DONNE AL POTERE.

Un donna alla Presidenza della Repubblica. Perché no? Che c’è di strano? Da sempre le donne sono state in qualche modo al potere, in numero ridotto, impedite dai pregiudizi, in maniera sottocutanea forse, ma si sono dimostrate sempre all’altezza e, spesso, determinanti. Eccone un esempio. Ripropongo un brano di Giuseppe Betussi (Bassano 1512- Milano(?) 1573(?)), nel quale si traccia il profilo di Elisabetta Gonzaga Duchessa di Urbino e dove si celebrano non solo le solite doti di moglie, donna colta e nobile, ma quella di statista, ruolo al quale fu chiamata, come governatrice del Ducato di Urbino, per supplire alle frequenti assenze del marito Guidobaldo da Montefeltro spesso impegnato lontano da Urbino nelle campagne militari.

G. Betussi, (G. Boccaccio), Libro di M. Gio. Boccaccio delle donne illustri, tradotto per messer Giuseppe Betussi, in Vinegia 1545-1547., Ora in Urbino nella Letteratura Italiana da Dante a D’Annunzio, a cura di E. M. Guidi, Aras Ed., Urbino 2017, pp. 218-227.

 

Capitolo XXXIV183

Di Lisabetta Gonzaga Duchessa d’Urbino

Come potrò io giugnere col mio basso ingegno al sommo de gli onori di questa magnanima donna? ch’a giorni suoi fu un tempio di Pudicizia, una scuola di virtù, un lume di fede, uno specchio di santità, e un’esemplo di costanza? Se i più rari, e pellegrini ingegni, ch’a’giorni nostri sieno stati, e ch’io per la riverenza debitamente portata a loro, non ardisco nomare, dicendone, e scrivendone ampiamente, non hanno potuto fare, che molto più di

quel, che si truova, non vi sia restato a dire? Maggiormente, che a me bisogna, col testimonio loro che, ne hanno fatto i volumi, le virtù di costei ridurre, no in breve compendio, ma in un brevissimo capitolo? Non sara adunque chi si maravigli, se da così profondi fonti di scienza, come è stato un Sadoleto, un Bembo, Federigo Fregoso, Gismondo da Fuligno, Filippo Beroaldo, Baldassar Castiglione, e tanti altri, ch’io non dico, e che hanno di costei partorito tutti insieme fiumi, e mari di lode, io mi partirò senza avervi, non pur toccato il fondo, ma appena tratta la sete: e che tratta la sete? ma nè pur anche immollato le labbia. Perche spaventato dal suggetto, ritenuto dalla grandezza degli scrittori, e poco aiutato dal debile ingegno mio, mi sarà forza esser tale, se le virtù sue non mi facessero più che io. Lisabetta figliuola di Federigo Gonzaga, e sorella di Francesco Marchese di Mantova, specchio di pudicizia, e albergo d’ogni virtù, fu moglie del magnanimo Guido Ubaldo di Monte Feltro, figliuolo del Duca Federigo, e Duca d’Urbino, donna per nobiltà di sangue, per valore, per grazia, e per bontà, più tosto divina, che umana. Della quale per mostrare in parte, quanta fusse la pudicizia sua, non potendo tacere, quello ch’a tutti fu manifesto, ben ch’ella, guidata dalla modestia, cercasse che ciò fosse nascosto, da questa farò principio. Maritata la nobilissima Donna giovanetta, e bella in Guidubaldo, due anni giacque in un medesimo letto col marito prima, ch’egli chiaramente si conoscesse impotente. Onde vedendo apertamente che non era abile ad usare il coito, mesto, e doglioso manifestò alla moglie, che giudicava da malie essere impedito onde a lei non si potesse dimostrare huomo, chiamandosi misero, e in tutto infelicissimo poi che non solamente gli era tolto la speranza di lasciar di se eredi, ma che anche a lei non poteva dar quel contento, e piacere che il matrimonio ricercava: e di più che sappiendosi questo, tutti i popoli gli porterebbono odio. Udite queste parole dalla saggia donna, che