IN ARTE GIÒ ROSS

Foto delle opere courtesy dell’artista.

Risalgono allo scorcio del secolo scorso le prime pagine che scrissi sull’opera di Giò Ross come introduzione a alcuni dei suoi cataloghi. In particolare sulla serie dei Timidi, opere che risentivano ancora della freschezza della giovane età, ma dove si poteva già leggere il percorso coerente e le esperienze che avevano segnato l’artista e avrebbero caratterizzato il suo futuro artistico.

Poi nel nuovo millennio la sua arte e la sua poíesis si sono trasformati e hanno trovato altri livelli espressivi e nuovi stili (per quanto sono sempre molto ostile a considerare cambiamenti di stile in un artista, lo stile rimane più o meno sempre lo stesso), osando anche verso soluzioni che potevano apparire non adatte alla sua pittura, come l’introduzione di elementi materici, oggetti, in particolare cd, all’interno della tela e mescolati a colori e forme. Altre esperienze, altre mostre, tra cui certo va ricordata quella a Parma nel 2001 in occasione dell’anniversario di Verdi, dove Giò si accosta alla comunione tra arte figurativa e musica, e poi via via (saltando a piè pari altre importanti esperienze artistiche) un cammino che sfocia, ormai siamo ai tempi recenti, nell’interesse verso lo sport, il basket in particolare. L’idea non è nuova, c’è una lunga tradizione di arte e sport, a cominciare dalla Taurocatapsia dell’arte cretese-minoica, attraverso tutto il periodo tardo classico e ellenistico greco e, con un certo salto temporale, ai Pattinatori di Bosh, fino ai futuristi con in testa quel Dinamismo di un ciclista di Boccioni, e alle tele dedicate all’atletica leggera da Delaunay, e poi la pop art, Hockney e Wharhol, e qui fermiamoci (anche se una menzione all’omaggio di Guttuso ai calciatori vincitori del Mondiale dell’Ottantadue è doveroso farlo, se non altro per onore dell’anniversario).

In questa serie predomina la suggestione della pop art, ma solo da un punta di vista formale. Se infatti i personaggi dello sport o le loro azioni richiamano quella corrente artistica, con una tendenza al cartellonismo, esse sono poi mescolate o, meglio, miscelate, con due dei temi ricorrenti nell’artista: Urbino e Raffaello. Entrambi, la città e il suo pittore, sono visti con uno sguardo mitico, quasi atemporale; è l’immagine un po’ usuale e stereotipata a dominare più che una reale presa di coscienza dell’ambiente attuale e dell’arte del divino pittore, e la cosa non sorprende, è questo un atteggiamento tipico di quasi tutti gli urbinati inclini ancora a vedere la propria città rivestita della gloria, passata e sepolta, del Duca Federico, cosa non del tutto positiva, contribuendo così a congelarla nella sua quasi immobilità, nell’incapacità di crescere e adeguarsi a panorami più contemporanei (con le dovute eccezioni naturalmente come in Volponi, Piersanti, Torino e un certo Sanchini o Bertoni ad esempio). Ma quelle di Giò Ross, sono opere che comunque colpiscono, che rendono attuali quei luoghi che sembrano quasi accogliere con una naturale compostezza personaggi, pure loro mitici, dello sport.

Ma sono le ultime opere del pittore urbinate che hanno sollecitato la mia attenzione. Intanto la tecnica è cambiata, diviene una mixed media, in cui ogni espediente, dalla fotografia, al ricorso alla digital art, fino all’intervento di mano propria, concorrono a rendere un effetto unico e nuovo rispetto le precedenti esperienze.

Ross ha dichiarato che queste opere sono state progettate e realizzate durante i più o meno lunghi periodi di lockdown a cui siamo stati costretti in questi ultimi due anni, e che in esse predomina un senso di “oblio”, il tentativo e la necessità di “viaggiare pur stando al chiuso”, insomma una specie di evasione mentale e psichica che però tale non mi sembra, non del tutto almeno, c’è qualcosa di più che le rende estremamente interessanti.

Si percepisce in queste opere, come Il silenzio di Urbino o Uno sguardo verso il mondo, attimi che sembrano scorrere nel tempo pur sentendolo estraneo, momenti in cui la sensibilità di ognuno di noi sembra non riuscire a esprimersi. Attimi comunque privilegiati che si vestono dell’attesa come se in essa vivessero. Momenti che appartengono forse al passato, ma si presentano senza tempo, sono proprietà di chi li vive anche attraverso la visione di un dipinto, di una rappresentazione, e che può essere ora, qui, o mai e in nessun luogo.

La Piazza desolata con la fuga prospettica dei portici che sembrano non finire anche se un limite si intravede, o quello sguardo gettato attraverso probabili vetrate e archi su di una città che sembra rappresentare il vuoto, forse un vuoto interiore che coglie nell’isolamento spaziale, ma pure acustico, in cui il lockdown ci aveva calato, rimandano a sensazioni e situazioni che torneranno a vivere, che saranno di nuovo tempi in divenire, in cui l’essere costretto in uno spazio limitato in cui stare e dove il bisogno di un nuovo presente da poter rivivere e riprendere il ritmo della vita, si fa esigenza e anela alla propria realizzazione. Quell’attimo rompe l’attesa e si rivela presente in un divenire che non può arrestarsi, in altre parole diviene arte, perché un artista, Giò Ross, quei momenti, quelle sensazioni, sa tradurli in immagini, specchi di un vissuto che riaffiora sulla propria pelle e, attraverso la sensibilità, prendono forma e escono dall’intimo dell’animo e dalla segregazione del silenzio per aprire un dialogo con il mondo.

