AMERICAN PSYCO

American psycho di Bret Easton Ellis edito nel 1991 e in Italia nel 2001 per Einaudi, è un bel romanzo? Non saprei, può piacere. Quello che è sicuro è che un romanzo importante. Inquietante e pericoloso, che mette in gioco e in dubbio gran parte dell’apparato culturale occidentale dai presocratici a oggi. Sarà per questo che l’editore francese dell’autore si rifiutò per anni di tradurlo e che in Italia è uscito con anni di ritardo e che l’editore americano lo definì un romanzo “turpe”, per non parlare della versione cinematografica uscita solo nel 2000 diretta da Mary Harron, nonostante il successo del romanzo e con notevoli tagli delle scene più forti.

Già il genere è difficile da definire. Verrebbe da dire subito Thriller, ma in realtà un thriller o un noir non è; non ci sono indagini, non c’è polizia o detective o qualche ingegnoso psicoanalista a investigare, anzi non c’è indagine. Lo psicopatico, quello sì, è presente.

Patrick Bateman è lo stereotipo dello yuppie newyorkese della metà degli anni ‘80 del secolo scorso, laureato a Harvard, con un lavoro prestigioso a Wall Street e l’immancabile bella fidanzata ricca e un poco, un poco molto, frivola. Pure lui è alquanto superficiale come tutti i suoi amici, più o meno amici, che lo circondano. La sua vita, oltre al lavoro che non ha un ruolo fondamentale nel romanzo, è scandita dalla ossessione per la moda, i capi firmati di cui riconosce lo stilista a una prima occhiata, la palestra esclusiva, l’acqua Evian di cui ne beve venti litri al giorno (e chi non ricorda giovani donne e uomini con la bottiglia d’acqua da un litro e mezzo a seguito anche in via Brera a Milano in quegli anni), le videocassette pornografiche o violente, la trasmissione televisiva Patty Winters Show e il sesso, l’alcol e la cocaina consumati nei locali più esclusivi di Manhatan. Nulla di eccessivamente nuovo e già descritto, per altro in maniera molto più magistrale, da Jay McInerney pochi anni prima in quel capolavoro che è Le mille luci di New York.

Ma c’è una differenza. Il protagonista di American psycho è un serial killer psicopatico che a sera, annoiato dalla routine, si diverte a squartare, trapanare, inchiodare e con ogni altro tipo di brutale pratica di tortura costose escort, ragazze abbordate nei locali lussuosi, barboni, concorrenti nel lavoro, amici e amiche, nel suo lussuoso appartamento e senza un motivo preciso. E fin qui nulla di eccezionale, se non che, tutto appare descritto nella più assoluta normalità e con toni e un vocabolario decisamente politicamente scorretti, insomma le cose, le persone, le categorie ecc. sono chiamate come dalla cultura imperante non viziata da ipocriti scrupoli le definisce, senza eufemismi o giri di parole. E sta proprio in questo la “pericolosità” di questo romanzo.

In un thriller diciamo normale, per esempio in quelli di James Ellroy, per quanto truculenti, il serial killer è subito caratterizzato all’interno della trama come colui che si colloca al di fuori di una certa logica socialmente acquisita e per questo in opposizione alla polizia. Vi è insomma l’eterna lotta tra il bene e il male, una delle dicotomie che hanno retto la cultura occidentale e non solo, si potrebbe dire, fin dalla sua nascita. Nel romanzo di Ellis le azioni criminose, le vivisezioni, la conservazione di reperti anatomici e perfino il cannibalismo, sono date al lettore in maniera del tutto neutra, asettica, e senza neppure il piacere della violenza fine a se stessa. Non c’è in nessun passo, in nessun luogo narrativo una qualsiasi condanna o presa di distanza da parte dell’autore nei confronti dell’assassino che, tra l’altro, non verrà arrestato dalla polizia, che come detto neppure compare, ma tutto si risolve in una “normalità” assoluta; Patrick Bateman, nel finale del romanzo, discute tranquillamente con gli amici su quale ristorante scegliere per la serata, l’Harry’s, nel quale entra contento di esserci e di essere ciò che è. C’è in questo romanzo un rifiuto totale del moralismo e di ogni presa di posizione etica, il punto di vista dell’assassino è quello e quello rimane.

Non è poca cosa, e infatti ha dato e dà fastidio, in un mondo dove tutto deve essere politicamente corretto, anche a costo di stravolgere il senso delle cose, della lingua, della realtà. Manager, giornalisti che perdono il lavoro per un termine ritenuto offensivo, artisti che vengono isolati per la loro opera, come nel caso dei fratelli Chapman accusati di porno pedofilia, fino a estremi che assumono un tono di preoccupante comicità, come nel recente caso in cui un libro della statura di Huckleberry Finn di Mark Twain, per molti di noi compagno di viaggio nella giovinezza, è stato ripubblicato negli Stati Uniti (si badi ripubblicato in lingua originale, non tradotto, il che al limite potrebbe giustificare una certa libertà) ) sostituendo per tutto il romanzo la parola niger con black o slave, violentando il testo originale, anche considerando che all’epoca in cui fu scritto il termine non aveva nessun significato dispregiativo al pari di nègre in francese o negro in italiano, e che anzi proprio nel periodo della decolinizzazione il termine venne rivendicato dai movimenti per i diritti civili degli afroamericani, nonché da quelli di liberazione africani, come si legge anche nei testi del poeta e leader politico del Senegal Léopolod Sédar Senghor, tra l’altro primo presidente del Paese dopo la liberazione, come simbolo della rinascita culturale del Senegal, adottando il termine esplicito di negritudine.

In conclusione American psyco è un libro da leggere? Ancora una volta non saprei che dire, forse sì, se uno ha lo stomaco forte per reggere certe scene veramente raccapriccianti e, soprattutto, la disponibilità a vedere il mondo in maniera differente da come certi poteri, culturali e non, vogliono che si veda.

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