ALDO SCHIAVONE: “STORIA E DESTINO”.

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A volte capita che dei libri sfuggano, anche se colgono nel vivo i propri interessi e le proprie ricerche, per un motivo del tutto casuale, non ci si accorge della loro potenza, o lo sguardo passa sopra al titolo senza coglierne l’importanza. Poi, magari dopo anni, li si prendono in mano e non solo si rimane impressionati per la loro profondità, ma pure per la loro attualità, per l’incapacità del tempo di sedimentarsi su quelle pagine. È quanto mi è accaduto con Storia e destino, (Einaudi, Torino, 2007) di Aldo Schiavone, il noto storico e Docente presso la Scuola Normale Superiore di Pisa fino al 2015, anno del meritato pensionamento.

Al centro del saggio, breve, poco più di un centinaio di pagine, c’è la speranza o l’incitamento all’uomo a tornare a essere possessore del proprio tempo, nel senso di non trincerarsi dietro il presente evitando di lanciare uno sguardo netto verso il futuro, per quanto incognito e pericoloso possa sembrare, ma, al tempo stesso, senza rinunciare al proprio passato. La Bibbia e il Timeo, tradizione ebraico-cristiana e Platone, segnano l’inizio dell’analisi dello storico, cioè i testi che parlano dell’origine dell’uomo e dell’universo. Con le dovute differenze, ormai note, che emergono dal confronto dei due testi, alcuni punti sono decisamente in contatto: l’uomo come essere storico, la posizione nettamente antropocentrica a cui la creazione dell’universo è legata in maniera intima alla presenza dell’uomo. Come sappiamo la scienza moderna mise in crisi e in dubbio questa concezione, la Terra non più centro del cosmo. Ma la visione scientifica è stata in qualche modo fraintesa, nota lo studioso, portando a una specie di banalizzazione del passato, dove pure la mancanza di un vero progetto e la speranza negata, ci rendono un qui e ora difficilmente decifrabile, indifferenza e paura nei confronti del potere che la scienza ha dato all’uomo. In altre parole là dove la scienza ci dice che in fondo tutto è storia, processo, trasformazione, noi ci siamo collocati nella posizione di chi non vede o non vuole la responsabilità delle conseguenze, nel bene e nel male, e ciò, inevitabilmente, porta a una perdita di orizzonti, di indifferenza verso gli appuntamenti a cui è chiamata la nostra specie.

L’uomo in fondo gode di una sorta di eccezionalità causata dal ciclo evolutivo. L’evoluzione tuttavia non è stato un processo veloce, ma va considerato in quello che l’autore chiama “tempo profondo”, al quale però la specie umana ha impresso una sorta di accelerazione. Questa accelerazione è stata caratterizzata da una serie di eventi per lo più fortuiti, che hanno permesso il successo della specie, Schiavone usa l’efficace espressione “ci è andata davvero bene”. Ma questo successo è stato caratterizzato da un andamento particolare, e cioè mentre il pensiero (quello che generalmente si definisce con ambiguità, in quanto suscettibile di mille significati “lo spirito”) è riuscito tutto sommato a cavarsela bene, mentre ciò che riguarda la biologia e la morfologia rimangono legati all’evoluzione propriamente detta, lasciando così una dicotomia alla base di gran parte del nostro vivere: quella tra biologia e artificialità, per dirla con termini usuali, tra natura e cultura. Dove pure la cultura, lo spirito, hanno avuto un evolversi differente, lento all’inizio, con fasi di stasi, e poi un’accelerazione, a partire dalla rivoluzione (o rivoluzioni) industriale, rapida, per divenire travolgente e imprevedibile con l’ultima di queste rivoluzioni, quella informatica e oggi bio-tecnologica. E proprio il momento che stiamo vivendo, o che abbiamo iniziato a vivere, sulla scia della terza rivoluzione, ci introduce in una serie di cambiamenti epocali come mai si sono visti, si entra nell’era della “bioconvergenza”, per usare il termine di Schiavone. Non più una vera e propria divisione tra vita e intelligenza, ma un contatto tra loro, se non una convivenza, un’epoca in cui non solo la mente, ma anche il corpo, la biologia e morfologia del nostro corpo, saranno oggetto di trasformazione, ciò che si riteneva immutabile non lo è più, il nostro bios si presenta anche come il nostro “destino”, “espressione di una tendenza non più arrestabile”.

