PAURA D’AVERTI 4 E ULTIMA PARTE.

 

OK! Ti ho annoiato. Agiti frenetica il tuo gioco. Il telecomando della TV e lo fai cadere un sacco di volte facendo saltare via le pile. Poi sul seggiolone prendi la scatola magica, uno di quei giochi ingombranti che fanno mille luci, inutili, perché preferisci il telecomando, o un mestolo di legno preso dal cassetto della cucina. Lo sollevi. Te lo porti sopra le testa e lo lasci cadere. Sulla tua testa. Piangi. Ci credo! Fa male. E il babbo ti prende in braccio, ti coccola, fa passare un dolore che, a dire il vero, è effimero. Servono anche a questo i genitori. Ma quel dolore, piccola, non è così fuggevole, nel senso che a qualcosa è utile, anche se non appare. Come altre cose, molte altre cose. Ad esempio l’arte.

Stai tranquilla, il babbo non si augura che tu possa vivere con l’arte. Ma spero che tu la capisca e ti ci appassioni. Vedi, per esempio, il tuo zio è un fisico, nulla a che fare con l’arte, per quanto riguarda il suo mestiere, e non dico lavoro, ma mestiere, nel senso rinascimentale del termine, ma la adora, l’arte, in qualsiasi sua manifestazione, figurativa, letteraria, musicale che sia.

Probabilmente per molti anni, almeno fin quando non sarai adulta, le arti ti staranno antipatiche. Forse non tutte, ma molte sì. Nulla di sorprendente, è normale. A scuola ti insegneranno la letteratura, le arti figurative come qualcosa di estremamente importante, e lo sono, ma ti costringeranno ad analizzarle, scomporle, a trovarci mille significati che spesso non hanno. Insomma ti insegneranno a non amare l’arte per quello che è. Cioè bellezza, intrattenimento, pausa, otium, riflessione.

Diceva Miller: “L’arte non insegna nulla, a parte il significato della vita”, e pochi conoscono il senso della seconda parte della frase. Insomma l’arte è sempre stata e sempre sarà patrimonio di minoranze. Ed io spero che tu sarai tra queste. Stai attenta però, queste minoranze non sono soggette al censo o alla cultura che hanno. Conosco fior di dottori, avvocati, imprenditori, professori che di arte non capiscono nulla. Proprio insensibili, incapaci di apprezzare la bellezza e il senso della vita. Hanno case favolose piene di belle cose e di quadri anche molto costosi. Investimenti e nient’altro, oppure ostentazione. Non li critico, ognuno fa le proprie scelte. Ma non li sopporto quando poi hanno la pretesa di fare gli esperti, di cimentarsi in disquisizioni sul valore e la validità di un artista o di un’opera.

Ti sembrerà un discorso stupido, ma non lo è. L’arte può aprirti un mondo infinito, un mondo che poi può riversartisi contro. Però grazie all’arte possiamo dischiudere nuovi orizzonti, non vedere o considerare solo il nostro, ma scorgere il nostro moltiplicato, tanto che tutti gli universi che percepiamo equivalgono al numero degli artisti che conosciamo, se mi è permesso di parafrase Proust.

Cerca, comunque, di amare l’arte, piccola, in tutte le sue manifestazioni, amala e basta, senza cercare altri significati reconditi. E, soprattutto, diffida dalla critica, specie quella accademica, l’arte, credimi, è arte e basta. Leggi una poesia e se ti piace, se ti commuove, se ti fa pensare, è una grande poesia, al di là di quello che dicono fior di cervelloni. Non c’è differenza tra un quadro, una poesia, un romanzo e un film o una canzone rock, pop, punk o rap. È sempre arte. E se non ci credi vatti a leggere quello che scrivevano sui grafitisti e poi vai a vedere quanto sono quotate le opere di Basquiat. Ipocrisie, Basquiat valeva anche prima di entrare nella Factory, anche quando spargeva vernice spray sui muri della Grande Mela.

 

Mi guardi piccola.

I tuoi occhi tra il verde e il marrone a seconda della luce, a volte sembrano non avere il bianco, quel bianco appare eternamente velato dell’azzurro tipico dei neonati. Ma non sei più un neonato. E allora, forse, è il tuo babbo che ancora lo vede. I tuoi occhi che spesso, quasi sempre, ridono, e altrettanto frequentemente sono interrogativi, perplessi, curiosi. A volte piangono, si socchiudono e bagnano tanto da divenire brillanti come gioielli preziosi.

Quando piangi, a parte i capricci che hai imparato ad usare come arma, come quando ti si toglie un gioco pericoloso dalle mani, si legge nei tuoi occhi la paura. Paura perché il cibo non arriva, paura di rimanere sola se la mamma va un attimo in bagno, paura per un viso sconosciuto, per un rumore forte inatteso. Tempo fa avevi timore di una piccola giostra di legno che girava con i suoi cavallini emettendo una musica gioiosa. Ora ti diverti a vedere quel carosello. Ma la paura rimarrà sempre nel tuo animo, continuerai ad averne per tutta la vita. Non so se è positivo, ma credo che sia indispensabile.

Sai, amore mio, non voglio annoiarti con disquisizioni facili e retoriche. Non starò a dirti cose del tipo “chi ha paura di morire muore una volta sola, il vigliacco muore cento volte”. Sono cazzate, proverbi popolari. Vedi la paura è qualcosa da cui non potrai prescindere. Ti assalirà mille volte. E non parlo di quella istintiva, conservazione e salvezza della tua vita o di quella, magari, dei tuoi figli. Ma la paura psicologica, quella che ti blocca davanti ad un esame o una scelta da prendere.

La paura spesso ti salva la vita o te la rende meno angosciosa. Non credere negli eroi, non almeno in quelli che agiscono senza prima avere ponderato la situazione. Sii razionale più che puoi. Ricorda, colui che si lancia da solo contro cento avversari, che dico, contro dieci avversari, non è un eroe, è un coglione. Non guardare i film di Rambo o, se lo fai, ragionataci sopra.

L’eroe vero è colui che sa cosa fa, che si sacrifica, che mette in gioco anche la propria vita, ma dopo avere valutato tutto, conseguenze positive e, soprattutto, negative. Un cantante mitico per il tuo babbo, tanto tempo fa, cantava: “We can be heroes just for one day”. Per esempio il tuo babbo lo è stato per un giorno eroe, quando ha deciso di averti, anzi siamo stati in due, tua madre ed io.

Certo c’è anche l’eroe istintivo. Quello che agisce per emozione, sull’orlo di un’emergenza. Ma sono casi rari e non sempre con esito concreto. Insomma ritieni comunque la paura un valore positivo, sono i tuoi sensi interiori che ti avvertono, che ti mettono in allarme. Hanno un significato, non vanno sottovalutati. Con questo non voglio dire che devi essere una persona in balia della paura, anche essa va dominata, controllata e sconfitta il più delle volte, se il tuo babbo si fosse fatto prendere dalla paura, te l’ho già detto, tu non saresti mai nata, ma non sottovalutarla, tienila sempre in dovuta considerazione.

E poi al giorno d’oggi di eroi e martiri, o che tali si credono, ce ne sono fin troppi.