molto prima s’era accorta della cosa, nè mai s’era dimostrata non pure avvederse, non che lamentarsi, nè di ciò parlato con persona alcuna, con allegra faccia, incominciò a consolarlo, e pregarlo, che con forte animo volesse sopportare i colpi dell’ingiuriosa fortuna, che molti Re erano gia stati, e di presente si trovavano fuori di speranza di figliuoli, e per questo non si dovesse rammaricare, che non era solo: tanto più che spesse volte da i buoni padri nascono cattivi e scelerati figliuoli: onde tutte le cose, alle quali Iddio con sente, si debbono pigliare a buon fine. Di quello poi che a lei s’apparteneva non dovesse dubitare, ch’ella non era punto per iscemar l’amor suo verso lui, e che quel fior di pudicizia, che gli avea portato in casa, era per conservarlo fino all’ultima sepoltura, acciocchè, non potendo egli goder quello, che a lui era destinato, altro huomo non avesse a possederlo. E che darebbe opera che quello, che per due anni era stato nascosto, per l’avvenire da lei mai non fosse scoperto. Quello che l’onestissima donna disse, medesimamente osservò: la onde più di quattordici anni vissero insieme, che non solamente i popoli, ma i propri famigliari segreti, nè alcuno della corte, mai s’accorse il difetto della sterilità proceder da Guid’Ubaldo, anzi ogn’uno giudicava più tosto la Duchessa Lisabetta essere quella, da cui venisse il mancamento. Ne mai questa cosa si sarebbe risaputa, se il proprio marito di sua bocca non avesse manifestato, come passavano le cose, allora quando cacciato dello stato da Cesare Borgia se n’ando a Milano dal Re di Francia, che si trovava in Lombardia, nelle cui mani erano tutte le sue ragioni, per impetrar favore. Dal quale non avendo ottenuto grazia alcuna, imperocchè il Re era in lega con Alessandro Borgia sesto Pont. Mass. Padre del Duca Valentino; perche presentendo, che dal Papa, e da Casare era cercato di far morire diede loro speranza di separarsi dalla moglie, e di voler farsi prete, affermando non aver mai per essere impotente, potuto consumare il matrimonio, con la moglie: e dimandatone dal Re se così fosse, confermò quello che era, così dallo stesso Marito palesata la cosa, incominciò poi a divulgarsi per tutto, che il Duca o fosse per difetto di natura, o per lo mal delle gotte, che sempre gli dieron noia, o per quello, che da tutti fu creduto per arte magica da Ottavian suo zio, per desiderio dello stato il quale di queste arti fu molto instrutto, era impotente. O infinita pudicizia di donna, o costanza incredibile, o bontà rara, e perfetta, vivere da circa XX anni appresso il marito nella propria casa, dormire ogni notte seco nel proprio letto, stringerlo, abbracciarlo, baciarlo, riverirlo, amarlo, e si può dire adorarlo, senza mai curarsi nè dolersi di non poter consumar il matrimonio. Questa è vera costanza di pudicizia. Questa è stata vera prova di far fede, che più possa lo spirito, che la carne, e l’appetito: Che più possa la fede, e l’amore, che la lussuria, e la lascivia. Quale sarebbe stata altra, che non quattordici anni avesse voluto stare, senza palesar questo, ma nè anche quattordici mesi, e quale durar XX mesi non che venti anni sino alla morte del marito, senza separare il matrimonio: Ed ella sforzata, pregata, costretta si per beneficio suo, come per lasciar di se eredi, mai non volle intenderla di separarsi da lui: sempre negò il difetto esser del marito: mai non consentì, che ciò fosse detto, anzi ebbe non poco a male, che il vero venisse a notizia. O fedelissima, e castissima donna, dirizzino gli occhi in te quelle, che