FRANCESCA CASADEI E IL ROMANZO PER TUTTI.

Facile a dirsi letteratura per ragazzi. Spesso relegata tra i “generi minori”, fenomeno tutto italiano, dove non si considera mai troppo che un’opera non la fa il genere, non del tutto, ma l’autore. Tanto per capirci mi piacerebbe vedere come chi sposa simili ghettizzazioni, potrebbe non definire capolavori I viaggi di Gulliver, David Copperfield, Il giro del mondo in 80 giorni e, tanto per capirci, Pinocchio. Libri questi che, se privati dell’etichetta snobistica di “libri per ragazzi”, sono “adatti” anche a un pubblico adulto, anzi sono proprio belli da leggere, molto più di tanta letteratura “seria” o “impegnata”. Così con piacere mi sono trovato a leggere Come soffitto il cielo (Edizioni San Paolo), opera prima di Francesca Casadei, definito, appunto, “libro per ragazzi”. Forse lo è, se non altro per essere stato inserito nella collana “Narrativa San Paolo per ragazzi”, ma, man mano che lo si scorre, ci si accorge che è un libro che dovrebbero leggere tutti, soprattutto genitori e educatori. La trama è ben architettata e avvincente come lo è sempre quando motore della situazione è la soluzione di un mistero o che tale si presume, ma la forza del libro non sta in questo.

Ci si trova di fronte a un viaggio di singoli individui alla soglia dell’adolescenza che si scontrano o incontrano con il mondo, un mondo tutto loro, tutto nuovo e, ai loro occhi, infido se non pericoloso. Forse è un tema che ultimamente assilla i miei studi e le mie ricerche, ma pure in questo romanzo mi sembra vi sia, da parte dei personaggi, la ricerca dell’identità, cosa, tra l’altro, del tutto normale per quella fascia d’età. I quattro protagonisti fin dall’inizio si trovano a scontrarsi con le domande angosciose del “chi sono?”, “cosa ci sto a fare qui?”, in una situazione aggravata dalla novità: l’ingresso in prima media, che ognuno affronta con differenti reazioni, ma che in tutti cela una paura/desiderio per l’inedito, e un piacere/terrore per ciò che, inevitabilmente, porterà un cambiamento nella loro vita.

La ricerca dell’identità nell’adolescenza (ma oggi poteremmo dire non solo in quell’età) è considerato un tema centrale già dagli studi approfonditi di Erikson (1968), visto come il tentativo di superare tramite l’esplorazione la crisi identitaria, integrando e superando il percorso di vita che l’ha preceduta. Un processo che include vari stadi, dalla trasformazione del corpo, al mondo relazionale, al bisogno di indipendenza e, al tempo stesso, di protezione.

Ci si aspetterebbe quindi il solito romanzo in cui famiglia e scuola si pongono come guide, come i tramiti attraverso cui il giovane giunge a formulare la la propria identità, in contrapposizione al “gruppo”, “la compagnia” che si determinano come mondo dei “pari”. Non è così e forse è proprio questo uno dei punti di forza del romanzo della Casadei. Famiglia, genitori, professori ci sono, ma rimangono sullo sfondo, spesso non sono neppure troppo caratterizzati, nel senso che il loro intervento rimane in sordina, pur essendoci, e non si colloca come punto focale. Non sono neppure troppo indagati nella loro psicologia, anzi lo è molto di più il cane Argo, con le sue volute di coda, il suo rimanere accanto alla padroncina in crisi, silenzioso, ma partecipe e fedele, o il bosco capace di avvolgere, di muovere pensieri e dare serenità, molto più del nido famigliare.

Quello che invece emerge è come questi ragazzi nelle loro mille domande, nel loro sentirsi trasparenti, ma al tempo stesso nel volere invece apparire, salvo che, una volta che ciò si rende possibile, è pronta la fuga, in realtà sono tesi nella ricerca dell’altro come elemento fondamentale per la costruzione della loro identità. Un processo lento, con alti e bassi, colpi di scena, in cui la scuola, come ambiente, milieu, fa da scenario perfetto con un realismo che trasporta proprio all’interno delle dinamiche di una classe, e naturalmente nel romanzo c’è molto di biografico e di autobiografico, ma gestito in maniera talmente sottile e raffinata che solamente chi quelle situazioni, e non in generale, ma proprio quelle, le ha in qualche modo vissute ha la capacità di cogliere. Lo stesso si può dire dei luoghi, reali, vissuti: la scuola “Pascoli”, le Cesane, Urbino, per una volta fortunatamente non celebrata o osannata, miticizzata, ma appena accennata come uno scenario minimale.

