristica, è in qualche modo e in un certo senso, operata e conservata dalla memoria; dalla memoria e da un senso di colpa che aleggia continuamente su tutti i personaggi. Un luogo dal quale sembrano esistere solo tre possibilità di uscita: la fuga, come fece la mamma di Damiano anche se costretta dagli eventi, la morte, che il padre del protagonista si è autoinflitta proprio in balia del senso di colpa, e l’evasione psichica, il rinchiudersi in un mondo di fantasmi o provenienti dal passato o proiettati in una dimensione altra, ma che rimane in qualche modo legata al luogo, come accade al nonno, uno dei personaggi più riusciti e interessanti usciti dalla penna di Torino.

Il microcosmo della Villa è una sorta di piccola società nella quale i personaggi si muovono, ma costretti in un vincolo che sembra non abbandonarli. L’unico che tenta l’evasione è zio Vince, in apparenza il più negativo del romanzo e, quasi per riflesso Anna, Damiano invece, pur nella sua “mancanza” psichica, è fortemente legato a quello spazio e, forse, a quel tempo da una serie di ricordi, fantasie, supposizioni e oggetti che si rivestono di sacralità, a volte indeterminata, ma sentita fino in fondo:

 

Capitava che da bambino lo tenessero anche in due o tre. Adesso accanto a lui c’era solo la nonna e avrebbe potuto scostare facilmente la mano che gli premeva il fazzoletto sulla fronte. Ci aveva provato, ma poi il contatto freddo con la fede lo aveva vinto.

 

Dalla lettura del passo tratto dallo Zibaldone si capisce come per Leopardi il delitto, fino all’omicidio, produca una fissione interiore che può presentarsi prima che l’azione generi un determinato effetto. È già nel progetto, al di là dell’esito, che il delitto si presenta come un atto di volontà che si insinua nel cervello o nel volere e, anche in animi non predisposti alla crudeltà, muta il normale processo dell’abitudine, devia dal posto conosciuto e sicuro, inducendo una mutazione dei pensieri e dello stesso essere e come, in quest’otica, possa configurarsi come un “atto eroico”, nel senso che addirittura anche la semplice intenzione a commettere un delitto implica una specie di “riconoscimento”, un rivelarsi e disporsi al male che comporta uno sforzo interiore e un sacrificio.

Ne Al centro del mondo avviene qualcosa di molto simile. Intanto Damiano si trova a lottare contro il “Demonio”, figura ricorrente nei suoi pensieri, dunque con l’incarnazione per antonomasia del male, di ciò che porta squilibrio e è compartecipe nel creare il senso di colpa. Zio Vince, preso completamente dalla prospettiva dell’affare della vendita della proprietà, non si accorge o non si vuole accorgere, che quell’atto comporterà una mutazione delle abitudini, non tanto nella quotidianità, ma come variazione drastica del modo di essere, tanto che, dal punto di vista del giovane protagonista, l’essere in qualche modo “espropriati” della tenuta alla quale sono legate le loro vite, si configura come un atto quasi “bellico” o che comunque evoca scenari che si riallacciano alle storie del nonno sulla Resistenza, ma anche al destino di prigionia, isolamento e totale annientamento psichico e della memoria che intere generazione e etnie hanno dovuto e devono subire quando vengono invase e, soprattutto, cacciate dalla loro terra. Per Damiano, nel momento in cui progetta il delitto, al chiuso dell’abitacolo angusto dell’auto, mentre zio Vince narra al Demonio proprio le storie che hanno reso in un certo senso “mitica” Villa Croce, la vendita non assume l’aspetto che realmente e semplicemente ha, cioè di un contratto, di una cessione a cui corrisponde un tornaconto materiale oltre che, eventualmente, un cambio vantaggioso della qualità della vita, ma quello di una “deportazione”, con tutto il retaggio storico, allegorico e simbolico che il termine si trascina dietro nella nostra cultura:

 

Di nuovo, gli occhi del Demonio nello specchietto, mentre le labbra continuavano a imbastire parole per Zio Vince e la mano destra a gesticolare, incantandolo. Non ti lascerò deportare Nonna Adele, pensò Damiano ribattendo allo sguardo nello specchietto. Lo sguardo si spostò e le labbra blaterarono qualcosa sulle storie di Villa la Croce che lo zio aveva già iniziato a raccontargli.

 

Il delitto in Leopardi ha però anche un altro risvolto importante. Esso genera la colpa e il senso di colpa, e questa, per il poeta marchigiano, è fondamento della civiltà, o di una nuova civiltà, di un nuovo luogo, in quanto si presenta come “rifugio dalla colpa” stessa (Zib., c. 191). Ma la colpa è già, come visto, prima dell’atto del delitto, è già presente nella decisione, nell’intenzione, maturata nel soggetto e ne spezza la coscienza, presentandosi però, al tempo stesso, come un atto di libertà che sta all’origine dell’agire dell’uomo.