Chissà perché oggi ti ho portato in studio con la conseguenza che non posso fumare mentre lavoro. Forse perché mi ha colto di sorpresa quella fossetta che ti viene sulla guancia quando sorridi e che mai avevo notata prima, o forse per il fatto che quando sei entrata in casa tra le mie braccia, subito dopo averti preso dall’asilo, non ne hai voluto sapere di startene nel box, come le altre volte, a giocare con i pupazzi e ti sei messa a fare quei pianti sottili, che non sono di dolore o per la fame, ma un richiamo costante e snervante, la richiesta di un’attenzione che ti è dovuta dopo tanta assenza di chi desideri di più, mamma o babbo che sia.

Così te ne stai ora nel seggiolone, vicino alla scrivania del babbo con quel maledetto gioco che ti abbiamo regalato a Natale. Un “libro” di plastica con degli oggetti che mossi cominciano ad emettere delle canzoncine. Oggi ti sei fissata con la farfallina sintetica e colorata, la muovi in continuazione in un semicerchio paranoico, e le mie orecchie sono straziate da quel: “Vola in cielo la farfalla / e la rana salta e va / guarda un po’ come mi tuffo/ non ti sembro molto buffo?”. E non permetti neppure che la filastrocca si concluda. La interrompi a tuo piacimento così che il babbo è costretto ad ascoltare in continuazione cose come: “Vola in cielo la farfalla …. Vola in cielo la farfalla … guarda un po’ come mi tuffo …. guarda un po’ come mi tuffo… molto buffo?… molto buffo? ….buffo?”.

Non credo che riuscirò a combinare nulla, ma almeno non ti lamenti e giochi, anche se ogni tanto ti sporgi dal seggiolone per controllare se il babbo è sempre al suo posto a vegliarti, a soccorrerti se necessario.

Chissà quante volte ti sei domandata perché passo tanto tempo alla scrivania. Molti potranno risponderti: “Ambizione”.

E hanno ragione, ma non nel senso che intendono loro. Vedi l’ambizione è spesso considerata un difetto ed in effetti può esserlo. Ma non bisogna confonderla con l’arrivismo. Quest’ultimo è connotato dall’impazienza di arrivare al potere o al successo e capita, non di rado, che renda schiava la persona che lo persegue, prima di gettarla nella polvere.

L’ambizione può essere invece positiva. Essa può essere il principio della realizzazione di grandi progetti, opere d’arte, scoperte scientifiche, grandi riforme politiche o di pensiero. In questo caso chi si dichiara ambizioso, o di avere un’ambizione, è consapevole di ciò che rischia, ma è disposto a lavorare sodo per realizzarla e a proprio rischio e pericolo. In pratica, per farti meglio capire, è la differenza tra chi, ad esempio, dichiara di “voler fare il pittore” e che cioè ricerca la gloria, il denaro, il consenso altrui, e chi dice di “voler dipingere”, studiando e lavorando, sudando per ottenere e raggiungere il livello che si è preposto.

Credo di appartenere a questa seconda categoria, altrimenti non sarei qui nello studio con te, a sorbirmi la tua canzonetta paranoica, mentre cerco di concentrarmi su quattro righe di un testo che leggo da mezzora e che dovrò per forza rileggere per poterne capire il seguito. E spero che anche tu sarai così, qualsiasi sarà la tua ambizione.

A proposito, non credere molto a chi ti dirà che non vale la pena lottare, che gli ultimi saranno i primi, che bisogna rimanere al proprio posto, che l’ambizione è un peccato o cose di questo genere. Primo perché sono spesso loro i più ambiziosi, se non altro perché sono convinti che solo la loro idea sia quella giusta e vogliono, non ragionare e convivere con gli altri, ma convertirli. Secondo perché se non ci fossero stati uomini e donne positivamente ambiziosi, saremmo ancora a trascinare tronchi d’alberi senza far caso alla pietra che ci rotola accanto, o al tizzone che se ci soffi sopra non si spegne e accende altra paglia e via dicendo.

Poi, fammi un piacere, non cadere mai nell’invidia. Ci sarà sempre chi avrà, varrà più di te. È inevitabile. Meritatamente o no non importa tanto. Stai attenta perché l’invidia è un sentimento, ammesso che lo sia, ignobile e bastardo. Può condurre all’odio, in questo caso proprio un sentimento che, mi auguro, tu saprai evitare.

L’odio è solamente debolezza. È una proiezione primitiva delle proprie paure su qualcun’altro. Dirai “Ma ci sono persone che si fanno odiare, se non altro per la loro condotta e per le loro azioni disoneste”. Hai ragione, ma in quel caso sono persone che non sono degne di tanto spreco di fatica, perché odiare è faticoso, piuttosto meritano lo sdegno e la non curanza. Cerca di ricordarti cosa diceva Dante, per bocca di Virgilio, a proposito dei vili, una categoria che può facilmente farsi odiare. E poi, quando si odia con troppa intensità si rischia di scendere più in basso della persona odiata, tanto per scimmiottare Rochefoucauld.

Se poi vuoi un’altra chiave di lettura ce la fornisce Hesse, scusa le citazioni, ma non mi piace attribuirmi idee di altri, e poi te l’ho detto sono pigro, e se qualcosa è già stato fatto non vedo perché dovrei sforzarmi a far credere che sono io l’inventore. Insomma di solito si odia ciò che è diverso da noi e che ci fa paura. O peggio ciò che noi vorremmo essere, ma per qualche motivo non riusciamo a soddisfare. Cerca quindi ti tenerti lontano dall’odio e se stai per caderci, ancora una volta, ragiona, pensa, poniti dei perché, anche se non saprai rispondere avrai comunque innestato un meccanismo positivo.

Girando per casa ho posato gli occhi su tutti gli elefanti ed elefantini che la riempiono. Ti ho già detto che quasi per uno strano caso molti ti hanno regalato pupazzetti, coperte, cuscini che rappresentano questo animale. E, se devo essere sincero, credo che sia appropriato a te. Fin dall’antichità è stato importante nella nostra cultura. I Romani li bardavano per celebrare i loro trionfi militari e questa tradizione è poi stata ereditata dal Rinascimento, sono molte le rappresentazioni in cui compaiono elefanti riccamente adornati che trascinano carri allegorici, soprattutto quelli che simboleggiavano la Fama.

Anche la tradizione cristiana ha preso questo animale come un figura positiva. Rappresentava la purezza, si credeva infatti che non provasse desiderio sessuale e che la femmina raccogliesse un fiore di mandragola che offriva al maschio per convincerlo all’accoppiamento. Ma è anche simbolo di forza e di temperanza, per il fatto che si pensava che assumesse sempre la stessa quantità di cibo, senza mai eccedere.

Chissà se queste caratteristiche, almeno alcune, corrispondono o hanno un collegamento con il tuo carattere?

Già, ma quale è il tuo carattere?

È un po’ difficile a dirsi ancora, anche se qualche segnale lo lanci. Per esempio non hai paura della solitudine. Puoi passare ore da sola nel box o nel seggiolone a giocare senza lamentarti, presa completamente dai giochi, che spesso sono oggetti di uso comune, come lenti d’ingrandimento preziosissime per il tuo babbo per decifrare codici antichi e che tu scagli a terra con un divertimento totale al quale il babbo sorride, pur con un nervoso assoluto, passini per la farina, mestoli, imbuti, preferibilmente di colore rosso.

