FINALMENTE UN ROMANZO CAPOLAVORO.

Di rado leggendo, o finito di leggere, un romanzo mi si affaccia alla mente il termine capolavoro. È capitato con Terminus Radioso di Antoine Volodine (66th and 2nd, 2016), edito in Francia nel 2014 per le Editions de Seuil e subito insignito del prestigioso premio “Médicis”. Non è fantascienza, non è fantasy, non è un post-apocalittico distonico o un thriller, ma neppure un romanzo dei soliti, tutti mirati al sociale, o al rimpianto di un passato più o meno bucolico e, tanto meno, un romanzetto della nuova appendice. Si tratta di un altro genere e in effetti lo è: il post esotico, genere fondato dallo stesso Volodine e di cui, fin ora, è l’unico esponente. Ma, tra quelli degli ultimi anni, è uno dei pochi romanzi che, a mio parere, si meriti la definizione di capolavoro.

Non facile descriverne la trama. Il libro è diviso in quattro parti ognuna con un ruolo peculiare all’interno della diegesi. Kolchoz, la prima, descrive l’ambiente e il mondo in cui si svolge la vicenda, una presunta Seconda Unione Sovietica caduta in una post-apocalisse causata da guerre interne e disastri nucleari. La geografia ci descrive un ambiente nel quale si può identificare la Siberia, Levanidovo, luogo che tra l’altro esiste davvero almeno sulla carta geografica, ma non sembra che ciò sia importante per l’autore. La guerra si è risolta in una sconfitta, anche se è stata tentata la riconquista della capitale, Orbisa, e tre dei soldati reduci dall’ultima battaglia, Elli Kronauer, Iliuchenko e Vassilissa Marachvili, vagano per la steppa, feriti e contaminati dalle radiazioni, in cerca di un luogo dove fermarsi, e, a questo fine, Kronauer viene designato per andare in esplorazione, visto che la donna, Vassilissa, versa ormai in fin di vita. Giunge così in un villaggio, Terminus Radioso, tra la foresta, abitato da una esigua comunità impegnata quasi totalmente a “nutrire” l’unica fonte d’energia rimasta loro, una pila atomica che è sprofondata nel terreno per alcuni chilometri, si potrebbe dire che ha deciso di sprofondare, tanto questo reattore sembra una cosa viva.

Tra i vari personaggi che popolano Terminus Radioso spicca la figura di Nonna Udgul, donna di cui è difficile definire l’età, anche per il fatto che si parla di centinaia di anni, e immune alle radiazioni, tanto che il governo della Seconda Unione Sovietica l’aveva designata come ispettrice per esplorare i luoghi contaminati, alcuni nei quali ogni forma di vita si era estinta, e da cui sempre era tornata incolume. Divenuta una specie di eroina nazionale, almeno nell’immaginario popolare, si dimostra scomoda per il potere istituito (un eroe che non muore per la causa dà fastidio), cosa che la convince a autoisolarsi nel paesino in mezzo ai boschi dove si prende cura della pila atomica e incontra una sua vecchia fiamma, Soloviei, il capo della comunità che governa in maniera dispotica, una specie di stregone o mago malefico, ma anche fine letterato.

Kronauer si scontrerà con questo capo e con tutta la cittadinanza, comprese le figlie-moglie di Soloviei alle quali, lo stesso, non dà tregua, quasi tortura, con il proprio potere di controllare i sogni, entrando nel loro mondo interiore per indirizzarlo e dominarlo. Lo stregone ha il potere di riportare in vita i morti, ma non come zombie, piuttosto come esseri a cavallo tra la vita e la morte. Questi hanno ancora le funzioni umane, soprattutto quelle basilari, come espletare i bisogni e mangiare, anche se solo per istinto, e sono esseri particolari. Ci sono quindi i “morti morti”, i “vivi” che, a causa delle radiazioni assorbite, sono a volte dei mutanti, e nel mezzo i “morti che camminano”, che sono un po’ gli uni e gli altri. Ci sono poi i “cani”, quasi l’autore volesse ricordare che pure gli uomini sono animali.