Nella narrazione di Torino questo tema è presente, ma si avvia, mi sembra, verso esiti differenti da quelli leopardiani e questo costituisce una delle novità dell’autore urbinate, il suo collocarsi nella contemporaneità senza sguardi nostalgici e retrospettivi. Il delitto infatti apre a Damiano una nuova strada, una nuova vita e un luogo inedito, che lo colloca o lo collocherà, in una posizione di maggior prestigio personale e sociale, una specie di presa di coscienza della propria dimensione e della propria libertà. Quell’atto, l’omicidio, farà di lui “l’uomo della famiglia”, anche se all’ombra del “maschio caucasico assassino”, come avrebbe detto Teo”, il pittore, il suo alter-ego, in un certo senso, colui cioè che ha scelto, alla fine, l’isolamento, il non costituirsi in società e luogo pur di affermare la propria libertà, una libertà anche linguistica, quasi una negazione del senso del “logos”, evidente nella formulazione di frasi e risposte apparentemente insensate:

 

Damiano aveva ancora in mano il barattolo da un chilo, lo brandiva come una torcia fiammeggiante. Guardava il Demonio, ma il Demonio guardava zio Vince che gli era andato in soccorso. Damiano capì che da ora in poi sarebbe stato lui l’uomo della famiglia.

 

Ma infondo è solo un’illusione, il suo ruolo non è cambiato se non nella sua mente, poiché è lui che ha compito l’atto e quindi ha innestato nella propria coscienza un’azione di libertà, ma che gli altri ancora non percepiscono, forse, aggiungerei, proprio perché non sono a conoscenza della realtà dei fatti:

 

Damiano dovette far finta di essere ancora un ragazzino e che zio Vince fosse l’uomo di casa, quando poco dopo si ritrovarono al tavolo di nonna Adele.

 

Il delitto va compiuto senza dubbio, in maniera risolutiva, senza che possa affacciarsi alla mente alcun sentimento di pietà, perché attraverso quell’atto non solo e forse non tanto, si congela una situazione che aveva regnato per tanto tempo e attorno alla quale gira tutto quel mondo, ma in quanto inaugura una nuova stagione, quella di Damiano:

 

Il Demonio girò il collo, piuttosto gli occhi, verso loro due. Zio Vince stava con le braccia larghe e le gambe piantate, da Gorilla, mentre Damiano era rimasto immobile e sentiva che non doveva avere pietà.

 

Si è detto che il delitto e il conseguente senso di colpa, marca l’individuo in Leopardi già dalla sua progettazione, a prescindere dall’esito che produrrà, non sembra sia così nel romanzo che ci interessa. La morte del Demonio per shock anafilattico era forse inaspettata, superava le intenzioni stesse del protagonista, e ciò crea in lui sgomento e varia lo stato delle cose, soprattutto per il fatto di esserne venuto a conoscenza tramite “altri” che, di conseguenza nella sua mente, potevano sempre sospettare qualcosa e perfino Maria, la Madonna, che lo aveva in qualche modo approvato se non aiutato con il suo implicito assenso (sempre nella psiche di Damiano naturalmente), sembra non riconoscerlo più in seguito a quell’omicidio. Il sangue di Damiano ne viene investito, la parte più sacra e intima dell’uomo, e che sarà da quel momento in poi sempre associato a quel senso di colpa che nasce nel suo animo e lo seguirà per tutto il romanzo:

 

Apprendere la notizia in mezzo ad altri lo aveva turbato. Aveva sentito di nuovo uno scompenso nel calore del sangue, come davanti al cinese del mercato la settimana prima. Si guardò le mani, convinto che fossero diventate pallide. Poi guardò il quadretto di Maria decorato con la palma benedetta. Nemmeno Maria lo riconosceva.

Ogni elemento vivo, ma non solo, umano o animale, percepisce la sua colpa, non la rivela, non la manifesta, ma sembra sempre sul punto di farlo. Damiano è quasi ossessionato da questa presenza che incombe su di lui. La pace che avrebbe dovuto portare la Pasqua è solo apparente, come lo è il risveglio della natura che procede nella sua bellezza, ma anche la natura appare ai suoi occhi a conoscenza del suo delitto e accusarlo:

 

Soltanto la macchia rossa del pruno lo confondeva. Era imbrattato di sangue e gli ricordava che lui aveva infilato un’ape regina nella tasca di un uomo perché lo assalisse uno sciame.

E ancora proprio la natura sembra reagire, quasi incolpare e a manifestarsi di nuovo attraverso il sangue:

Damiano si avvicinò [al pruno] e gli sembrò che le foglie reagissero alla sua presenza e lievitassero. Allungò le braccia e vide le proprie mani coprirsi di macchie sempre diverse che si spostavano dal polso alle dita. Girò i palmi verso l’alto e se li ritrovò imbrattati di sangue. Era il sangue delle sue mani d’assassino. Era il sangue dei porci, quando Baldeschi ne ammazzava uno con la pistola ad aria compressa e il sangue scorreva in discesa nel viottolo, un rigagnolo alla ricerca di acqua, che non c’era.

 

Anche gli animali sono coscienti del suo reato:

 

Pensò che le cose non stavano come diceva il nonno. Era sicuro che la rondine aveva riconosciuto in lui l’assassino, il mostro che né Nonna Adele né il nonno potevano vedere. Era per questo che scappava via.