spinte da lussuria, che veramente vogliono dimostrare d’essersi maritate col corpo, e non con la mente, che non pure rompon la fede a’ mariti, nè solamente si contentano di più d’uno innamorato, ma da loro si partono, e delle sue case fanno una publica stanza di meretrici, e concubinari: e per ogni minima cagione, e tallor bene spesso senza, disfanno i maritaggi, e con una carta con quattro lettere d’oro si fanno dispensare; poi che tu Donna giovane, nobile, bella, e avvezza ne’ reali palagi volesti mostrare, che non col corpo, ma con l’animo t’eri congiunta con Guid’Ubaldo. Nè solamente vincendo se medesima con una sola pruova di se, fece esperienza, nè fu degna in ciò d’una sola lode, imperocchè di qui si videro molte magnanime cose. Primamente con ragione potendo separarsi dal marito non volle, essendosi maritata in huomo al matrimonio non abile. Poi per amor del marito pose dal canto il desiderio, che regna in ogn’uno, a cui solamente sia ampia facultà, non che stato, e giuridizione, di lasciar di se eredi, figliuoli, e successori, acciocchè lo splendor delle famiglie non si estingua: oltre di ciò, così si portò col marito, che per non dare indizio della cosa; mai da lui non si dipartiva, e ogni notte almeno una volta, affettuosamente quel piacere, che potevano insieme pigliavano, senza mai contaminar l’animo. Imperocchè l’altre donne, che perpetuamente hanno conservata la pudicizia sua, o sono andate ne’ monisteri separandosi dalla conservazione degli huomini: e mai non si son maritate: e nelle case de’ padri, e fratelli quanto più hanno potuto, si sono astenute dalle pratiche loro. Ma questa donna nella casa del marito, nello splendore, e moltitudine d’huomini, tra giuochi, e tra la licenza del matrimonio, in mezzo l’udir quelle cose, che alle donzelle sono nascoste nella camera, e letto del marito, viveva nel suo seno, si struggeva d’amore, si congiungeva in abbracciamenti con esso, quali si fossero: ed essendo stata cosa difficile, e grande l’aversi voluto conservar vergine, così è maravigliosa, e quasi incredibile aver potuto. Ma passando più oltre: l’animo suo fu possessore di molte altre buone parti e divine, e per lasciar quelle, che sono proprie delle donne; nondimeno non si trovano in altre, che in donne perfette, l’innocenza, la pietà, la santità, la religione, le carezze verso gli huomini, la diligenza verso i familiari, la cura di tutti, la moderazione nelle cose private, lo splendor nelle pubbliche, e simili altre cose furono in lei, e delle quali fu molto ricca. Nell’esiglio del Duca, quando fu fuor uscito, la fedel Lisabetta sempre volle essere partecipe de’ suoi affanni, sempre lo consolava, levandogli gran parte del duro affanno, nè mai, come la fede Sulpizia moglie di Truscelione, e l’amorevole Ipsicratea Reina di Ponto, abbandonò il marito: continuamente con incredibil prudenza, e saldi consigli confortandolo, e porgendogli di que’ rimedi e utili consigli, che sono di gran consolazione a gli afflitti, e battuti da simili colpi di fortuna: onde avvenne poi, che Guido Ubaldo tra tutte le felicità che ebbe e innanzi, che fosse cacciato dello stato, e che poi vi fu rimesso, la principal e più cara tenne quella della moglie, che di Pudicizia non agguagliò, ma di gran lunga avanzò tutte l’antiche, e le moderne. Ora, per ridurre a maggior brevità, ch’io possa, le ’nfinite virtù di costei, poi che Guid’Ubaldo ebbe corso gli anni XXXVI. dell’età sua, nel qual tempo brevissimo, e poco, dalla infermità delle gotte, la maggiore e la miglior parte della vita sua era così deformata, che