Questa posizione che può apparire insignificante è invece di fondamentale importanza, poiché mette in discussione il concetto di “natura dell’uomo”. Se tutto è soggetto a mutazione, come attesta la scienza a partire da Einstein, allora la nostra specie è anch’essa modificabile e, per lo più, auto-produttiva, cosa che costituisce il principio della sua evoluzione. Si entra in questo modo anche nel campo della biopolitica, per citare un noto filosofo, e soprattutto in ciò che da sempre è stata la condizione e il pensiero più sacro a ogni cultura, cioè la nascita, l’accesso alla vita, e la morte, il suo abbandono, e che dietro si trascina il superamento di tutte quelle dicotomie che sono state le fondamenta dei pensieri umanistici. L’autore parla di fine dell’infanzia della nostra specie per accedere all’età adulta. Tale processo porterebbe a una serie di cambiamenti che fino a ora non erano neppure ipotizzabili, ma tutt’al più solo immaginabili. La morte non sarà più un assillo per l’uomo, almeno per come la conosciamo ora, l’affermarsi dell’autodeterminazione come elemento essenziale, la nascita non più obbligatoriamente in utero e non soggetta alla selezione naturale, la differenza sessuale e l’identità di genere superati come valori oppositivi e altro ancora. Utopie? Forse, ma utopie che già trovano sperimentazioni e applicazioni, basta scorrere le pagine delle più accreditate riviste scientifiche internazionali per averne conferma. Ma per il Professore di Pisa la forza della tecnica e della scienza sono inarrestabili, e d’altronde è la storia stessa che lo testimonia, quello dell’uomo è un destino verso la propria autogenesi e antropopoiesi, e fondamentale sarà la fondazione di una nuova antropologia capace di traghettare l’uomo verso i nuovi orizzonti.

Questa transizione, si potrebbe dire di “specie”, verso un miglioramento dovrà essere sostenuta da un’etica che conservi una certa integrità della specie umana, limitando, abolendo la violenza e la combattività, che abbia a cuore l’integrità della Terra e sempre attenta al valore dell’uguaglianza nel rispetto di ogni alterità. Il processo è inarrestabile e lo storico considera pure la situazione politica attuale, definita “neoimperiale” e contraddistinta da una specie di “guerra globale” che si manifesta come “scontro di civiltà”, una fase di transizione in cui si rivelano scontri, una sorta di “guerre civili”, tendenti a una unificazione totale. Chiaro è che ci si trova comunque di fronte a una crisi della politica e dell’etica e per Schiavone la via d’uscita è quella di un adeguamento a una morale “dell’uomo tecnologico”. La tecnica, con il potere acquisito di decidere sulla vita dell’uomo, ha sostituito la politica nell’azione deliberativa, poiché “È lei che determina la qualità dei nostri bisogni e dei nostri desideri. La politica le arranca dietro, in affanno: non riesce a guidare una rivoluzione cui non sente di partecipare”. È quindi auspicabile una nuova “tecnocrazia”, una democrazia cioè, capace di allinearsi all’immagine del mondo così come si prospetta pianificato dalla tecnologia, un ordine globalizzato, ma dove sono ancora possibili e tutelate le differenze. E qui emerge la necessità di un nuovo orizzonte etico che sappia scorgere la manifestazione del divino nell’incremento delle facoltà dell’uomo, per il miglioramento della specie nel rispetto dell’ambiente, e che di tutto ciò senta l’urgenza della responsabilità a cui è chiamato.

Sul finale Schiavone torna al ragionamento iniziale, al Genesi e al Timeo, interrogandosi soprattutto sull’asserzione che, da un punto di vista creazionista, è un cardine fisso, la massima dell’uomo creato a “immagine e somiglianza di Dio”, soprattutto nel libro biblico. Per lo storico la prospettiva muta dall’interpretazione canonica, l’uomo e la sua somiglianza a Dio non sarebbero qualcosa di dato, stabile e immutabile, ma un progetto: “La rassomiglianza riguarderebbe perciò il compimento del nostro futuro. Somigliare a Dio non sarebbe insomma per l’uomo la condizione di partenza, ma la stazione d’arrivo, da un certo momento in poi da noi stessi voluta e guadagnata”. Si supera l’ultra-uomo nietzschiano, quella a cui arriverà l’uomo sarà una maturità capace di trascinare ciò che apparteneva all’infinito, la capacità creatrice, nel finito, nel nostro mondo e tempo.

Si può essere d’accordo o no con Schiavone e certo, molti dubbi e perplessità le genera il suo pensiero, ma mi sembra molto indicativo e importante, che simili idee, o meglio, osservazioni, sulla nostra epoca e di ciò che ci si prepara, siano prese in esame in maniera scrupolosa e creativa proprio da uno storico non solo della portata internazionale dell’autore del saggio, ma che neppure appartiene alle ultime generazioni di studiosi, di coloro che, in molti casi, nel discorso del postumano ci sono cresciuti e hanno sviluppato all’interno di questo dibattito il proprio processo critico, analitico, filosofico, storico e scientifico.

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