Sei una grande osservatrice, ti interessa il particolare delle cose e se ti trovi in un ambiente nuovo trascorri il tuo tempo a guardarti attorno, a studiare, vuoi capire cosa ti circonda, dove sei, qual’è il luogo che ti attornia. Esplori con l’indice e il pollice ogni maglia di una catena, tutti i piccoli dettagli di un centimetro di giocattolo. La mamma dice che hai le dita da ingegnere.

Non ami gli estranei, piangi appena una faccia sconosciuta ti si presenta, e anche un viso conosciuto che non vedi da una settimana è per te di nuovo estraneo, non gradisci la confusione, il caos. In tutto ciò assomigli al tuo babbo, la mamma ama la mondanità, osserva, ma a volte rimane un poco in superficie e ciò le dà un fascino accattivante.

Ma sei anche testarda e sai importi. Quando vuoi una cosa la ottieni, guai a prenderti un gioco dalle mani mentre lo stai manipolando, succhiando o semplicemente contemplando, studiando. Sai perfettamente quello che vuoi e quando sei stanca di stare nel box o decidi che è l’ora di provare a camminare o soltanto di stare un po’ in piedi non c’è verso di farti cambiare idea. Alla faccia della schiena dolente della mamma o del babbo che ti devono reggere da sotto le ascelle.

Non ti lamenti troppo quando stai male. E in tutto ciò assomigli alla mamma, che ha la capacità di andare sempre avanti, che non si arrende mai e cerca sempre il meglio per sé e per coloro che ama. A volte è anche un po’ troppo testarda, ma anche in questo ti è simile. Il babbo è svogliato, volubile, accetta o crea facilmente compromessi se questi non danneggiano nessuno, preferisce uno studio pieno di fumo, ma solitario, a un galà o a una piazza piena di gente che conta il tempo da trascorrere a suon di aperitivi e discorsi sulla politica o sull’ultimo talk show del momento.

Sono solo impressioni, è chiaro, certamente cambierai col tempo.

Ecco, adesso gattoni sul tappeto. Te ne vai in giro col culo ritto, copri distanze irrisorie che a te sembreranno chilometri di autostrada. Cadi all’avanti e sbatti il mento sulle mattonelle. Il babbo fa uno scatto in avanti per prenderti e tu inizi un leggero pianto, mentre la mamma, che ha riconosciuto il lamento del dolore, diverso da quello della fame o dei capricci, corre dall’altra stanza, ha le mani bagnate, stava lavando i tuoi vestiti. Ti prende subito in braccio e s’incazza col babbo che invece di leggere quel cavolo di rivista avrebbe dovuto stare attento a te.

Ma già il tuo pianto si è trasformato. È diventato quello dei capricci. Chissà cosa vuoi? Facile, vuoi tornare a gattonate sul tappeto, e non c’è nulla da fare, ti si deve posare a terra. È incredibile come passi dal pianto al riso, come le urla disperate per la botticina al mento si trasformino rapidamente e senza un passaggio di tono in gridolini felici, come gli occhi stretti e brillanti di lacrime, acquistino improvvisamente una luce felice e quasi di sfida. Sei un’incredibile fonte di meraviglia e di stupore, un campo sterminato di scoperte e di sorprese. E forse è proprio questa la ricetta della felicità. Cose semplici, banali, a volte anche schifose, se pensate da non genitori… come….: il rito della cacca.

Perché cambiarti il pannolino è un vero e proprio rito religioso. Non si sa perché la cacca sia così importante, ma lo è. Forse perché nell’immaginario popolare la cacca è sintomo di salute o di malessere e, probabilmente, è effettivamente così.

Comunque ci sono tre tipi di cacca.

La prima è quella normale. Vale a dire una cacca contenuta, di colore marroncino e non invadente. Una cacca che a volte è eccessivamente dura e la sua consistenza la si capisce in anticipo dalle tue espressioni. Diventi di un rosso influenza mentre la fai, se è molto dura, spingi e ti sforzi come un facchino che trasporta un sacco di cemento. Ma tutto sommato è soddisfacente, va bene così. Basta una lavata al culetto, spalmarti di pomata allo zinco, rimetterti il pannolino e il gioco è fatto.

Poi c’è la caccona di dimensioni bibliche. Strane manifestazioni queste. Te ne stai tranquilla sul seggiolone o nel box o, addirittura, nel lettino, in piedi aggrappata a qualsiasi appoggio, o a strasciconi per terra. Il tuo viso si rilassa improvvisamente, taci, mentre poco prima cantavi quelle tue nenie incomprensibili. Si vede che spingi e sulla faccia ti si disegna un sorriso compiaciuto, la soddisfazione completa. Il fatto è che spesso la stessa espressione beata l’hai quando fai delle cacche normali.

Il problema nasce quando poi ti si solleva. Tu te ne stavi tranquilla anche in quel mare di merda. Chissà perché? Ma i tuoi vestiti sono completamente marroni e l’odore te lo lascio immaginare. Quasi come aprire una fossa settica intasata, più penetrante di una stalla di mucche con letamaio annesso. Sporca dalle ginocchia alle ascelle, come se un abile pittore ti avesse dipinto con una passata calcata di acquarello nocciola sfumato. E non sempre così sfumato. Tipo i panorami della tua città ritratti dal principe di Galles. E ridi, sei contenta ugualmente. Forse dovremmo sperimentarlo come nuovo deodorante.

Il lavoro a questo punto si moltiplica. Spogliarti completamente. Lavarti tutta, mentre tu stridi per l’acqua fredda o per la posizione innaturale in cui ti trovi sopra il lavandino. Spalmarti di pomata con molta cura e poi rivestirti completamente di panni nuovi. Uno stress non indifferente.

L’ultima è la più drammatica. La cacca lenta, altrimenti detta diarrea. Una sorta di acqua dal colore beige chiaro che inonda il pannolino. Senza preavviso, senza pianti da dolore di pancia. Manda in paranoia la tua mamma e il tuo babbo.

Cosa avrà? Quale problema? E subito ci si lancia in diagnosi ardite. Intossicazione? Salmonella? Colera? Morbo di Parkinson? Fortuna vuole che hai il nonno con il camice al quale in questi casi, e non solo, vengono sottoposti pannolini immerdati subito dopo pranzo o cena e con responsi che sottintendono “siete paranoici, la bimba sta bene”. Ma cosa si può fare, sei l’amore della mamma e del babbo e l’apprensione è sempre in agguato. Pensa che una volta i tuoi genitori hanno chiamato d’urgenza al telefono il nonno per comunicargli che la tua cacca emanava un forte odore di aceto e lui ci ha risposto “bé, non conditeci l’insalata”.

 

Oggi vorrei cambiare discorso. Forse perché te ne stai ferma a fissarmi, mentre smanetto con questa maledetta ADSL della “compagnia di bandiera”, che funziona un giorno sì e un giorno no. Con quello che costa.

Stai lì e mi guardi senza dire nulla, senza fare nulla. Non gridi, non scagli giochi al di là del seggiolone per attirare la mia attenzione. Forse stai solo ragionando, stai chiedendoti chi sono, cosa penso e cosa sto facendo. Bé, sono il tuo babbo, quello che ha contribuito a crearti, assieme alla tua mamma, e che dovrebbe crescerti.

