URBINO vs PESARO, PERSARO vs URBINO.

Qualche giorno fa ascoltando per caso in fila alla cassa di un super-mercato, mi è capitato di sentire l’ennesimo “panegirico” attorno alla rivalità e ai giudizi reciproci tra Pesaro e Urbino. Avendo fin da bambino passato l’inverno a Urbino e tutta l’estate a Pesaro e, in età adulta, avuto la residenza in tutte due le città, questa annosa disputa mi è sempre stata un po’ estranea, avendo visto i pregi e i difetti di entrambe le città. Però è una disputa che esiste da anni e anni e mi sono venute in mente queste pagine di Paolo Volponi scritte in Corporale edito nel 1974, che illustrano bene, e anche in maniera divertente, mi sembra, la questione.

(…) Entrammo a Pesaro senza più rabbia, ma tardi tanto che trovammo aperto soltanto uno snack-bar sventrato per la strada da una luce sanguinosa. Dentro tutto era rosso, i sedili di finta pelle, la macchina del caffè, la maionese sui piatti freddi, i pesci in salamoia, i cerchi di cipolla. Io ordinai una porzione di prosciutto tutto rosso e Imelde un piatto rossastro di sottaceti: per festeggiarla ordinai una bottiglia di spumante di Cupramontana. Bevemmo e mangiammo in un angolo serviti da un cameriere che puzzava di varechina.

Quale è piú grande, – gli domandai, – Pesaro o Urbino?

Non c’è confronto, – disse, ridendo insanguinato, – Pesaro è una città. Urbino è un paese. Pesaro è capoluogo di provincia: ha trecento alberghi, molte industrie, nuovi quartieri ognuno dei quali da solo è grande come Urbino. Pesaro è viva, piena d’iniziative e di turismo. Urbino è un paese abbandonato.

Eppure, – dissi, – mi risulta che Urbino sia più grande oltre che più bella, più ricca di storia e di cultura.

Ma chi glielo ha detto a lei?

C’è su tutti i libri! – Ma quali libri, che libri? – urlò sul punto di non riuscire più a ridere il padrone da dietro il bancone rosso.

I libri di storia, di geografia e anche di storia dell’arte.

L’arte. Sono polverose menzogne, – disse questa frase ricordandosela e compitandola fortunosamente: nell’orecchio da chissà quale tumulto.

Per esempio uno di Urbino, dico anche un bettoliere, avrebbe saputo dire una frase sua.

Come? – da rosso a paonazzo il padrone, mentre il cameriere guadagnava il bancone vedendo che mi alzavo.

Tenevo Imelde per mano, che masticava i sottaceti aprendo e chiudendo la bocca più per la sorpresa di quel che sentiva che per il calore della salsa. Ma il suo modo trepidante di accostarsi sempre piú a me che mi alzavo, e per di più chinandosi verso il mio petto e stringendo le mani per supplicare protezione, fu decisivo. Con tutte le glorie accese sopra quel rosso gaglioffo, negazione del rosso proletario, consumazione antistalinista, dissi: – Vuol dire che qualsiasi barista, caffettiere o cameriere di Urbino è più bravo, più colto, più capace di lei: sa parlare con la sua testa e chissà quali frasi raffinate saprebbe usare per dichiarare in modo certo e inconfutabile che Urbino è in ogni suo aspetto, in ogni sua trama e fibra, migliore e più bella e anche più grande di questo borgo provinciale chiamato Pesaro. Lei usa malamente una frase raccolta e ne sbaglia anche l’accento. Lei ascolta solo il radiocronista sportivo che generalmente dice un sigaro sigaro e un pomodoro pomodoro.

Infatti, come avevo calcolato lo stupido snackbarista pesarese assunse al volo quel pomodoro, lo soppesò bene nella mano che già gli perdeva vigore essendo tutto il suo sangue rifluito intorno al suo collo e sopra, tra gli instabili vasi poco comunicanti della sua testa, e poi sfiatò fuori che sì, il pomodoro me l’avrebbe volentieri, giacché proprio lo volevo, tirato in faccia.

– Cahezzo! Questi contadini montanari vengono a rompere le caparosse (con esse zeta) a chi lavora e li sfama – e percorse verso di me metà bancone. Ma non mi bastava. Anche perché Imelde aspettava, ormai dietro il baluardo della mia spalla sinistra.

