GIULIO GIULIANELLI, O L’INCHIOSTRO DELL’ANIMA.

Immagini courtesy Giovanni Giulianelli.

Tra gli artisti che hanno caratterizzato le varie stagioni artistiche della odierna Urbino e del Montefeltro mi ha sempre colpito la figura e l’opera di Giulio Giulianelli, pittore, scultore e grafico acquisito dalla città ducale, ma facente parte in maniera totale della sua vita culturale e creativa. Difficile sarebbe fare un sunto della sua opera che ha attraversato vari periodi e stili, sempre reinventandosi, ma non abbandonando mai quella vena che deve un tributo marcante alla fantasia che, in alcuni casi, sfocia in un sentore surrealista, al quale però Giulianelli non ha mai ceduto completamente, consapevole che quello stile, quella corrente così importante, anzi fondamentale, per il ‘900 artistico e culturale, era però in qualche modo superata o da oltrepassare.

Lo si può leggere bene ad esempio in Attesa del 1979, dove la maternità è vista e vissuta con la gioia che si rivela attraverso le forme tonde e circolari che ricordano una luna serena e azzurra e dove tutte le ansie e le nevrosi, così care alla corrente di Mirò, Dalì e altri, sembrano svanire in quelle due piccole appena accennate braccia che circondano il ventre materno.

Ma pure la maternità, il suo rivelarsi e il suo mistero, si colorano dell’ingenuità della fantasia espressiva dei bambini, come sembrano significare i disegni appunto infantili che ritraggono il bambino, l’uccellino, forse simbolo di una libertà che si libra o del nido materno, e il sole che irradia la vita. Tutti ancora rigorosamente blu, il colore della calma, della pace e dell’armonia che, tanto è più profondo, tanto più richiama l’uomo verso la quiete e l’infinito, come ci ha insegnato Kandinskij.

Il gioco della fantasia e del mistero permane anche in quelle opere degli anni ‘80 del secolo scorso in cui il segno si tramuta. Non più un pigmento disteso, sereno, ma dove il pastello prende il posto del pennello, il tratto si fa nervoso, i contorni si sfaldano e i colori, pur mantenendo una predilezione per il blu, si arricchiscono di verdi e rossi che, assieme ai tratti neri quasi scarabocchiati sopra l’immagine senza però riuscire a confonderne i tratti e la leggibilità, aggiungono al sentimento misterioso un che di drammatico, non di tragico, che sembra alludere a una disillusione, forse nei confronti della vita e della realtà, come appare potersi leggere nel Autoritratto del 1987, dove l’artista si ritrae frontalmente con sciarpa e cappello, come se stesse per uscire, per andarsene.

Una partenza che non appare come una conquista o un’opportunità, ma piuttosto come un andare verso un futuro con disincanto, anche se gli occhi verdi che si coniugano con lo stesso colore della sciarpa, sempre Kandinskij docet, sono del colore che esclude la gioia, come la passione e la tristezza; è il colore che non aspira a nulla, immobile, ma al tempo stesso, seguendo questa volta Lüscher, rappresenta pure i valori stabili, l’autorevolezza, la dignità e la stima, che Giulianelli sembra voler attribuire alla propria immagine, al proprio essere, di colui cioè che, pur nella disillusione, sa di aver compiuto il proprio dovere, di aver fatto e operato nel possibile e per quanto il tempo, le situazioni, insomma il succedersi casuale della realtà hanno potuto concedergli.

Lo stesso si può affermare per la scultura, dove però sembra affiorare l’universo mitico, o meglio, archetipico che si esprime attraverso il simbolo, inteso come mezzo espressivo e creativo più antico dell’uomo e a lui legato indissolubilmente, almeno finché non se ne è svelato il significato (parafrasando Jung), anche attraverso l’uso di materiali “poveri”, quasi casuali e appartenenti alla quotidianità, come la pietra non lavorata, il legno, il ferro, in forme che richiamano molto da vicino l’immagine del totem, del votivo e del sacro.

È però un altro aspetto dell’arte e dei lavori di dell’artista sammarinese che ha sempre suscitato in me la curiosità maggiore. Quella che si è soliti definire la sua opera “grafica”, i disegni, direi però dipinti, a penna sfera, con la bic per intenderci. Intanto non si capisce perché definirli grafica. La grafica è per antonomasia una tecnica artistica volta a produrre immagini, disegni, riproducibili in serie, come la xilografia, la calcografia, fino alla serigrafia e alla digital art. Le opere a penna di Giulianelli sono uniche e non riproducibili, proprio come un olio o un acrilico. Intanto non è una tecnica inedita, lo hanno già fatto in molti e con risultati eccellenti, e non artisti di secondo piano o “grafici”, là dove non si vede da dove venga l’abitudine di considerare la grafica arte di serie B, come, solo per citare i nomi più illustri e tralasciando i più contemporanei che ormai hanno invaso il mondo e il mercato dell’arte internazionale, tra cui Khodeir, Bosokan, Marcello Carrà, Yael Delasio, vere icone dell’arte contemporanea: Alighiero Boetti, César, Giorgio Colombo, Lucio Fontana, Alberto Giacometti, Fernand Léger , René Magritte.