Sai il tuo futuro già mi assilla. Tutte le cose che ti ho scritto avranno mai per te un senso? Le giudicherai “parruccone” e retoriche? Probabilmente sì. Anche se poi, alla fine, dovrai ritenerle adeguate. Non giuste, ma semplicemente opportune ai tempi che vivrai. Il mondo si evolve, certo, e le idee progrediscono e io non sono certo in grado di predire il futuro. Ma vedi non c’è veramente nulla di nuovo al mondo. Credo di avertelo già accennato, il nuovo non è dato dalle idee innovative, ma dal modo in cui sono enunciate. Se studi il passato vedrai che qualcuno, magari uno giudicato pazzo o eretico ai suoi tempi, le ha già formulate. È il potere delle parole. Non è tanto quello che si dice che conta, ma come lo si dice. Il linguaggio è il principe dell’innovazione, non ci sarebbe stato nulla senza la possibilità di comunicare.

Per questo forse spero che tu diventi una scienziata, che opererai nel campo scientifico. Anche lì non si inventa nulla, sia ben chiaro, è possibile però scoprire. Cioè portare all’evidenza verità che in realtà erano già date. Ma la bellezza della scienza sta nel fatto che è evidente, che non ha bisogno di filtri linguistici, o almeno non è obbligata ad averne. Una legge fisica, una formula matematica, un nuovo farmaco o cura, se funzionano sono sufficienti a se stessi, è questa la loro grandezza. Un’idea, un nuovo modo di comunicare deve per forza trovare una formula adatta al proprio tempo, non è sufficiente a se stesso.

Del resto se è vero che il Rinascimento è stato il culmine della cultura mondiale (a parte il fatto che nutro dubbi su questo, confrontandolo con il secolo passato), non è un caso se quegli uomini innovatori, che rischiavano il rogo per le loro idee, affermavano che proprio il fatto che l’universo fosse ordinato da regole fisiche e matematiche, fosse la prova che l’uomo assomigliava a dio e che alla sua divinità poteva, pur in minima parte, aspirare.

Ti sembra un discorso assurdo? Blasfemo? Non lo è. Come al solito non mi prendo il merito di certe idee, ti riferisco solo quello che pensavano gli uomini, non tutti è chiaro, di quel tempo. E, tra l’altro, in un discorso che mi affascina, ma che non mi convince totalmente.

Comunque bimba, seguimi, perché il ragionamento nell’ottica e nel modo di pensare di quel tempo non fa una piega. Si credeva allora, ma anche oggi da alcuni, che l’uomo fosse stato creato da un dio. A sua immagine e somiglianza.

Quindi, dissero quei geni nel Rinascimento, se è a sua immagine e somiglianza qualcosa di quel dio anche il genere umano deve pur avere ereditato! Cosa? Non l’aspetto esteriore, se dio è spirito, entità non corporea. Lasciamo perdere l’incarnazione di Gesù, per il momento non ci interessa. Cosa può somigliare dell’uomo a dio dunque?

L’universo, la natura sono stati creati da quel dio e regolati da leggi stabili, fisiche, che rispondono a regole logiche. E l’uomo, attraverso la stessa logica, può comprenderle, spiegarle. Ecco il punto di contatto tra dio e l’uomo. Dio, o chi per lui, ha fornito il genere umano della propria logica, sia pur in quantità infinitesimale, per rispettare le idee dei religiosi, e attraverso quella stessa logica, cioè applicandola e cercando di capire il mondo, ci si può avvicinare a lui e alla sua divinità.

Vedi sono idee di cinquecento anni fa, ma hanno un’attualità. Non so come sarà il mondo quando tu potrai leggere e capire queste righe farneticanti, ma indaga nel passato, nel passato della mia epoca, dopotutto, ancora molto vicina a quello che sarà il tuo presente, e vedrai quanto ci sia ancora chi osteggia queste idee, dopo tanto tempo e con opere di pittura e scultura nei propri musei e nelle proprie Stanze, nella proprie Cappelle più o meno Sistine, negando quasi ogni valore, quasi ogni libertà alla scienza.

Scusa la digressione, piccola, ma pure tu dovrai crescere, e voglio che lo faccia nel migliore modo possibile.

Siamo appena tornati dall’asilo. Le maestre hanno detto che, come al solito, sei stata buonissima, hai mangiato tutte le pappe e fatto la tua caccona mattutina. In auto, legata al tuo seggiolino, non hai fiatato, devo ancora capire se ascolti la radio, le stupidaggini che ti dice il babbo che, tra l’altro, non ti vede perché sei rivolta verso il lunotto nei sedili posteriori, o guardi il panorama. Poi quando siamo entrati in casa e il babbo ti ha spogliato, tolto giubbetto, cappello e sciarpa, siamo a marzo, ma fa ancora freddo, ti sei sistemata nel box e hai preso a giocare con i tuoi pupazzi.

Il babbo ne ha approfittato per andare in studio a combinare qualcosa, anche se avrebbe una gran voglia di gettarsi sul divano e schiacciare un pisolino. Alla terza pagina della rivista hai cominciato a lagnarti, alla quarta a chiamare con quel lamento costante che fai sempre quando hai bisogno di attenzione, intervallato da respiri profondi, quasi da mancanza d’ossigeno, finta asma, insomma. Alla quinta pagina piangevi.

Ti vengo a prendere. Hai gli occhi lucidi e sbadigli, certo è ora del sonnellino. Nonostante tutte le raccomandazioni del nonno con il camice qualche vizio lo hai preso, e così quando sei in casa ti vuoi addormentare in braccio, cullata e con l’angolo della tua coperta rosa in bocca. Capitano giornate sfigate come questa che, malgrado l’avanti e indietro del babbo con i tuoi otto-nove chili in braccio, proprio non vuoi saperne di dormire. E così tre quarti d’ora a dondolarti e quando finalmente ti addormenti non sento più le braccia e la schiena è completamente a pezzi. Va bé, fa parte del gioco.

Adesso ti guardo dormire. Inutile dire che sei bellissima, sembri un angelo caduto tra le braccia di Morfeo, una creatura di Raffaello o di Rossetti in preda ad un sonno magnifico e a sogni fantastici.

Stringi ancora la coperta come una piccola Linus. Chissà come sarà il tuo futuro. Non ci sono progetti ancora è chiaro, anche se la tua mamma sa per certo che sceglierai il Liceo Classico. Non ti invidio e spero che tu non prenda lo studio in maniera troppo paranoica, seria sì, ma paranoica no. Sai quanti ragazzi ho visto uscire con il massimo dei voti dal Liceo, stanchi e stravolti, e finire per fare nulla, a volte neanche terminare l’università. E quanti invece che si erano tenuti sulla mediocrità e hanno fatto carriere importanti e, soprattutto, contenti di se stessi e del loro percorso e con un buon ricordo della scuola. Sono quelli che poi anche sette anni dopo tornavano in istituto a salutarti.

“Meglio un asino vivo che un dottore morto”, diceva sempre la tua bisnonna.

Perché vedi non tutto ciò che è razionale è poi giusto. Forse è venuto il momento di capire cosa sia questa razionalità. Fin dal secolo scorso, ma in realtà da molto prima, si è venuta formando l’idea che solo se si agisce razionalmente si è nel giusto. In altre parole i temi fondamentali del mondo moderno sarebbero dovuti essere la stabilità e la razionalità. Cioè la superiorità di quelle che chiamano le teorie formali, razionali, sul piano intellettuale. Non dico ridurre tutto a formula, ma quasi.