Ma l’altro in che senso? L’essere umano non si costituisce come una sostanza auto-fondata o attraverso una facoltà di sintesi, ma dipende nel suo essere dal riconoscimento dell’Altro, dal desiderio dell’Altro”, ha scritto Jaques Lacan. In pratica, per il filosofo psicanalista francese, non c’è una vera e propria identità soggettiva che si crea attraverso una maturazione, ma si costituisce attraverso l’Altro, anzi il desiderio dell’Altro, divenendo, in un certo senso, l’Altro stesso. Mi sembra che nel romanzo di Francesca sia questo il filo conduttore, i personaggi vivono una loro esclusiva intimità fatta di problematiche tipiche dell’età, chi con l’atteggiamento di colui che si sente fuori luogo perché non accetta il mondo circostante, il “ribelle”, chi assillato da problemi famigliari e dall’essere stato sradicato dal luogo originario, chi per il non accettarsi fisicamente con la conseguenza di percepirsi inadeguato e chi, in fine, è sobbarcata da un forte atteggiamento narcisistico che la porterà a compiere atti di bullismo e cyberbullismo estremi.

Ma queste parabole trovano il loro compimento proprio nel rapporto con l’Altro, con ognuno di essi, che pian piano si ritrovano, scoprono altri modi di essere, si completano, nel bene e nel male, anche con il ricorso alla violenza, là dove è l’istinto giovanile, ma più in generale l’istinto in sé, a prendere il sopravvento. Tuttavia la vera scoperta dell’Altro come elemento che costituisce il Sé e l’identità, viene a galla proprio dal lato più nascosto, da quello da cui mai si sarebbe potuto credere fosse capace di sgorgare.

È la professoressa che inconsapevolmente fornisce l’occasione per il compimento del processo, quando, a partire da un breve passo dell’Iliade, chiede agli alunni di riunirsi in cerchio dove nessuno sta al centro, quindi sono tutti periferia, e di raccontare qualcosa che ha segnato la loro vita. L’intervento quasi improvviso, senza rispetto del turno, impetuoso, del ragazzo che fino allora era rimasto solo sullo sfondo del romanzo e con una connotazione piuttosto negativa, non solo fornisce la chiave per interpretare la frase misteriosa che fa da collante nell’intera narrazione, ma si presenta come un disvelamento e costringe gli altri ragazzi a prendere atto dell’altro, professoressa compresa. Un ragazzo straniero, apparentemente violento e disadattato; l’Altro per eccellenza insomma. Dal suo racconto, dalle sue riflessioni, prende il via la vera e propria presa di coscienza del Sé dei protagonisti che si trovano di fronte non solo un Altro, ma un Altrove, sconosciuto o forse ignorato, ma che era lì a due passi da loro, tuttavia incapaci di coglierlo o solo di intuirlo, limitati da preconcetti e dall’analisi troppo introspettiva di se stessi, come accade a ogni adolescente. L’Altrove si pone allora come la soluzione o, per lo meno, la via da percorrere per trovare una propria identità in collegamento con l’altro e con tutti i mondi che girano attorno loro e che, solitamente, sembrano neppure sfiorarli, non esistere e invece sono lì, pronti per essere scoperti. Insomma a “imparare a guardare meglio in quello che non si vede” come si sorprende a pensare Filo.

Un debutto veramente positivo e efficace quello di Francesca Casadei, un libro destinato a tutti, proprio dagli 8 anni in su, come sottolinea la didascalia di Amazon, e capace, agli occhi di un lettore adulto, di di aprire un mondo, quello adolescenziale o pre-adolescienziale, che rimane spesso nascosto, incompreso o, forse, volutamente ignorato.

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