VERSI PER LE “STRAGI DEL MEDITERRANEO” di A. GIRMAY.

Immagine da Wikumedia Commons

Si è portati a pensare che il dramma, la tragedia, dei naufragi e delle morti nel Mediterraneo siano un problema che tocca e addolori, con diversa intensità e partecipazione, solo italiani o, al limite, gli europei, e che il resto del mondo non ci faccia caso. Non è così. Negli spiriti più accorti e più inclini a leggere come il mondo sta cambiando, il dolore per quelle morti è sentito in maniera forte e incisiva. Vi è la partecipazione viva, il sentimento avvertito fin dentro la carne di come il tragico possa essere devastante. Ne sono un esempio alto queste poesie della grande poetessa americana (statunitense) Aracelis Girmay, scritte già nel 2013, con un trasporto e una partecipazione impensabili per qualsiasi “pezzo” giornalistico o retorico bla bla bla da talk show.

Si stima che negli ultimi anni oltre 20000 persone siano morte in mare nel tragitto tra Nord Africa ed Europa. Il 3 ottobre 2013 si stima che 300 persone siano morte in mare al largo di Lampedusa. Le persone a bordo dell’imbarcazione affondata erano quasi tutte eritree.

Questo ciclo di poesie si centra sulla storia eritrea, poiché si tratta di una storia di cui qualcosa so, facendo parte della diaspora. Ma, cero, la storia di persone in cerca di nuove opportunità e di asilo politico (di entrambi) è molto più ampia della sola storia eritrea.

        Amatissimi, sotto la superficie

della vostra ultima dimora minuscoli pesci inconsapevoli

 

creano ghirlande sulle alghe

& i loro lunghi tentacoli –

 

Certe mattine, nella mia città lontana,

corro a salutare “voi” venuti a me come mare, & porto

 

fuori me stessa nel vostro protratto tempo oscuro come una bambina che incontra

immagini più grandi. Vi tocco i denti & vi dono la parola unica del mio corpo.

 

Sono di nuovo donna, al capezzale di Aboy Haile. Aboy novantaseinne.

Mi accarezza la chioma d’acacia. Mi stringe un braccio.

 

Dice, muovendo la mano come per significare “ovunque”,

che questa è casa mia. Adi Sogdo, intende,

 

ma intende anche il mondo.

Anche se penso, in “America”,

 

che io sono Là &

lui è Qui, che siamo diversi, o distanti,

 

in realtà, siamo l’uno l’altro. Le mie ossa sono

le tue ossa, dice. I suoi denti sono i miei denti

 

& il mio sorriso è il suo sorriso.

Mi stringe forte il braccio, finché non diventa un sasso, un osso.

 

Mi alliscia i capelli

con forza. Sono una puledra.

 

La lunga pelle buia dell’acqua,

la conversazione, conversare con Aboy dell’acqua,

 

il carezzare all’indietro, carezzare all’indietro la mia chioma d’acacia,

lavarmi la faccia. Una volta finito

 

riattraverso il mare per riemergere all’aria

& ritorno al traffico delle strade a me note.

 

Sono segnata dai morti, dalle vostre lettere-di-mare

di sale & pianto.

 

Ora sono pronta a sdraiarmi

sulla terra, ad ascoltare i precetti

 

su come si parla d’amore & di patria, a cantare

di casa negli orribili anni, & a riempire

 

la mia lingua, come fanno le stelle,

della luce, comunque sia, di una declinazione futura.

 

LUAM AI MORTI

        – umbertide

Il notiziario annuncia

la tua ultima dimora:

 

un quadro di scogli & sabbia:

 

Oltrepassata la demarcazione

tra un reame & l’altro, entrati

ne Il Disperso in cui

le ore non si toccano più,

aspettiamo & aspettiamo.

 

Una figura appare per strada!

Ha la sua altezza, il suo colore.

Rarissimi entrambi in questo paese.

 

Ma tu sei il niente adesso

tranne ciò che la storia porta tra le sue zanne di cane.

 

La vita, il mio lusso, la mia stanza tutta sola

al piede verde della collina.

La mia veduta di bella vita & cervi.

 

La sera apro la doccia per riscaldarmi.

L’acqua, viene

improvvisa, cugina,

la mia mano

ti trapassa.

LUAM & LE MOSCHE

         – umbertide, asmara, new york, ottobre 2013

Era la fine del mondo.

Il mondo stava finendo. Io stavo

 

in casa con le mosche. Anche se

la notte era densa, era lunga, noi

 

cercavamo di aspettare la luce, di durare.

Ma il vento alle porte. &

 

il buio batteva con le nocche, mostrava i denti.

Fuori, le altre case,

 

fuori, il prato

solitario, l’eccelsa singolarità

 

del mama tree. Ciò che era

forte è stato raso al suolo, ciò che era solitario.

 

Penso che saremmo – plurale – sopravvissuti.

Ma ho visto la morte delle mosche.

 

Le ho guardate pulirsi le ali &

i musi, poi morire di notte,

 

contemplando chetamente di fuori &

guardandolo, affrontandolo. Al mattino

 

le ho viste alle finestre

come ricordassero il

 

verde ultimo mondo. Le zampe arricciate

nella sillaba del dibattersi,

 

o del sonno. Ho contato sei sgomenti

che sono morti nella notte, i cui suoni

 

si sono spenti per gradi. Cercando di imparare

le ho raccolte con grazia per

 

le ali & le ho esaminate, poi ho posto

le sei su un piano bianco:

 

sei cadaveri o coma, sei che

ho cercato di vedere ma che ho portato

 

alla finestra & ho versato fuori

per la terra & il rosmarino.

 

Se fossi ancorata a un luogo, se

avessi creduto che questa sarebbe

 

sempre stata casa mia, se io

fossi stata così fortunata. Un giorno

 

i loro discendenti sarebbero stati i miei,

si sarebbero curati della mia morte, anche, con

 

le loro zampette, le bocche gialle &

fame di ferite. Incapace di

 

spazzarle via dai miei denti & dagli occhi,

diverrei luminosa infine grazie

 

al loro sopravvento, una città di

uova, un raccolto, un “&”; oh,

 

insegna smeraldo di corpi.

Sarei una specie di scalo

 

o di porto – Infine, loro

di nuovo.

Aracelis Girmay, da Nuova poesia americana vol. II, a. c. di J. Freeman e D. Albeni.

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