Ma lei sbaglia ancora, accecato dalla bassezza, dalla depressione culturale del luogo comune di questo comunissimo luogo votato al bersaglio adriatico e sabbioso di bombe atomiche. Perché, caro signore, io non sono di Urbino; io sono un viaggiatore, un imparziale osservatore, un obbiettivo controllore, direi un dottore, – cantavo quasi vedendo l’eccesso di faccia di quello snackatore, il furore schiumargli le narici, – e dico sul mio onore che Urbino è molto migliore e che lei è molto peggiore di qualsiasi urbinate, e non mi riferisco alle sue vivande preconfezionate, uguali a quelle di un mese fa, qui su tutta la costa dal lido degli Estensi a Francavilla al mare, leccate ieri a Rimini e domani a Pescara, per carità, passo sopra alle sue vivande, che già mi scaldano le mutande, ma proprio alle sue qualità intellettuali, al suo comprendonio e a quello dei suoi concittadini pesaresi e alla brutta faccia della sua città, di questa accozzaglia geometralesca e di grattacieli, piú propri grattascelle e stampelle, uguali anch’essi a quelli di qualsiasi altro bersaglio mistico-speculativo. Per esempio se alle città di Rimini, Riccione, Pesaro, Fano, Senigallia, Falconara, Civitanova, San Benedetto, Giulianova, Roseto, Pescara sino a Francavilla al mare lei scambiasse i cartelli indicatori nessuno se ne accorgerebbe: gli stessi abitanti cittadini potrebbero dirsi dal sellino della loro bicicletta di Fano invece che di Rimini o di Civitanova o di Giulianova un poco frastornati e dubbiosi, infine con un passato, turbati, – giacché lo vedevo raffreddarsi e impappinarsi in quella girandola che davvero lo frastornava e gli toglieva le poche facoltà di capire e d’incazzarsi, – dalla loro coglioneria e nella loro coglioneria e grossi coglioni in bicicletta e pantaloni, e non riconoscerebbero piú se sono di Rimini o se erano di Pesaro, loro, i coglioni. Mentre lei coglione come loro, pari loro, loro pari, che ne fa un paio lí con il suo giovane garzone dietro il bancone, lei dunque signor coglione provi pure con un cartello a cambiare quello di Urbino e vedrà come le sarà dato di ritrovarsi, smerdato nello scherno, infilzato dal ridicolo signor coglione… e come Urbino sarebbe sempre Urbino sopra il cartello e con i suoi baristi gentili e come qualsiasi cartello…

Te lo do io il cartello, – disse il povero snackbarista, arraffando un coltello, ma un coltello molto leggero e troppo lungo, che non reggeva nemmeno ad essere sventilato qua e là, un coltello da affettare pan-carré, e mostrando di saltare il banco e poi per non scendere in salamoia tra i carrelli infidi cercando la circumnavigazione e il passaggio a sud-ovest, lato camino pizze dello stesso bancone. – Te lo do io, brutta carogna sozza; chiama le guardie, – disse al cameriere, – chiama il manicomio, chiama i carabinieri, intanto ci penso io, – disse, guardando verso il raggiunto camino e mettendosi a scegliere una pala infornatrice, tralasciando quello stupido coltello da pan-cassetta, frenando cosí per scegliere il passo verso l’uscita, – te lo do io, il coso, – disse, – il coso, – il cartello, – gli dissi io e andai a pararmigli davanti, – eccolo, – e gli tirai sulla faccia il suo prosciutto rosso… Ma già ero intenerito dalla passione amara, sconsolata dell’uomo… che non era un lottatore duro come avrei voluto per provare infine…

Correvo il rischio di un’altra frustrazione sentimentale, di un altro ravvedimento fraterno, di una ulteriore commozione sulla mia cattiveria e sulla altrui bontà e già sentivo cedere la mia determinazione davanti a quell’uomo tremante, con in mano una pala immanovrabile, cadere i miei muscoli nel solito secchio del sogno, afflosciarsi, quando entrarono nel locale rosso due giovani rossi, con i colli corti e proprio l’aria da lottatori. Infine, quella era la mia scena. Imelde ansava dietro miagolando. Lo snackbarista buttò la pala e trovò il conforto per mettersi a urlare, forte senza senso, indicandomi con una sfilza orrenda di parole in dialetto ai due rossastri e ormai protetto si ributtò sul coltello, questa volta uno stilo pulito da disossare, e urlando piú che poteva si ridiede alla scalata del bancone, questa volta sopra le aringhe rosse. Mi feci avanti un altro passo: – Cosa urli, cretino, vieni fuori da quel tinozzolo rosso che t’affogo nell’aceto. Ti rompo la faccia di merluzzo e di’ a questi due stronzi di togliersi di mezzo, di alzare i tacchi e di volare fuori.