La penna a sfera, uno degli oggetti con cui ogni giorno abbiamo a che fare e che abbiamo usato dalla più tenera età, forse ancor prima di imparare a camminare o a parlare, può essere mezzo espressivo di grande efficacia. “Qualsiasi strumento scrittorio basato sull’impiego dell’inchiostro”, è la definizione che il dizionario dà della penna, un mezzo destinato per eccellenza alla scrittura, ma che nelle mani di Giulianelli diventa pennello e con il quale al posto dei colori della tavolozza, predomina il chiaroscuro dominante in mille sfumature, rese più penetranti, ma anche più vaghe, indeterminate, dall’uso del puntillinismo che, tuttavia, non ha nulla a che fare con quello si Signac e compari. I tratti, i contorni sono definiti, il chiaroscuro netto nelle sue sfumature. C’è una precisione che ricorda quella degli amanuensi medioevali e dei loro codici miniati, ma un’attenzione al particolare che non è fine a se stessa e si mescola con lo spirito dell’autore facendo vivere i dipinti di propria vita e inducendo l’osservatore a guardare con attenzione, impiegando non solo la retina, ma coinvolgendo il cervello in una comprensione dell’immagine che porta al di là dell’attimo per configurarsi come intervento sul mondo.

Ma non abbandona la vena del sogno, della fantasia, perfino della trasfigurazione della realtà. Ecco quindi nascere lo splendido Urbino vola del 1973.

Una città rappresentata più con gli occhi della mente e della sensibilità dell’artista che la immaginano che nelle sue fattezze reali, una città che quasi perde tutto il suo bagaglio, spesso ingombrante e limitante, di tradizione storica e artistica, per trasformarsi quasi in un luogo fiabesco, o meglio delle “meraviglie”, nel senso che diede Lewis Carroll a questo temine, un luogo dove tutto è stravolto, tutto può essere benissimo il contrario di tutto, ma agente in una propria logica che è quella forse incomprensibile dell’altro, dell’artista stesso, magicamente rovesciato e avvolgente, precario nel suo equilibrio instabile di attimi e azioni, capovolti, uno seguente a se stesso e formanti un’unica realtà.

La penna di Giulianelli non si limita però a ritrarre luoghi e ambienti trasfigurati dalla sua fantasia, la sua anima d’inchiostro si spinge a esplorare il mondo interiore dell’essere umano, i suoi sentimenti e i suoi istinti, con uno sguardo disincantato, ma, al tempo stesso, capace di esaltarsi attraverso la fantasia fino a sconfinare, consapevolmente, in un mondo di ibridi, dove l’immagine zoomorfa, non è vissuta come antagonista, separativa, ma come facente parte dell’universo animale e umano-animale, in una interconnessione di contenuti. È il caso delle opere a cui appartiene Piacere (1974), una delle mie predilette, nella quale la farfalla ha la stessa forma delle braccia della donna di cui non è una parte, ma è forma fusa, ibridata.

Altamente simbolica quest’opera e fortemente densa di senso e di comprensione di ciò che può significare il piacere. Le due forme coniugate formano un ovale che richiama molto la configurazione dell’organo sessuale femminile, la farfalla con le sue ali voluttuose, il suo volare che sembra sempre incerto, il suo succhiare nettare e la sua vita che si completa e soddisfa nell’arco di un giorno, come il piacere vero è sempre breve e immediato e intenso tanto da prefigurarsi come una “piccola morte”, sono solo alcuni dei significati che emergono da questo dipinto, esemplare, tra l’altro, per la sua esecuzione tecnica.

Pittura tradizionale e scultura caratterizzano certamente l’opera di Giulio Giulianelli, ma queste rappresentazioni a penna, a mio parere, costituiscono l’apice della sua arte. Non la matita, non il carboncino con tutte le possibilità di soluzione tecnica che offre, non cere o al limite pennarelli, e neppure l’olio, sono equiparabili alla penna a sfera nel caso dell’artista sammarinese, se non altro per la possibilità di correzione che offrono. La penna invece costringe a un rapporto intimo con la forma, in senso unilaterale, con le linee, con il chiaroscuro. È necessario studiarle a fondo e interpretarle senza la possibilità di ripensamenti, necessita di decisione e certezza delle proprie capacità tecniche e creative, e in questo Giulianelli si è dimostrato Maestro, forse ante litteram, di tanta cultura figurativa contemporanea.

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