Forse mi spingo un po’ oltre le mie possibilità, ma credo che per il futuro, visto anche come vanno le cose, la regola sarà la ragionevolezza e l’adattamento, piuttosto che la stretta e sterile razionalità. Per spiegartelo userò un esempio che ricorre nella pratica del tuo nonno con il fonendoscopio. Per un medico non è sufficiente che i suoi calcoli siano giusti, assenti da errori matematici o logici, quando esercita nella diagnostica. Non basta inserire i sintomi in un computer e vedere quale è la risposta e quali i rimedi. È fondamentale che siano quelli i giusti calcoli, quelli che più si adattano al momento o al problema. Insomma la ragionevolezza riacquista un ruolo centrale assieme all’adattamento.

Lasciamo perdere che vado a finire per intripparmi.

La tua mamma è rientrata dal lavoro. Un po’ tardi devo dire. Ma d’altronde lavora dalla mattina fino alle sei inoltrate di sera ed è più che giusto che a volte si prenda del tempo. È stanca, come al solito, glielo si legge in faccia, ha le occhiaie scavate più del normale, magari qualche subalterno ha combinato un pasticcio e lei ha dovuto rimediare, eppure appena entra ti getta subito le braccia addosso, ha voglia di giocare con te. Ma non questa sera. Non può, ha le mani e le braccia impegnate. È piena di pacchi e sacchetti che, a giudicare dai colori vivaci e dai disegni a pupazzi, devono essere tutti per te.

Sai tua madre ha sempre avuto un’inclinazione particolare per lo shopping. E anche di un certo livello. Cosa che comporta due diversi aspetti. Uno negativo e uno positivo. Quello negativo è che il tuo babbo, ogni volta che la mamma gli propone di andare in centro, o a Pesaro o, terrore, a Riccione o Rimini o Bologna, va in paranoia. Se c’è una cosa che odio è andare per vetrine, passare pomeriggi a fermarsi davanti ai negozi per vedere le novità e per criticare ciò che non mi aggrada. La mamma invece per percorrere cento metri di viale Rossini o di viale Ceccarini ci impiega almeno un’ora e mezza. Soste continue davanti ogni vetrina, anche a quelle che non le interessano, per esempio un negozio specializzato in articoli per fumatori e lei ha smesso sei o sette anni fa, commenti, giudizi, opinioni.

Peggio quando capita poi di entrare in un negozio. Il massimo della condanna è se la rivendita è di vestiario. Di solito il tuo babbo entra in quei locali con un’idea precisa, prova, valuta e compra. La mamma, anche se sa già cosa acquistare, prova tutto quello che c’è da provare, scegliendo, certo, ma sembra sempre che abbia idee molto vaghe. Insomma un mezzo patibolo e la cosa può peggiorare quando deve fare un regalo. In quei casi si deve prendere in considerazione la situazione psicologica del beneficiario, non toccare certi tasti, evitare che il regalo possa mettere in evidenza difetti o situazioni imbarazzanti. E poi ce l’avrà già? Qualcun altro avrà avuto la stessa idea? E che abbiamo la sfera di cristallo?

Il lato positivo sta nel fatto che, dopotutto, è una donna di gran classe e anche con questi atteggiamenti lo dimostra. Sa di occupare un certo ruolo e che quella posizione esige, non solo un certo comportamento, ma anche una particolare presenza. Non ti stupire, piccola, le cose vanno così nel mondo.  Non c’è molta differenza tra il mio mondo e il suo. Come ti ho già detto nel mio è spesso più importante come una cosa la dici che i contenuti che ha, nel suo è importante l’apparire, come ti presenti e poi, se devo essere sincero, lo è anche nel mio, solo cambiano i parametri. E così, come io posso passare pomeriggi per scegliere una parola, per modificare una frase, lei li passa per scegliere un vestito, per essere certa che un regalo sia quello giusto.

Dopotutto spero vivamente che tu assomiglierai a lei, perché in una donna, per quel che mi riguarda, ciò che conta sono principalmente alcune cose: l’intelligenza, la classe, il talento, la sensualità. Poi certo c’è anche la bellezza, ma non è una dote essenziale, quella prima o poi passa per tutti. E tua madre ha tutti questi pregi, e anche altri diversi di cui forse un giorno parleremo, ma credo che non sarà necessario, quelli li apprenderai tutti da sola e sulla tua pelle, compreso l’ultimo dichiarato non essenziale, ma importante sì, e capirai perché.

E così da quei sacchetti e pacchettini escono vestitini ultima moda, pantaloni dai colori vari, camicette particolari e scarpine.

AH, le scarpine!

Con fantasie controllate, ma stravaganti al tempo stesso. Non c’è giorno che tua madre non mi chiede se ho notato come sei vestita. Sì, perché è sempre lei che ti veste la mattina. Si alza ad un’ora per me impensabile, lo sai che amo dormire a rischio di essere coglione tutto il giorno, ti prende nella culla, ti cambia, ti nutre, ti coccola, ti veste e porta all’asilo, per poi correre al lavoro, sacrificando ore di sonno che le sarebbero necessarie. E il tuo babbo non si accorge di nulla. Dorme come un ghiro. Aggiungi alcune qualità a tua madre: la comprensione, la pazienza e l’amore.

Forse un giorno penserai che io non avessi diritto di dirti tutto ciò e, tanto meno, di solamente pensare od augurarmi come tu possa essere in futuro. Forse è così, hai ragione. Ma è inevitabile. I tuoi genitori non potranno mai fare a meno di pensare a te, di progettare per te, di consigliarti, spesso rompendoti le scatole, anche se poi la tua vita prenderà tutt’altra direzione.

Un tempo si diceva e si credeva che l’uomo è sui faber, cioè costruttore del proprio destino, ma non è proprio così. Ci sono tanti fattori indipendenti che agiscono sulla vita di ognuno che è praticamente impossibile credere che basti la volontà per raggiungere una qualsiasi meta.

Prendi le cose come stanno ora e in base a quelle pensiamo ad un futuro. Sei una bambina fortunata, non ti manca nulla e, se le cose non cambiano, pure in futuro potrai comunque essere autosufficiente anche da un punto di vista finanziario. Anche la tua strada è in qualche modo segnata, le scuole, un buon liceo e l’università, per ora si dice la facoltà che vorrai, ma dovrai subire anche tu delle pressioni, da parte nostra, dei tuoi parenti, degli insegnanti, degli amici e dalla società che ti proporrà nuovi modelli per noi ora impensabili.

Però in questo momento a Bagdat o a Telaviv sta esplodendo una autobomba, o un ragazzino con un gilè al plastico si fa dilaniare in mezzo alla folla, o un missile tecnologico infallibile americano centra, naturalmente per sbaglio come sempre si dice, la casa di poveri contadini, o un altro parte dalla Striscia di Gaza per piombare su una scuola israeliana, sempre per caso, e forse, purtroppo, bimbi come te saltano in aria dilaniati in mille pezzi e mai più riconoscibili, neppure da morti.

Schizzi di pezzi di cadavere.