 

E, come accennato, non solo ciò che è vivo, umano o mondo vegetale, sono a conoscenza del suo crimine e generano la colpa, ma anche ciò che è inanimato, meccanico:

 

Teo Van Gogh e le parti meccaniche del luna park sapevano che lui era un assassino.

 

Naturalmente, ai suoi occhi, chi gli vive attorno, i suoi più diretti corrispondenti, percepiscono in lui la colpa senza produrre nessuna reazione, quasi fosse loro indifferente o non avessero il coraggio di affrontare la questione, o ancora volessero che il senso di colpa lo logorasse attraverso il dubbio sul loro silenzio. Così, nonostante la noncuranza “Gli occhi del nonno avrebbero visto chi era”, tutti lo avrebbero almeno percepito, non sarebbe stato in grado di nasconderlo neppure all’occhio selettivo e critico dell’arte, anche se prodotta da uno sconosciuto, perché nel suo ritratto si sarebbe comunque letto “una faccia come quelle di Billy Budd, la faccia degli assassini”.

Ma c’è chi, probabilmente, ha capito davvero e, soprattutto, che lo manifesta, anche se spinto forse dall’abuso dell’alcol, in un momento di scarsa lucidità, ma di espressione spontanea dei propri pensieri. Zio Vince, proprio colui che, pur essendo stato l’unico assieme a Damiano e al Demonio, coinvolto nell’azione del crimine, non aveva mai manifestato nessun dubbio, nessun sospetto, non aveva fatto nascere il senso di colpa; Damiano forse era inconsciamente sicuro che lo zio non subodorasse nulla. E la rivelazione arriva in maniera diretta, improvvisa, ma senza mezzi termini, senza alcun tramite che possa lenire l’evidenza dei fatti: “Lo so che sei stato tu. (…) Però lo so che sei stato tu, hombre”.

Quel che è peggio però è cha a questa manifestazione, di cui tra l’altro Damiano non è certo, corrisponde alla distruzione di tutto il mondo che il delitto e il conseguente senso di colpa avevano mantenuto e creato. Ogni possibilità dell’essere di Damiano di cambiare, di porsi come nuovo, come il novello uomo di casa, crolla con la riaffermazione del potere dello zio:

 

«Pietro…» disse «la quercia… i maiali… il Demonio… Demonio… Tutto questo non esiste, non esiste più. Io invece esisto. Tu esisti. E se vuoi continuare a campare, nipote, io sono il capobranco».

 

È la conseguenza della violenza, motivata o no, istintiva, generata dall’ubriachezza, dimostrativa, non ha importanza, che aveva fatto scagliare zio Vince contro il nipote, afferrandolo alla gola, stringendola fino quasi soffocarlo. Poi lo lascia e si ritira nel corridoio immerso nei suoi pensieri. Ma ciò che più interessa è che questa reazione dell’uomo nei confronti di Damiano e la consapevolezza che qualcuno l’ha scoperto, che qualcuno sa al di là delle proprie supposizioni o sensazioni, sembra cancellare per un attimo il senso di colpa che lo aveva pervaso e ciò è possibile solo prefigurandosi, anche se solo a livello di immaginazione, un altro delitto, un nuovo il progetto che è già agente sulla sua psiche a prescindere dall’esito e dalla realizzazione o non dell’intento omicida, ma che questa volta non avrà la possibilità di realizzarsi, di constatarne gli effetti reali, e mutare di nuovo il senso delle cose:

 

E per Damiano fu come trovarsi con lui, di là dal muro dove si era appoggiato. Era come trovarsi dentro di lui. Lo stiletto era sì sceso, ma su Zio Vince. Un affondo improvviso nella notte di Villa la Croce.

 

Così si scivola verso il finale intriso di sangue. Villa Croce, il centro del mondo, rimane un luogo chiuso, dal quale si può evadere solo nei tre modi precedentemente illustrati. Non c’è la possibilità della creazione di un mondo nuovo, un’alternativa. Questa la differenza, mi sembra, nel caso di questo motivo specifico, tra il delitto e il senso di colpa in Leopardi e in Torino.

Questo romanzo, a mio parere la miglior prova del narratore urbinate che già ci aveva dimostrato la sua capacità e forza di analisi della realtà senza rinunciare a un piano narrativo, forse a volte complesso, ma che sa dispiegarsi in un intrecciarsi di motivi trattati con l’arte della scrittura, nei suoi precedenti romanzi, rivela una realtà, un modo di essere, che è comunque radicato e forse nel DNA di chi è nato nei luoghi in cui la vicenda è ambientata, conteso tra la necessità, l’esigenza, non solo il desiderio, di rottura e di innovazione, e l’attaccamento quasi maniacale o nevrotico alle proprie origini e tradizioni, con tutte le contraddizioni che si portano appresso. Così è stato, pur se in maniera differente, in Leopardi, così è stato, in modo ancora differente, in un certo Volponi, e così si presenta oggi alla luce di una rinnovata lettura della contemporaneità nella scrittura di Alessio Torino.

 

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