LA CROCIFISSIONE DEI SALIMBENI (1416 C.)

 

Dell’Oratorio di San Giovanni di Urbino si ricorda sempre, del ciclo degli affreschi quattrocenteschi (1416 c.) dei fratelli Lorenzo (San Severino Marche, 1373 o 1374, 1416-1420) e Jacopo (San Severino Marche 1347 circa – dopo il 1416) Salimbeni, il Battesimo di Cristo che, di fatto, dà il “titolo” al ciclo stesso. Ma di notevole interesse e bellezza mi è sempre sembrata la Crocifissione in cui lo stile dei due si mescola con risultati davvero unici.

I due fratelli nell’opera urbinate, rispetto a quella di San Ginesio, adottano un linguaggio pittorico tecnicamente più maturo, che si esprime nelle soluzioni prospettiche, nelle trovate cromatiche e nel presentare ambientazioni, scene, costumi tipici dell’epoca tardo gotica. La Crocifissione, sulla parete di fondo dell’Oratorio, è una composizione in gran pare unitaria, ma capace di mettere in evidenza e caratterizzare una sequenza di avvenimenti della realtà umana che si affiancano alla sofferenza di Cristo in croce. Chi ride scomposto, chi è impegnato in un dialogo almeno apparentemente estraneo e disinteressato a quanto sta accadendo, sono posti accanto a chi si dispera e piange per la tragedia in atto e vi si mescolano, per presentare a chi si sta a ammirare il tutto, un dramma che, se trova la sua collazione nell’ambito divino, si nutre di una realtà terrena viva e vegeta, come a ricordare che quel tempo ormai passato e lontano è comunque presente e si rinnova nella quotidianità. Il gusto per la narrazione popolaresca e vivace, l’osservazione minuziosa dei particolari si spinge fino a quasi allontanarsi dal dramma che si sta compiendo. Ci sono l’espressionismo doloroso e tragico dei corpi contorti dei due ladroni appesi alla croce e ormai cadaveri, gli angeli piangenti, la Maddalena e San Giovanni dilaniati dal dolore, le Marie che sorreggono la Madonna priva di sensi, accanto a episodi che rivelano un atteggiamento quotidiano, quasi faceto e fannullone, come nei soldati che giocano a dadi, nei cani che si grattano, nei cavalieri cortesi sullo sfondo, nella figura della madre che sottrae il bambino afferrandolo per un braccio dalle zampe di un cavallo e nei ragazzini che litigano sotto la croce. Domina accanto a un’aria rarefatta e cortese tipica del gotico internazionale, o tardo fiorito, caratteristico delle corti di Milano, Verona, Parigi, Colonia, uno più espressionistico e drammatico con colori vivi e contrastanti tipico degli ambienti di Bologna e di Boemia, che si fondono nella loro opera e in generale nella pittura coeva delle Marche.

Probabilmente fu dei due fratelli Lorenzo quello che seppe attingere a una cospicua cultura artistica per la realizzazione di questi soggetti macabri, a partire dalle scene dipinte da Giovanni da Modena nel Duomo di Bologna, o negli affreschi del Camposanto di Pisa dei cadaveri dipinti da Buffalmacco, fino alle danze macabre che riempivano le cattedrali Europa, in particolare quelli francesi, e rese note dalla circolazione delle miniature. Naturalmente nei due fratelli non manca la memoria di Gentile da Fabriano, forse conosciuto proprio a San Severino Marche nel Duomo Vecchio dove sono presenti suoi affreschi, o forse incontrato a Perugia. Dopotutto le Marche erano una regione in cui le suggestioni internazionali erano facilitate dagli stetti rapporti che legavano le signorie locali, seppure piccole, con quelle del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia, e dove gli artisti marchigiani potevano spostarsi e acculturarsi delle nuove tendenze internazionale e fiorite viaggiando facilmente tra Bologna, Padova, Milano, Perugia e Firenze.

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