ANCORA SULL’EDUCAZIONE.

 1660
V. Gigoli, Immacolata Concezione, 1612 / Murillo, 1660.

 

Galileo Galilei nel suo Sidereus Nuncius del 1610, descrive i monti e i crateri lunari e li disegna a acquarello. Ciò che sorprende è la somiglianza che si nota tra quelle rappresentazioni dello scienziato pisano e le fotografie del satellite terrestre di cui oggi siamo in possesso, realizzate con telescopi potenti e, soprattutto, satelliti artificiali lanciati nello spazio. In pratica riuscì a interpretare le ombre dei crateri e dei monti lunari a differenza di altri “astronomi” del tempo che avevano, pure loro, usato il cannocchiale.

Ciò che rese possibile tale rappresentazioni fu, con molta probabilità, la conoscenza della teorie delle ombre e del chiaroscuro così come le si insegnava agli artisti del tempo, ipotesi che potrebbe trovare una conferma nella sua amicizia con il pittore Valerio Cigoli, il quale, tra l’altro, avendo avuto in dono proprio dallo scienziato un cannocchiale, rappresenterà in maniera verisimile la luna in uno dei suoi lavori migliori, la Immacolata concezione in Santa Maria Maggiore a Roma, e al quale Galileo scriveva due anni dopo il Sidereus Nuncius: “Conosciamo dunque la profondità, non come oggetto della vista, per sé et assolutamente, ma per accidente rispetto al chiaro et allo scuro”.

Galilei aveva fatto un notevole passo in avanti, forse inconsapevolmente, trasportando sui fogli in maniera creativa, ciò che l’occhio vedeva attraverso le lenti del cannocchiale e, di fatto, centrando in questa maniera una rappresentazione quanto mai verisimile. In altre parole aveva confermato quanto già Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, aveva avanzato come ipotesi, e cioè che non è con l’occhio che si vede, ma con il cervello, e che quindi la percezione visiva, e più in generale sensoriale, non è una semplice trascrizione passiva di segnali che giungono da uno dei sensi, ma che vengono recepiti dal cervello che li trasforma. Per noi nulla di nuovo alla luce delle più o meno recenti scoperte scientifiche della neuroscienza, specie quelle sulla corteccia cerebrale.

Le scoperte e il progresso scientifico hanno cambiato, soprattutto negli ultimi cinquant’anni, il modo di vedere il mondo e l’uomo. Forse si è giunti al punto di pensare di aver superato i dualismi che da sempre riempiono la nostra cultura, come corpo-pensiero, natura-cultura ecc… Sappiamo che la nostra mente e la nostra “coscienza” non sono indipendenti da tutto ciò che è esterno, ma che la cultura e l’ambiente, non solo le influenzano, ma le cambiano. Siamo parte dell’ambiente in cui viviamo, o meglio cerchiamo di trasformarlo ad hoc per noi rendendolo vivibile; non siamo dei dominatori che possono permettersi di collocarsi a un livello più alto di esso e pretendere di dominare completamente la natura come la tradizione occidentale ha sempre e non solo negli ultimi cento-centocinquanta anni, tentato di fare. Siamo praticamente non adatti naturalmente all’ambiente in cui viviamo e per questo cerchiamo di trasformarlo attraverso la tecnica.  Ciò potrebbe mutare il nostro modo di apprendere e conoscere.

La mente, chiamiamola, razionale e quella relazionale percepiscono e interpretano i segnali provenienti dalla realtà in modo differente a seconda della situazione e dell’ambiente in cui si avverano e per questo la cultura e gli elementi circostanziali si possono ritenere parte della percezione o, comunque, direttamente influenti su di essa, agendo attraverso la relazione che stabilisce tra i vari elementi e il nostro modo di coglierli e elaborarli, tanto che ciò che si stabilisce tra la mente il mondo circostante lo si può ritenere un abbinamento da cui scaturisce l’apprendimento.

Si potrebbe così pensare a ragione che conoscere, imparare, non sia semplicemente un’operazione di trasmissione di nozioni e di sapere, di qualsiasi tipo, ma piuttosto una partecipazione attiva, relazionale, cognitiva, emotiva e affettiva capaci di mutare in maniera forte il nostro essere, ma anche l’altro e il mondo in cui viviamo.

L’essere umano è carente rispetto alla natura, non è dotato cioè di quel istinto che invece caratterizza gli altri animali e i mammiferi superiori . Non ha strumenti di difesa innati, né pelliccia per proteggersi dal freddo, i suoi sensi sono molto inferiori, in quanto a sensibilità, a quelle degli altri esseri. E, soprattutto, non ha un suo habitat predefinito, un ambiente in cui può sentirsi sicuro, in quanto i suoi istinti non sono adattati allo stesso. Per questo è costretto a farsi una cultura, cioè a creare quasi una seconda natura nella quale può vivere, cercando di piegare la natura stessa alle proprie esigenze. La cultura e la capacità di pensare, non sono quindi un di più che l’uomo ha, ma una compensazione a una carenza di cui soffre (Arnold Gehlen).

In quest’ottica l’educazione acquista una grandissima importanza, poiché si manifesta come il modo che l’uomo ha per poter vivere, per trasformare la natura creandosi un ambiente a lui confacente, senza la necessità di affidarsi a istinti innati che non possiede. La capacità di ragionare, progettare, ipotizzare e prevedere (già presenti nel mito greco di Prometeo) sono le doti di cui si è dovuto obbligatoriamente fornire per garantire la propria esistenza e senza le quali non sarebbe sopravvissuto, proprio come un cane senza denti, o una gazzella senza la capacità di fuggire più velocemente dei propri predatori o ancora come un orso polare senza pelliccia.

Si potrebbe quindi affermare che la cultura è ciò che il nostro cervello interpreta mutando il messaggio che gli viene fornito da uno dei sensi, principalmente dalla vista, ma non indipendentemente dall’ambiente, dalla situazione e dallo stato dei propri circuiti neurali in cui il soggetto si trova. Ne viene che la cultura, la condizione e l’ambiente fanno capo alla percezione, e la loro reciproca influenza li rende possibili. Apprendere, insegnare e educare, conoscere e quindi creare, non vuol dire trasmettere e ricevere semplici informazioni, nozioni o competenze, quanto piuttosto vivere delle relazioni conoscitive di apprendimento, instaurare e vivere rapporti emotivi e affettivi in grado di modificare (accrescere) il nostro io, gli altri e il mondo circostante. L’apprendimento dipende in gran parte dal corpo, dalla relazione che esso ha con l’ambiente, i suoi movimenti e con tutto ciò che lo compone.

L’uomo è un animale di movimento, il cui baricentro muta in continuazione alla ricerca di un nuovo baricentro (si pensi alla danza) e, di conseguenza, la capacità di allontanarsi da e avvicinarsi a, con il possibile effetto di intervalli del senso, e relative cadute creative. E proprio dall’emergenza che si viene a istaurare, nel tentativo di risolverla e non avendo a disposizione l’istintualità animale che provvederebbe da sola alla stabilizzazione, che l’uomo, attraverso l’azione sull’ambiente e il contesto, accede all’esperienza dell’apprendimento, esperienza sociale che necessita di un ideatore o creatore, di artificialità, di circostanze e occasioni culturali e naturali, di un osservatore e dell’altro disposto a ascoltare.

Insomma il circuito attraverso il quale l’uomo può apprendere e avere la possibilità di creare il nuovo.

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