non avea quasi più sembianza umana, nè gli era restato altro, che ’l fiato, e la luce, consumata la carne, e mancato il vigore, l’anima se ne volò al cielo, e lasciò l’ossa alla terra. Qui non mi par da tacere ma brevemente d’esporre la morte sua, e ’l dolor dell’onestissima Lisabetta: Imperocchè, sentendo egli appropinquarsi l’ora di lasciare il mondo, e andare al cielo, avendo appo di se la cara moglie, che teneva nelle sue la mano di quello, riguardando tale affetto, che pareva volesse ricevere nella bocca sua lo spirito, che da quello aveva a uscire, la saggia Emilia Pia donna di grand’animo, di molto consiglio, di gran prudenza, e infinita pietà e molte altre donne e huomini di gran conto, verso ognuno, parlò in questo modo. Io son giunto al fine della vita, come vedete, sono chiamato da quelli, che hanno consentito, ch’io sia stato qui quel tanto, che ci son dimorato, a’ quali rendo infinite grazie, che m’abbiano finor lasciato vivere al mondo, che non mi pento di quanto son vissuto d’essere molto vivuto, ne penso che a voi rincresca, come anche che io muoia inanzi al cospetto vostro, e veggia quelli, che restino dopo me, onde muoio volentieri. Perchè non mi par morire, avendo voi, negli animi de’ quali, e nella cui memoria certamente potro molto più, che un tempo vivere. La onde mi parrà d’avere impetrato da Iddio tutte le cose, se otterrò da voi, che viviate come s’io fossi vosco. E rivolto a Francesco Maria dalla Rovere, che poi successe a lui, disse: A te principalmente figliol mio, che io, come che avendo altri nipoti di mie sorelle, come tu, nondimeno ho voluto, che mi sy figliuolo, istimando, ch’abbi ad essere a me simile, conviene, da qui innanzi come io ti fossi sempre presente, fare e dire tutte le cose di tal sorte, che non sieno indegne d’un figliol mio, Sempre figliuol mio a te farò presente, e da quel logo, dove gl’Iddei vorranno ch’io vada, riguarderò ciò, che farai, e dirai, maggiormente, che a te conviene imitare prima de gli altri Giulio II. Pontefice Massimo tuo Zio, il Duca Federigo di buona mem. mio padre, e Giovanni tuo Prefetto di Roma de’ quali vivendo uno nei consigli ti potrai molto valere, e degli esempli dell’altro imparare, attendendo alle scienze, faccendoti quelle due famigliari, d’aver cognizion dell’istorie, e dell’arte oratoria, delle quali deve essere adornato ogni degno prencipe. Ultimamente questo ti comando, che alla Duchessa tua madre siy ubbidiente in tutte le cose, e l’osservi in ogni qualità di pietà: che così in un conto la instabilità della giovanile età stabilirai, nell’altro a me farai cosa grata. Grandemente desidero, che quella fede, amore, e osservanza, che in onorarmi ha dimostrato, locarla in te e nella pietà e carità tua verso di lei: la quale, giusto è che chi è erede delle altre cose, anche abbia questa. A te veramente perfettissima, e carissima moglie, niente comando. Imperocchè, che ordinerò ora io a te che muoio, la quale, mentre vissi, non m’hai pur mai lasciato luogo d’avvisarti nè ricordarti alcuna cosa? Quello, che dirittamente a te s’apparteneva di fare, da te sempre fatto l’hai. Ti conforto adunque, e se sopporti ti prego, che tu procuri il figliuolo amministrar lo stato, tanto, che viverai in tal maniera, e con tal ammaestrameti, che degnamente sia degno di noi, e de’ suoi maggiori. Ma anche dimando questo con grande istanza da te: che come avrai eseguito tutte le cose, secondo il parer tuo, che non debbi piangere la mia morte, nè mi turbi quel riposo, ch’io spero tranquillamente goder appo Iddio, se le lagrime tue non