Ah oh, – urlò come Rasciomon lo snackatore e si ferí la mano con lo stilo, a fondo, saltando il banco, anche perché gli misi contro, abilmente, uno sgabello, sul quale finí per dondolare, ferirsi ancora, e cadere.

Esaltato dalla mia bravura dissi ai due giovanotti: – Portatelo fuori, via; soccorretelo, chiudete il bar e andate a letto –. Uno dei due mi volò addosso: mi riuscí un’altra volta di manovrare con un piede lo sgabelletto, che si rizzò come una molla contro il basso ventre del giovanotto in volo. Ululò e cadde dalle parti del barista. Il secondo, rosso piú di tutti, fu piú cauto, mi mostrò un pugno mentre strabuzzava gli occhi come preso da malore: si fermò per un attimo e mi stupí: intanto mi colpí con l’altro pugno fra lo zigomo e l’orecchio. Mi sembrò che mi avesse rotto un cesto, che tenevo dimenticato in qualche parte tra le spalle e la testa: proprio un cesto, adesso con i vimini ritorti che mi pungevano fra la gola e gli occhi.

Ah, bravo, – gli dissi. – Adesso ti farò vedere –. Il rosso, di un rosso piú vero, si tirò tutto indietro coprendosi con i gomiti. Ecco, stavo per trionfare, che mi mollò un calcio che per pura fortuna mi raschiò il vasel e s’infranse sul mio stomaco proprio contro le mie parole. M’inginocchiai per tirare il fiato. Il rosso sbagliò andando a mettere le mani nell’attaccapanni ingarbugliato e mostrandosi a me di sbieco, instabile, con gli stinchi vicini. Lí balzai e l’afferrai facendolo precipitare con tutto l’attaccapanni, bel mobile di ferro di stile pesarese. Restò fuori dai cerchi, controcerchi nichelati e pomelli di bachelite, la sua testa: le mani ancora ingarbugliate. Io ero libero e lo colpii, riuscii davvero a colpirlo, netto, con un pugno, scoccato dalla leva nitida del mio braccio, molla della spalla, durezza del polso, una, due volte sul mento e altre due volte, sempre netta la spalla felice, l’omero augusto, sul naso: questo naso si spiaccicò e buttò sangue rosso, spaventatissimo, a chiazze inorridite. – E uno, – dissi, ma intanto l’altro del volo ripeteva la prodezza questa volta cadendomi sulle reni con una botta da disarticolarmi. Sentii male ai denti e ai ginocchi allo stesso modo, come se i loro nervi fossero giunti a contatto d’un ferro vibrante. Però manovravo le mani e mi sentivo piú in fiato. Presi questo primo rosso per il collo e m’accorsi che per fortuna gli avevo cacciato le dita negli occhi; si stava alzando tremolante, arricciato, con un gridarello animale che sembrava uscirgli da una ferita piú che dalla bocca. Non ebbi paura e questo mi fortificò ancora di piú: non me ne fregava niente se si era fatto male. Anzi acciaccai la sua testa contro il bancone tre nitide, metalliche volte: vedevo rimbalzare le aringhe dal loro sugo come nel fresco mare del nord. Alzai il mio decantato Ray Sugar delle palpazioni collegiali, dei cazzottoni sugli spalloni dei cappottoni e lo vibrai su quel verso arricciato con la stessa serena determinazione con cui si chiude uno sportello difettoso. Olà olà come vanno i miei cazzotti infine, vanno senza ostacoli, senza fascia razionale che li blocchi e li rigiri giú verso di me, a placarsi addosso a me. Olà. Olà. Ripetei il sinistro sempre su quel verso. Poi destro e sinistro sulla faccia fra l’attaccapanni e poi sinistro su quello che miagolava. Si era voltato verso le aringhe a tu per tu, cosí che lo colpii alla nuca con un fracasso vittorioso: un velo di sangue e di muco scese sul vetro a celare il muso delle aringhe.

