MICHELANGELO PISTOLETTO: “LA VENERE DEGLI STRACCI”.

La Venere degli stacci.

“(…) la ragione per la quale questa opera è diventata iconica non solo dell’Arte Povera, ma anche di una nostra contemporaneità, del nostro tempo, è dovuto al fatto che ci sono ‘gli stracci’ (ma non solo). Vi è il senso di un’epoca che sta consumando, consumando la realtà, consumando tutto quanto, in base ad una fenomenologia consumistica. Allo stesso tempo, però, vi è pure quella bellezza che tutti si attendono dall’opera d’arte, rappresentata dalla donna, incarnata sin dalla classicità nella Venere” (Intervista rilasciata a “MU produzioni audiovisive”, pubblicata su “Vimeo” il 12 novembre 2012). Questa dichiarazione di Michelangelo Pistoletto fa eco a un aneddoto che si racconta a proposito della genesi della Venere degli stracci, l’opera divenuta appunto un’icona dell’arte contemporanea e non solo, accanto, ad esempio, ai Girasoli di Van Gogh, alla Ruota di bicicletta di Duchamp, alla Marilyn di Warhol o ai Tagli di Fontana, tanto per citarne alcune, quando nel 1967 lo sguardo dell’artista, girando per lo studio, cadde su di una statua in cemento raffigurante Venere, che aveva acquistato in un negozio per giardinaggio, su cui aveva gettato degli stracci che usava per pulire i vetri. Materiali quindi poveri, gesso o cemento per la statua, il cui bianco contrasta con i colori, di cui nessuno predomina sugli altri, sgargianti degli stracci, creando un effetto di arginamento, dove l’armonia della sagoma classica dalle perfette proporzioni, si oppone alla montagna di stracci, in fondo a dei rifiuti. All’unità si oppone il molteplice. Alla purezza si oppone la corruzione. In un certo senso si può considerare un’opera generata dal caso (in verità sono molte e di diversi artisti, anche non contemporanei, le opere frutto della casualità), che diviene un elemento della realtà, dell’artista e non solo, soprattutto da un punto di vista estetico.

La Venere degli stracci è, solitamente, inserita nella “corrente” dell’Arte povera, la corrente artistica lanciata da Germano Celant, purtroppo recentemente scomparso, nel 1967 (e di cui fanno parte artisti come  Anselmo, Boetti, Ceroli, Fabro, Kounellis, Merz, Paolini, Pascali, Piacentino, Pistoletto, Prini, Zorio, Calzolari e, in secondo momento, Girardi), non solo per l’uso di materiali appunto poveri e solitamente non inclusi in quelli adottati per la creazione di opere d’arte, ma anche per il contrasto acuto tra la bellezza immobile e immutabile della tradizione classica del nudo femminile e la transitorietà e la corruttibilità del contemporaneo rappresentato dagli stracci usati, quindi inutili, quindi, una critica al consumismo, alle sue mode, e alla velocità con cui tutto viene sostituito. L’istallazione rientra però anche nel concetto di quadro specchiante, uno dei caposaldi della produzione artistica di Pistoletto. Opere che si compongono di due elementi, il primo statico (la memoria), e uno dinamico (lo specchio) che ripropone la realtà, anche dell’opera, nel suo continuo divenire e cambiare, poiché il quadro stesso muta a seconda di ciò e di chi gli sta davanti, oltre al fatto che l’ambiente e lo spettatore divengono parte integrante della rappresentazione.

Ne “La Venere degli stracci” lo specchio della degradazione a cui può o ha condotto il consumismo è rappresentato dagli stracci, in una società che spinge al continuo riacquisto di beni al solo fine del consumo e non dei bisogni reali, alimentando l’insoddisfazione e la degradazione dell’individuo. Di fronte a ciò la figura della dea, simbolo della stabilità e della memoria che sembrano controbattere al degrado di un cambiamento erroneo e troppo veloce. Lo spettatore viene quindi messo davanti alla realtà della propria assuefazioni come consumatore compulsivo, ponendosi delle domande e rendendosi conto che questo atteggiamento non è solo materiale, ma coinvolge la sua psiche, il modo di comportarsi, fino a scontrarsi e a non essere neppure più sensibile di fronte alla bellezza, al di là dei suoi connotati e canoni storico-artistici, ritenendoli in qualche modo, e aprioristicamente, anacronistici e obsoleti.

Volendo spingersi un poco oltre si potrebbe affermare che questa opposizione tra la Venere e gli stracci che sembrano però fondersi, oserei dirsi ibridarsi, crea uno stato di perturbazione che sposta i sentimenti di chi osserva verso una dimensione di sublime, non inteso in senso romantico, ma di un qualcosa che entra in noi e demolisce il baricentro delle nostre sicurezze, porta alla perdita di titolarità nei sentimenti solitamente provati di fronte a un’opera d’arte. Viene quasi indotto un senso di estasi intesa come proiezione oltre se stessi, provocata da una frattura con il passato, si può dire culturale, e il proprio personale e con i ricordi, innestando un meccanismo nostalgico. L’opera sembra entrare dentro di noi e ne diviene parte integrante, quasi come un organo trapiantato, si verifica cioè un cambiamento di prospettiva nella decifrazione del concetto di bellezza e di umano e, di conseguenza, di un differente conseguimento della propria coscienza eco-ontologica e della possibile condizione ibrida. Se si considera la Venere degli stacci anche da questo punto di vista ci si può rendere conto dell’attualità e della forza di quest’opera pur a distanza di 53 anni dalla sua ideazione creazione e al di là di ogni collocazione di corrente o movimento artistico.

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