Il secondo capitolo rimane un poco isolato rispetto agli altri e appare come un Elogio dei campi di lavoro, titolo del capitolo, descrivendo il tragitto di un treno, forse l’ultimo portatore di umanità, dove soldati e prigionieri vivono una vita in comune, quasi senza distinzioni, condividendo una misera vita quotidiana per ritrovarsi poi la sera attorno al fuoco a ascoltare “carmi” in cui si descrive la post-apocalisse e dai quali emerge che i campi di lavoro sono rimasti i luoghi dove meglio si può vivere e dove tutti desiderano di abitare, la meta agognata e ultima di vivi e non.

Si giunge così alla terza parte, intitolata Amok, una vera e propria caccia all’uomo, considerata però come, appunto, “amok”, cioè quella condizione psichica riscontrata nelle popolazioni malesi che non sembra avere a che fare con qualcosa di patologico, compare improvvisamente, per lo più conseguente a shock repentini, e durante la quale il soggetto in preda all’accesso corre all’impazzata colpendo violentemente qualunque cosa incontri, uomini, animali o oggetti, e dimenticando tutto una volta che la crisi si estingue. È la parte più cinematografica del romanzo, condotta con un ritmo sostenuto che coinvolge in maniera netta il lettore.

Nell’ultimo capitolo, Taiga (foresta caratteristica delle regioni fredde dell’estremo nord dell’Eurasia, costituita in prevalenza di conifere), si torna in piena post-apocalisse dove l’autore cerca, riuscendoci, di indagare su tutto ciò che può caratterizzarla, affrontando tematiche come la morte, l’eternità e l’immortalità, la scrittura, la scienza e il sapere, il senso della vendetta e ciò che in genere appartiene all’umanità e la caratterizza, almeno nel pensiero dell’uomo, con una capacità che solo la grande letteratura e i grandi autori sanno fare.

Come preannunciato la trama è difficile da descrivere e può, in prima istanza, apparire opera di un mezzo pazzo squilibrato, un guazzabuglio di tematiche e di situazioni al limite – o meglio oltre il limite – del reale e del paradossale, assemblate alla bel è meglio. Ma non è così, ciò che fa di questo romanzo un capolavoro è soprattutto il modo in cui è scritto, nuovo e straordinario, con invenzioni che lo rendono unico, come, ad esempio, per tutto ciò che appartiene alla descrizione del mondo vegetale, caratteristica del post-esotico, con l’invenzione di nomi di piante e erbe che non esistono, come la “della bella dama, della regrinella, della mortaccina dal gran ciuffo, della godifoglia. Erbe aspre, elastiche, violente. Erbe che si ritraggono al minimo contatto, come la spingistorta, la sterpafina, la majdahara, la soffisplendida, la barbafeccia pellegrina, la madre dei lebbrosi”, ma che rendono immediatamente l’idea della loro funzione e anche della loro più o meno bellezza, e a questo proposito non si può che lodare il lavoro eccellente della traduttrice, Anna D’Elia, che ha saputo mantenere il ritmo e lo stile straordinario di Volodine.

Insomma un romanzo da leggere da capo a fondo per tutte le sue di 400 pagine e oltre, che scorrono velocemente anche se, è bene dirlo, non è un romanzo, si potrebbe dire, per tutti, nel senso che non è di facile lettura e decifrazione, soprattutto all’inizio, ma risulta depistante, improprio, lontano dagli stereotipi letterari a cui siamo abituati, e in questo, a dire il vero, sta uno dei suoi maggiori punti di forza. Ma è anche vero che, per quel che mi riguarda, è un capolavoro reale se non assoluto, al confronto del quale solo altri due romanzi negli ultimi 25 anni circa possono stare alla pari, seppur per motivi diversi, quali Infinite jest di David Foster Wallance del 1996 e il più recente Una vita come tante (A little life), della Hanya Yanagihara, tanto da rendermi molto desideroso di tuffarmi nell’ultimo lavoro dello scrittore francese, Post esotismo in dieci lezioni, lezione undici, edito sempre per i tipi della 66thand2nd.

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