            Come fai a dire a quella gente che devono essere costruttori del proprio destino e del proprio futuro?

Tutto sommato sei una bambina molto, molto fortunata.

Non guardarmi con quegli occhi sonnolenti e vivi al tempo stesso, non tenderti verso di me per essere presa in braccio, non emettere quei gridolini di richiamo. Sai che cederò, giochi sottile tu, ma questa volta voglio arrivare fino in fondo, vedere cosa sei capace di escogitare per ottenere ciò che vuoi. Ecco, piangi a dirotto, ti lanci verso me, ti agiti. Hai ottenuto ciò che volevi. Il babbo si arrende e ti prende in braccio.

Sei un batuffolo di cotone e il tuo odore pieno degli oli che la mamma ti sparge ogni mattina, è inebriante, ma è soprattutto il tuo aroma di bambina, un misto di latte e di pannolino sporco, che ti rende irresistibile. Non saprei quanto possa stringerti, coccolarti. Forse fino a stritolarti. Un corpo che ancora vive della propria energia, fuoco puro. Inebriata della tua innocenza, della tua imperfetta incorruttibilità, te ne stai abbandonata tra le braccia, sicura della presa, certa dell’amore che ti si dona. Sensazione grandiosa e irripetibile nella vita. Godila finché puoi.

Il Carpe diem, sai, è ormai una legge nella vita.

Io non so come sarà il tuo mondo, però, se cosa viene da cosa, posso forse dartene un anticipo descrivendoti quello che mi appare il mio in questo momento, che è poi anche il tuo, pure se non ne hai coscienza, perché il tuo mondo ora come ora è la mamma, il babbo, la pappa, il latte, la cacca che ti brucia il culetto e che deve essere rimossa.

Per farti capire vorrei raccontarti una breve favola, una storia antichissima.

Tanto, ma tanto tempo fa, esisteva un essere che si chiamava Prometeo. Era il figlio di un Titano che a sua volta si chiamava Giapeto, mentre la madre, probabilmente, era Asia. Prometeo che amava gli uomini, riuscì ad ingannare Zeus, il Re di tutti gli dei e la creatura più potente nel cielo come sulla terra. E lo imbrogliò almeno due volte.

La prima volta, durante un sacrificio a Mecone, aveva diviso in due un grosso bue le cui parti dovevano essere distribuite tra Zeus, che avrebbe scelto per primo essendo un dio, e gli uomini. Sotto la pelle del bue mise le viscere e la carne buona, dall’altra parte sotto uno strato di succulento grasso bianco le ossa dell’animale. Disse poi a Zeus di scegliere la parte che preferiva e lui, ingannato dal bel grasso, scelse le ossa spolpate. Si adirò con Prometeo e con gli uomini e, per punirli, decise che li avrebbe privati della cosa a cui più tenevano: il fuoco.

Prometeo però amava i mortali e riuscì a sottrarre dei semi di fuoco dal carro del sole e li donò loro nascosti in un gambo di ferola, una specie di sottile canna. Zeus non ci vide più dalla rabbia e per punire i mortali creò Pandora e la inviò sulla Terra. Questa creatura fu forgiata su ordine di Zeus il quale ordinò a tutti gli dei di donarle una qualità. Così ebbe la bellezza, la grazia, ma anche la menzogna e la furbizia. Un dono terribile per gli uomini.

Anche Prometeo fu duramente punito. Zeus lo condannò ad essere incatenato con lacci di acciaio al Caucaso e un’aquila, anche lei di nascita divina, doveva mangiargli il fegato ogni giorno, fegato che puntualmente ricresceva, così che il supplizio durasse all’infinito.

La storia ha poi un lieto fine. Eracle, figlio di Zeus, passando da quelle parti, trafisse l’aquila e liberò Prometeo e Zeus, tronfio dell’impresa del figlio, perdonò il benefattore degli uomini, ma lo costrinse a portare in eterno un anello fatto con le catene che lo avevano imprigionato con incastonata una roccia del Caucaso.

Ti domanderai piccola perché ti ho raccontato questa favola. Prima di tutto perché i miti, le favole, hanno un senso che forse oggi si sta perdendo, mentre rivestono una parte molto, molto importante della nostra cultura, e poi perché mi permette di riallacciarmi al discorso che stavo facendoti.

Vedi Prometeo ruba il fuoco e lo dona agli uomini. In altre parole dà loro la possibilità di produrre e il mondo da allora è stato dominato da questo: produrre. Avere un’etica del produrre vuol dire pensare al futuro, il futuro come valore. Non produrre unicamente come fonte di guadagno, ma produrre pensiero, nuove idee, cioè, ancora una volta, valori.

Ma oggi come oggi ci dicono che i grandi valori del passato stanno declinando.

È vero.

Non voglio entrare in questioni che mi superano, ma prendi ad esempio il problema del corpo. Un tempo il corpo veniva curato e venerato perché era uno strumento di produzione. Ora il corpo è solo visto come un argomento affettivo. Lo curiamo fino all’eccesso, solo per un piacere personale. Insomma la grande tendenza della vita sociale, oggi come oggi, non è l’attivismo, il fare, il produrre per un futuro, ma un atteggiamento di contemplazione del mondo in quanto tale.

Tutto ora e adesso.

Per quanto possibile. Un godimento per lo più di massa, da condividere con il resto della comunità, anche se spesso piccola.

Per questo ti dico che più che il saper fare in futuro conterà ciò che sai, ciò che sai ideare, come saprai convincere la gente delle tue idee, coinvolgerle, renderle partecipe di un edonismo collettivo. In altre parole tutto diviene un atto estetico. Avere meno voglia di dominare il mondo, ma riuscire a goderne di più. Un godimento condiviso certo. Sentire e godere assieme agli altri. Citiamo pure gli stadi, le tribune elettorali e i comizi, gli enunciati via internet dei fanatici religiosi. Purtroppo il futuro sembra essere questo.

Dirai, “Sembra che tu parli del trionfo dell’emozione. Ma non hai rotto le palle fino ad ora con il razionalismo, con l’analisi del reale?”.

Sì, hai ragione.

La realtà rimane sempre. Sono reali quei tuoi occhi febbricitanti e quelle tue labbra leggermente distorte a segno di una sofferenza sottile. Le tue mani che si aprono e chiudono come per chiedere aiuto, la voce di tua madre che cerca di sollevarti da una sofferenza virale che solo antibiotici e antipiretici possono donarti. Ma tu vivi ancora in una realtà che non ha una piena coscienza di se stessa, nel senso che non sei ancora contaminata, non del tutto almeno, dalla cultura. Non ti attira neppure la televisione, forse la musica, ma quella è un discorso a parte perché non ha bisogno di nessun registro logico, è pura, è arte pura. Spero vivamente che tu non sia mai vittima del multitasking. Ma chissà, tanti ne sono già soggetti. Lasciamo perdere.

Tu certamente sei reale. Ma per chi? Per me, per la tua mamma e per altre cento, forse, nel migliore dei casi, duecento persone. Per altri non esisti. Come me, come tutti. Non esiste, piccola, una realtà, ma molteplici. Non voglio dire una per ogni persona, ma almeno una per ogni gruppo, per ogni civiltà. La realtà imminente, quella che ti fa sentire la fame, è un’altra cosa.