m’impediscono. Dette queste e molte altre cose, verso ogn’uno indi a poco se ne morì. Qui non so io come mi fare a voler dimostrar l’effetto dell’amore di questa singolarissima moglie: la quale, mentre senso o spirito fu nel marito, sempre lo riguardo con gli occhi asciutti, acciocchè non turbasse, per compassion di lei, quello, che moriva. Ma come affatto lasciò di vivere, e appena fu spirato, qual fuori di se, si lasciò cader sopra lui, e con altissima voce incominciò a esclamare: Ahi marito mio, perchè mi lasci? Dove vai? L’animo per la grandezza del dolore la lasciò vinta e debile, onde senz’altro allora poter dire, cadde tramortita. Furono di quelli, che la credettero veramente morta, di sorte non si trovava rimedio per farla rinvenire, ed in lei ritornar gli smarriti spiriti. La onde incominciò a piangere in un tempo la morte di due l’una veramente più giusta, quella della donna più compassionevole sorte di pietà, la faceva più miserabile. Ma Iddio, che allora non volle tanto dolore, fece, che nelle mani de’ suoi, non sentendo ella alcuna cosa, fredda, e quasi senz’anima, incominciò pian piano a rinvenire. Onde aperti gli occhi, riguardando verso il cielo, e poi affisandogli verso quelli che si sforzavano, secondo il poter suo, ritornarle lo spirito, come più tosto potè parlare, disse. Che importuno pensiero, che fatica oltre il dovere è stata questa vostra? Perchè crudeli, e d’ogni pietà privi, mi vietate seguire il mio signore? Perchè avete invidia, che quello ch’io ho avuto compagno di mia vita in vita, l’abbia medesimamente in morte? Misera me, egli se n’è andato, ed io resterò? Non resto, anzi marito mio ti seguo. Come ella ebbe detto queste cose, quasi un rivo di lagrime, incomincio abbondar da gli occhi suoi, e insieme di lamenti e pianti mescolarsi e empirsi ogni cosa. Ne mai s’udirono maggior rammarichy, che allora. Così essendo stata la fedelissima Lisabetta due giorni senza risponder mai altro a quelle, che andavano a consolarla, e a persuaderla a pigliar cibo, o il sonno, che essere disposta di voler morire, e con gli occhi e la faccia a terra, sempre in questo tempo se ne dimorò: alla fine e da tanti prieghi e da infiniti conforti, più, per rimediare alle cose del Ducato, che per cura di se medesima, si levò, con queste parole. Poichè il dolore non può or’hora uccidermi: quanto sarò per vivere, tanto starò in pianti, doglie, e martiri: come fece veramente. Indi col valor suo la sapientissima dona subito provvide che alcuna cosa non facesse movimento nessuno: e fatto gridar Francesco Maria Duca, con la prudenza, con la magnanimità, e la sapienza sua, ridusse il tutto in fermo e tranquillo essere, vivendo tutto ’l resto di quello, che sopravvisse al marito con la rimembranza di quello, e stando lungo tempo senza mai voler lasciarsi vedere. Ma perche m’aveggio, che s’io volessi continuare nell’avanzo della vita da lei fatta nella vedovanza, molto più mi sarebbe bisogno d’esser lungo, ch’io non sono stato, e poi non farei nulla, accorgendomi, che molto ho detto: ma non quanto mi si conveniva, lascierò da questo poco la considerazione all’infinità de’ meriti dell’onorata vita sua, la quale senza più dirne altro, si può giudicare, che fosse ripiena di quelle sante imitazioni, che creatura umana può considerare, e non mettere in esecuzione. Perchè la religione, la fede, la bontà, la pudicizia, la prudenza, la carità, e tutte le virtù, furono in quel castissimo e sagratissimo petto, visse accompagnata, e si può dire, che morendo le portò seco.

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