Ma in quell’istante lo snackatore e il suo garzone mi aggredirono, che ero ancora carponi, con colpi di pala e di arnesi da pulizia sulla schiena e sul cranio: altro dolore metallico ai denti e ai ginocchi e paura che mi sciogliessero le palle, le quali scintillavano per conto loro esposte alla corrente di quei colpi sul cranio, senza piú guarnizioni. Non vedevo piú bene e soprattutto il garzone continuava con la precisione e la foga di un chierico. Sentii il mio cuoio capelluto spiaccicarsi alla ripetizione dei colpi che l’avevano rotto e il sangue colarmi lungo le gote. Quello stronzetto menava sempre lo stesso colpo e non mi finiva scendendo piú giú sulla nuca verso il collo: io dovevo tenere la pala del barista che continuava a urlare e a tremare mandando gli sgonfi calzoni di qua e di là come se stesse scaricandosi addosso la diarrea di un mese. Addirittura scintillava il randello di quel chierico porcello ossessivo sul mio osso: allora girai la faccia e presi il debito colpo di quella serie sulla bocca: entrambi i labbri rotti al primo colpo, con un gusto cosí amoroso e vivo che riuscii a sbattere giú di nuovo lo snackatore e poi a manovrare la lingua su tutta la tumefazione a leccare e ad alzare le mani contro il chierico: gli strappai il paletto e lo manovrai come un samurai, un colpo sugli stinchi e uno sul viso, di traverso. Rincorsi il chierichetto dietro il bancone, male perché lo vedevo con un occhio solo; ma fui lo stesso capace di prenderlo per la gola e di rovesciarlo sotto la macchina-espresso: aprii la manopola del vapore per ustionarlo, ma la macchina non era piú sotto pressione e solo un rivolo bollente gli lambì un orecchio: però gli affibbiai piú volte sul muso biondiccio il mestolo del caffè e gli spappolai un calcione sulle coglia che se non fosse stato mezzo coperto dall’ermafroditismo di diciassettenne biondo in quella marina di cavolifiori l’avrei castrato. I due rossi in coppia, rossi di sangue, mi aspettavano in fondo al bancone.

Allora corse contro di loro Imelde con i suoi occhi che lasciarono una striscia nera. Mi fermai al centro, dove su un tavolo c’erano una diecina di coltelli. – Vedete, – dissi, – signori, non mi armo di coltello. Tenetene conto. Lasciate la ragazza e vengo fuori –. Imelde lasciata si buttò sul padrone. Io mi slanciai contro i due e ancora meravigliosamente riuscii netto a colpirli con i miei pugni. A questo punto anche loro erano piú felici e perduti e cosí cominciarono a colpirmi bene. Caddi trascinandone uno. Mi colpirono ancora, sui gomiti, sulla schiena, sulla faccia, ma non svenivo come temevo e come avevo sempre temuto, sopportavo, racimolando sempre dal mio sangue un organo a posto e un poco d’energia. Ritrovai la pala tra le mani e la spezzai sul bancone per renderla piú manovrabile e anche piú pericolosa. – Basta signori, – urlai, – o vi sconcio il culo come una calzetta. Avete già fatto abbastanza. Avete innalzato il bersaglio per la bomba atomica con questo rosso falsificato. E io ve l’ho detto. Adesso basta –. Imelde uscí di corsa da una porta che fino allora non avevo visto, alle mie spalle, ed io la seguii. Correvo dietro lei e rimuginavo che alla fine ero stato vigliacco a non dire che Pesaro meritava il diluvio di sangue, come la bocca loro, anzi di sciogliersi nella diarrea. Mi voltai per gridarlo in modo da avere perfetto il senso dell’orgoglio che mi stava gonfiando, ma Imelde mi tirò per un braccio e mi supplicò: – Non credere che ti lascino. Fuggi –. Appena finite le parole li sentimmo che ci inseguivano. Fu Imelde a trovare un rifugio intelligente dentro il tunnel di legno del parco giuoco bimbi dell’Hotel Cannone, addirittura un mezzo piano sopra la strada, verso la spiaggia. Li sentimmo passare e ripassare, minacciare, battere e perdersi dietro una macchina targata Novara. – Ho vinto, – dicevo continuamente a Imelde, – ho vinto. Hai visto che ho vinto – (…)

P. Volponi. Corporale (Einaudi tascabili. Scrittori) (Italian Edition) . Einaudi. Edizione del Kindle.

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