La realtà è oramai mediata da troppa condivisione. Se una realtà è condivisa vale da traguardo. Forse diventa già una metarealtà, cioè va al di là della realtà stessa. È una vita collettiva, un’emozione collettiva, una realtà che non fa i conti con se stessa. Oggi il babbo e al mamma e tutti gli altri pagano i propri conti senza toccare moneta. Addebiti, carte di vario genere. Forse quando tu sarai grande basterà l’impronta digitale o la ripresa della pupilla. Ma quanto c’è di reale in ciò? Percepisci il reale importo sulle tue possibilità? O devi aspettare l’estratto conto per dire “cazzo quanto ho speso!” È un esempio banale, ma va esteso.

Stasera hai le mani che frugano nel vuoto. Non stai male, per fortuna, anzi, sei bella come un fiore appena sbocciato. Cerchi nell’aria una forma che solo tu conosci e sembri afferrarla fino ad un attimo prima, quando poi scompare. Adoro questi tuoi origami astratti, queste fantasie alla Pollock, gocce di vernice immaginaria nell’aria che hai di fronte. Quale artista potrebbe avere l’immaginazione e la creatività che tu hai, chi inventare e chi avere la voglia di scoperta che i tuoi occhi modellano su ogni particolare?

Non ho più voglia di parlare, di scrivere inseguendo concetti che riguardano più me che te. Sei un qualcosa che merita di essere al centro di ogni attenzione per quello che sei e non per quello che diverrai o che vorremmo divenissi.

Sai, spesso quando ti guardo e ti seguo, attento ad ogni tuo movimento, mentre gattoni e ti arrampichi su mobili o picchi con mani minuscole, ma forti, su vetri fragili della credenza, mi sento come un attore smarrito sulla scena, che si è appena reso conto di avere perduto la battuta e il movimento che ne consegue. Cerco allora di seguirti, di percepire il tuo prossimo movimento. Spesso inutilmente, sei imprevedibile, e lo scatto mio è sempre inferiore alle tue reazioni.

Non importa, disegna ancora quei tratti impercettibili nell’aria che sembrano essere addirittura colorati, sfumati, a seconda del movimento della tua mano, della configurazione delle tue dita, dell’espressione del tuo volto, dalla cristallinità delle tue pupille, dalla forma imprecisata dei muscoli del tuo corpo che si piegano o tendono, sobbalzano come da scossa elettrica o rilassano per impulsi ormai a me sconosciuti.

Stai prendendo coscienza del mondo che ti circonda e intuisci che è pericoloso. Spesso diffidi di chi sta accanto e ti rifugi tra le braccia sicure della mamma o del babbo. Sei una creatura stupefacente, sorprendente, imprevedibile. Ora sorridi contenta, quasi estasiata, quando vedi il nonno mago che fischia o l’altro nonno, quello in camice, che ti sorride e parla. Giochi e ridi con la nonna, quando fino ad un mese fa solo a vederla piangevi. Cominci a conoscere le persone, a distinguerle, ad amarle.

Certo è che il tuo colore è come la suffusa luce del mattino, una pelle trasparente degna della Giunone mitica dalle membra diafane, il tuo sorriso un canto di delfino e le tue mani e i piedi doni di Michelangelo non ancora scoperti.  Chissà perché quando ti guardiamo, ti osserviamo, cerchiamo sempre in te qualcosa di nuovo? Forse per il fatto che effettivamente ogni giorno riveli una novità. Ora gattoni, prima a fatica e all’indietro, poi correttamente. Ti alzi in piedi aggrappandoti ad un mobile, ad una sedia e tenti anche di lasciarti per provare il tuo equilibrio e, inevitabilmente, cadi sbattendo la testa. Piantoni subito consolabili. Sembri quasi fatta di gomma, non rovini sul tappeto, ma rimbalzi.

Cominci anche a dare una mano quando ti si veste, anche se quel fasciatoio sembra essere diventato troppo piccolo e i tuoi movimenti bruschi mettono sempre a repentaglio il sistema nervoso e cardiaco della mamma e del babbo, tanto che tengono aperto il cassetto sotto pieno di pannolini e vestitini morbidi, così che se cadi piombi sul morbido, dentro il cassetto.

Guardi spesso un punto indefinito, o meglio, noi crediamo che sia tale, tu punti un oggetto, un particolare preciso che solo dopo un po’ di tempo ci rendiamo conto quale sia. Siamo contenti di questa tua curiosità, di questo volere conoscere e speriamo permanga nel tuo carattere. È strano come tu sia interessata più al particolare che all’insieme, anche di un gioco o di un qualsiasi oggetto nuovo. Le tue ditine esplorano il materiale, le curve, le sporgenze di ogni cosa, le sondano prima di finire inevitabilmente in bocca. E non solo di oggetti nuovi, per esempio il tuo adorato Mister Been, l’orsacchiotto tedesco, è sempre fonte di nuove scoperte, ora il naso, poi le orecchie, quindi gli occhi.

Come ti invidio io che ho cominciato da tempo a dare tutto per scontato, a trovare anche le cose più interessanti rivestite di un alone spesso di banalità. Ci volevi tu per scuotermi da questo torpore, per dissipare la nebbia che stava avvolgendo il mio cervello. Scoprirti è una sensazione fantastica.

D’altronde questo alone mitico con cui rivesti le cose non è una mia scoperta. Diceva già il più grande poeta italiano che da bambini ogni cosa, ogni sensazione è vago e indefinito, tende sempre all’infinito. Una facoltà che si perde da adulti. E anzi la maggior parte delle impressioni che ci donano ancora questo senso di indefinito e infinito, non sono altro che reminiscenze dell’infanzia, un riviverle di nuovo.

Insomma, ancora per citare il poeta:

“I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto”.

Questa notte ci hai fatto impazzire. Sei andata a dormire come sempre, più o meno alla stessa ora degli altri giorni e, poco dopo, anche noi ci siamo coricati stanchi della giornata. Poi verso le tre hai cominciato con i tuoi strani canti, nenie condite con improvvise impennate di tono e gridi acuti e striduli. Non che fosse strano, lo fai spesso, ma di solito ti riaddormenti dopo pochi minuti. Non ieri sera. Ti abbiamo dovuto cullare fino alle cinque del mattino e non stavi neppure male, anzi volevi giocare, interagire al caldo del lettone nostro. Fortuna che il babbo il giorno dopo non doveva lavorare, non almeno a scuola e poteva gestirsi l’orario, mentre la mamma è andata al lavoro con un cerchio alla testa peggiore di quello che ti prende il primo dell’anno dopo una nottata di bagordi. Pazienza, ma ti prego, se puoi, cerca di evitare.

Che vuoi ancora? Sto lavorando, non vedi? O forse sto cercando di lavorare. Hai mangiato. Ti ho cambiata. Hai fatto il sonnellino e giochi tanto bene lì per terra a inseguire una bottiglia di acqua minerale vuota che ti rotola via ogni volta che la raggiungi gattonando. E invece ti aggrappi con le mani alle gambe dei miei blue jeans e tiri, ti sollevi, fai ginnastica emettendo un lamento sottile.

