“CHE FAI TU, LUNA, IN CIEL? DIMMI, CHE FAI, SILENZIOSA LUNA?”

Foto elaborata da commons wikimedia.

Ci siamo di nuovo, si prepara un nuovo allunaggio. Per cosa? Una stazione per nuove esplorazioni celesti? La costruzione di una base in cui trasferire parte della popolazione a causa del futuro sovrappopolamento? Voglia di potenza? L’inappagabile e fondamentale desiderio di conoscenza dell’uomo? Chissà. Mi piace a questo proposito riproporre il “Dialogo tra la Luna e il calcolatore” (computer), tratto da Le mosche del capitale di Paolo Volponi. Un testo pubblicato nel 1989, ma che, mi sembra, conservi una grande attualità. Ognuno ne tragga le proprie conclusioni.

(…)

Dai finestroni entra trasversalmente un raggio di luna, del diametro di circa due metri; tocca le schermature del calcolatore, si insinua tra le fessure dei lineamenti minori.

– Tu sei un calcolatore? – domanda la luna.

– Sì, un calcolatore elettronico.

– Non ti conoscevo, ma ho sentito parlare di te.

– Tu sei la luna?

– Sì.

– Anch’io ho sentito parlare di te, alcuni dei miei sono stati programmati per la tua conoscenza. Anch’io ho qualche dato su di te. Potrei dirti con precisione dove sarai tra trecento anni a quest’ora.

– Lo so anch’io.

– Ma non conosci la curva dei tuoi luoghi praticabili, approdi possibili, ora per ora, e nemmeno l’esatta dislocazione dei medesimi. Dove accoglierai domani, a quest’ora, un’astronave?

– Non lo so. Ma io non devo accogliere nessuno, e il mio corso ha una fissità più grande di me e di qualsiasi calcolo tu possa fare.

– Cosa credi di sapere e di fare?

– Poco. Devo girare e guardare correre il mondo. La corrente dei miei sguardi lo influenza senza nemmeno ch’io lo voglia.

Anch’io guardo correre il mondo, i suoi capitali, e influenzo l’uno e gli altri con dati e proiezioni. Tu sai che una navicella è atterrata su di te? Con tre uomini a bordo? Ed è già ripartita?

– Una navicella giunta in volo dalla terra e che poi vi è ritornata?

– Sì, con navigatori a bordo, tornati in buona salute. Hanno parlato bene di te. Veramente più di se stessi che di te. Ti hanno visto soprattutto come un traguardo, una misura già presto superabile.

– Ma perché sono venuti?

– Appunto, non certo per toccare il tuo viso, ma per prepararsi ad andare ancora più lontano.

-Ah, dunque, nel loro solito modo. Dovevo immaginarlo.

– Ma tu, più di loro, ti comporti nel solito modo.

– Ma io sono un cardine dell’ordine generale. Un principio e uno specchio. Non sono soltanto un abitatore come loro, e nemmeno destinata a morire così rapidamente come loro.

– È per questo che viaggiano, per studiare. Ogni viaggio è uno studio. Ogni scoperta è uno strumento.

– E tu servi a loro per studiare?

– Sì.

– Che cosa hanno da studiare? Li vedo sempre così ugualmente inquieti, così infelicemente indaffarati.

– Studiano proprio per poter cambiare, loro stessi e la terra, e forse perfino il tuo giro, il tuo specchio.

E tu li aiuti?

– Sì.

– In che modo?

– Compio delle operazioni numeriche, e ne tengo memoria per altri successivi e ancora più complessi calcoli.

Fammene un esempio.

– Io numero tutti gli uomini che lavorano in questa città, li ordino per classi e categorie, secondo l’età il mestiere le capacità il rendimento.

– Che classi? Che categorie?

– Quelle del mio programma.

– Ma allora sei tu che stabilisci e misuri…

– Certo…gli uomini si affidano a me.

– Tutti gli uomini?

– Sì, tutti. Ma non certo tutti vengono con le loro dita a manovrare i miei tasti…solo i migliori.

– E chi dice che quelli che vengono a toccarti siano proprio i migliori?

– Lo so dai loro dati e piani di programmazione, e ne trovo conferma anche nel sottoprogramma delle retribuzioni.

– Ma, dimmi, per conoscere gli uomini debbo passare attraverso di te, oppure, per conoscere te è meglio passare attraverso la conoscenza degli uomini?

Ma tu cosa sai di loro?

– Nulla. Li vedo. Vedo come occupano la terra, come la dividono e la lavorano. Vedo come spasimano e crescono le loro città, anche la tua, come dormono e sfriggono.

– Sì, così dicono anche i ficus qui davanti. Specie quando parlano fra loro, e soprattutto adesso, per l’ondata di pessimismo che li ha travolti, dal momento in cui vennero tolti dall’ufficio del dottor Astolfo. Invece io posso dire molto di più, e con precisione posso calcolare quanti siano gli uomini che dormono e quanti quelli che vegliano, occupati nei lavori notturni…Posso anche analizzare e specificare cos’è la sfriggitura di cui vai parlando, fumosa, che tutto ti commuove. Forse è dovuta allo sfrido della crescita del capitale…Devi sapere che ogni cosa appartiene al capitale…aumento con un tasso di valore che io sono in grado di calcolare esattamente insieme con la velocità stessa dell’aumento e della sua accumulazione.

– E cos’è il capitale?

– La ricchezza la moneta il potere, ecco, più di ogni altra cosa è il potere.

– E a chi appartiene?

– Agli eletti, ai migliori, alla scienza.

– E tu fai parte di questa schiera?

– Certo.

– Ma allora quelli che ti manovrano ti sovrastano anche…

– No, affatto, solo una piccola parte… Sono io lo strumento delle decisioni del capitale.

– E quali sono gli uomini più vicini al capitale?

– Te l’ho già detto, quelli che comandano, il dottor Astolfo per esempio, che occupa la stanza qui accanto alla mia.

– Ci parli?

– No. Ma calcolo i suoi pensieri, dispongo nella pratica le sue operazioni, e anche le controllo…Sono una parte di lui.

– E cosa puoi dirmi di lui?

– Oh, non posso fare discorsi personali, né tanto meno rivelare i piani che mi sono affidati.

– Di me puoi fidarti…Ho ricevuto milioni di confidenze senza mai tradirle…Di te mi piace la faccia, nuova e squadrata, e anche quei tuoi allineamenti, scintillanti e sconosciuti, e poi mi sembri anche tu pallido, nell’ordine dello specchio…Ma, dimmi, che altro parla intorno a te?

– Tutti. È un parlamento assillante (…)

da, P. Volponi, Le mosche del capitale, Torino, Einaudi, 1989, pp. 78-81.

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