Intanto ancora una cosa mi preme sottolineare: come già in molti quadri dei Timidi, in queste ultime opere predominano l’azzurro e il giallo, che tendono, a volte, a tramutarsi in blu e in arancione.

Ha scritto Wassily Kandinsky: “È caldo o freddo il colore che tende generalmente al giallo o al blu (…) Si verifica allora un movimento orizzontale: il colore caldo si muove sulla superficie verso lo spettatore, quello freddo se ne allontana. Oltre a far muovere e a muoversi in orizzontale questi colori hanno un altro movimento, che li differenzia interiormente. Nasce di qui il primo grande contrasto interiore (…) Il secondo movimento del giallo e del blu che forma il primo grande contrasto è un movimento centrifugo o centripeto. Il blu, che ha un movimento diametralmente opposto, frena il giallo: se si continua ad aggiungere blu i due movimenti si annullano in un’assoluta immobilità e in un’assoluta quiete”. L’immobilità e la quiete di chi si sente costretto a rimanere fermo, chiuso, e non tanto in uno spazio fisico limitato, quello del proprio appartamento, mentre fuori la natura senza l’uomo sembra risvegliarsi, ma in un chiuso interiore che si muove in orizzontale, dall’esterno verso l’interno e viceversa, e che genera il malessere, il contrasto interiore da cui sembra non sia possibile uscire. Il giallo è il colore che induce “un accento malato. Da un punto di vista psicologico può raffigurare la follia, intesa non come malinconia o ipocondria, ma come accesso di furore, di irrazionalità cieca, di delirio”, mentre il blu ha una vocazione “alla profondità è così forte, che proprio nelle gradazioni più profonde diviene più intensa e intima. Più il blu è profondo e più richiama l’idea di infinito, suscitando la nostalgia della purezza e del soprannaturale” scrive ancora Kandinsky. Nell’opera di Giò, prendiamo Una luce in fondo al tunnel, blu e giallo si alternano lungo la galleria, ma alla fine di questa, nell’ultimo tratto domina il giallo che si interrompe poi nel nero, portatore di tutti i significati risaputi e della luce bianca, che sembra però più sparire che allargarsi, quasi assorbita da quel buio.

È forse la resa? L’abbandonarsi alla malattia e al delirio? Una dichiarazione dell’impossibilità di uscire da una situazione angosciosa, dalla sconfitta che la natura sembra imprimere nell’uomo con un piccolissimo organismo, la fine dell’antropocentrismo che ha dominato la cultura da millenni? Forse, ma un accenno alla ripresa c’è e sta proprio in primo piano. I due personaggi, l’uomo e la donna in abiti anni ‘40, non solo indicano verso il fondo del tunnel come per prenderne coscienza e aprirsi quindi a un nuovo modo di essere, ma non a caso sono grigi. Di nuovo Kandinsky: “Il grigio è silenzioso e immobile. La sua immobilità, però, è diversa dalla quiete del verde, che è circondata e prodotta da colori attivi. Il grigio è l’immobilità senza speranza. Se diventa più chiaro, è percorso invece da una trasparenza, da una possibilità di respiro che racchiudono una segreta speranza. Questo grigio è formato dalla mescolanza ottica di verde e rosso, cioè dalla mescolanza spirituale di una passività compiaciuta e di una fervida attività”. Si affaccia la speranza sospinta dall’attività che spinge fuori dalla passività, forse compiaciuta, in cui ci si può gettare quando tutto sembra perduto. Ma appunto quel grigio chiaro, quasi bianco, lascia aperta la possibilità di rinnovarsi e di trovare una diversa forma di essere uomo, il gesto della donna, quel dito teso, non indica rinuncia, ma l’intenzione di scoprire per superare l’ostacolo, sembra alludere a una domanda che esige una risposta a cui replica il volto dubbioso e un poco distaccato della figura maschile.

La conferma viene dal dipinto Il pesce danzante sul mondo, dove non solo i colori giallo, blu, bianco ecc. si contendono quasi in una lotta e sembrano risolversi nel verde che si fa strada dentro la sfera, il verde la quiete assoluta sempre secondo il pittore russo “fondatore” dell’astrattismo. Ma qui interviene il titolo che fa parte integrante dell’opera, un titolo che sembra non c’entrare nulla con quanto è rappresentato e proprio per questa sua caratteristica è capace di far riflettere, depista lo spettatore, invitandolo a cercare dentro l’opera un senso, se c’è, o comunque un altro modo di affrontare e concepire le cose del mondo, un mondo sul quale il pesce sta sopra e non l’uomo.

Un’evoluzione continua e coerente quindi quelle di Giò Ross che ci auguriamo continui, magari esplorando nuovi orizzonti, sia tecnici che tematici, nel tentativo di esprimere sempre quella tensione senza soluzione che è l’arte.

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