Questi interi pomeriggi passati con te, dopo una mattinata di lavoro stancante, sono massacranti. Tu sei instancabile e solo starti dietro con lo sguardo è una fatica non indifferente, uno stress continuo. Non ti dico poi cercare di capire cosa vuoi dai tuoi movimenti, dai pianti, dall’espressione del viso. Non vedo l’ora che parli e non quei due o tre vocaboli che usi adesso, ma, ba, dai, ma qualcosa di più articolato. Mi chiedo comunque dove trovo questa forza per starti dietro tutti i giorni e ancora di più mi domando come abbia fatto tua madre che prima di rientrare al lavoro passava con te l’intera giornata e non solo il pomeriggio. Forse è una forza istintiva che penetra nel sistema nervoso quando si diventa genitori e la protezione del cucciolo diventa la cosa più importante. Non siamo molto diversi dagli altri mammiferi in questo.

Sai avevo una cagna, un pastore maremmano immenso, ma docile come un agnello almeno con chi conosceva. Non del tutto con chi le era estraneo e entrava nel suo territorio, cioè il giardino del tuo nonno con il camice. Poi c’era un altro cane, un dalmata bellissimo ma un po’ troppo invadente, quello stesso che tu chiami con i tuoi gridolini e che ti fa ridere ogni volta che lo vedi attraverso il vetro della finestra della cucina del nonno.

Bene la cagna ebbe dei cuccioli. Una nidiata di cuccioli, addirittura nove. Erano piccoli e brutti, l’incrocio non era riuscito così bene. Alcuni erano tutti bianchi come la madre, altri avevano chiazze nere sparse qui e là. La testa grossa e sembravano tanti salsicciotti, ma facevano tenerezza. Soprattutto quando si scansavano l’un l’altro per arrivare per primi ai capezzoli per succhiare il latte.

Nessuno, tranne me, il tuo nonno e tuo zio, potevano avvicinarsi ai cuccioli e tanto meno toccarli, prenderli in mano. Se qualcuno si avvicinava partivano leggeri ringhi e occhiate per nulla rassicuranti. Avevamo preparato un luogo comodo, sotto una tettoia con della paglia per lei e per i piccoli, ma la cagna non voleva saperne, li riprendeva uno a uno delicatamente con quelle fauci che spaccavano con facilità gli ossi buchi e li trasportava dove aveva scelto lei. In una buca che aveva scavato a valle del giardino, dietro un muretto di cemento.

Era verso la fine di settembre. Improvvisamente durante le prime ore del pomeriggio, un acquazzone di quelli che non ti aspetti cominciò a riversarsi a terra. La grandine rimbalzava con grossi chicchi sulla melma che scendeva come un fiume marrone dalla collina. Eravamo un po’ preoccupati, perché molti anni prima con un temporale del genere si era allagato il piano terra della casa e si era dovuto ricorrere ai vigili del fuoco per prosciugare l’appartamento.

Il fiume d’acqua scendeva senza fermarsi aggirando il muretto dietro il quale la cagna aveva fatto la cuccia. In brevissimo tempo la buca dove stavano i cuccioli si riempì d’acqua. Vedemmo la povera mamma correre come un ossessa con un cucciolo in bocca verso la sommità della collina e poi tornare indietro per portare in salvo i superstiti, ma gli altri cagnolini erano annegati. Non si rassegnò e continuò a trasportarli anche se il loro corpicino pendeva senza peso e senza movimento dalle sue mascelle. Abbiamo dovuto aspettare un giorno prima che lei si allontanasse dai cadaveri e smettesse di leccarli e di trascinarseli con le zampe e con il muso verso i capezzoli.

Capisci cosa voglio dire che la forza per proteggere un figlio se non ce l’hai ti viene, non so o perché da dove, ma stai pur sicura che ti viene.

E a proposito di animali, ricorda che dobbiamo verso loro gentilezza e benevolenza. Esistono dei legami reciproci tra noi e gli animali, anche se gli animali sono molto più moderati di noi e meglio si regolano attraverso le norme che ha donato loro la natura. È vero però che non c’è una vera e propria comunicazione tra noi e loro. Forse noi siamo capaci di intuire i loro sentimenti, ma credo che anche loro possano farlo. Anche loro ci cercano, ci festeggiano, forse ci amano e ci difendono. Certo ci aggrediscono anche, ma è una cosa che facciamo pure noi. E quando qualcuno ti dirà che non toccherebbe mai neppure con un dito un cane o un gatto o, addirittura, che si rifiuta di mangiare la carne per rispettarli, domanda loro se hanno le stesse remore con gli insetti anche quelli che dicono più schifosi. Come agiscono se una colonia di formiche invade la loro dispensa vegetariana? Ecco cosa voglio dirti, porta un rispetto assoluto per gli animali, per tutti, ma ricorda sempre che esistono ruoli precisi in natura, che essa può essere ostile e la difesa diventa necessità. Ricordi quello che ti dicevo a proposito del fatto che non sarei capace di fare del male ad un uomo? Vale lo stesso per gli animali.

Di nuovo ti lamenti e questo è il piantino del sonno. Ora il babbo valium ti prenderà in braccio e ti cullerà fino a che non dormi. Cominci a pesare sai e fortuna che quando è in casa questa fatica se la prende la mamma. D’altronde è lei che dice sempre che sei figlia di genitori “anziani” e che quindi crescerai con un sacco di vizi.

Ben venga. Sei una donna ed adoro i vizi nelle donne.

A questo proposito proprio a causa del tuo sesso sarai, probabilmente, ossessionata dalla bellezza per tutta la vita. Non che gli uomini siano esenti da questa preoccupazione, ma in tono minore e in maniera diversa. Innanzi tutto non credere mai a chi dirà che la bellezza esteriore non conta. Te lo diremo noi, te lo diranno a scuola, lo leggerai ecc… Tutte cazzate. Intanto se la bellezza non contasse o contasse solo quella interiore, non esisterebbe l’arte, non avrebbe senso.

Ancora una volta mi soccorre qualcun altro. Cito testualmente:

“La bellezza è un elemento di importante considerazione nei rapporti tra gli uomini; è, in effetti, il primo mezzo per armonizzarsi gli uni con gli altri; non vi è uomo tanto incivile e scontroso che non si senta in qualche modo colpito dalla sua dolcezza.

“Non potrò mai dire abbastanza quanto io consideri la bellezza una qualità notevole e capace di grande influenza. Socrate la chiamava una fugace tirannia e Platone il privilegio della natura. Non c’è nessun’altra qualità che la superi in prestigio. Occupa il primo posto nei rapporti tra gli uomini, si presenta per prima, affascina e influenza fin dal primo momento il nostro giudizio, con grande autorità e potere straordinario”.

Sono d’accordo con Montaigne. È inevitabile, la prima cosa che ti colpisce di qualcuno è la sua bellezza, indifferentemente che si tratti di un uomo o di una donna. Con la differenza che la bellezza di una persona del tuo stesso sesso può dare fastidio, generare imbarazzo facendoti sentire fuori luogo, insomma far scattare l’invidia. Ma quella dell’altro sesso non può che far nascere ammirazione, scaturire un immediato sorriso e renderci ben disposti verso di lei o di lui.

Sai forse è una realtà amara ma ti accorgerai che, se ad esempio, ad un colloquio di lavoro si presentano due persone con gli stessi requisiti o quasi, sarà quella più bella e attraente a spuntarla. A volte anche se si è inferiori per qualità e capacità.

Inoltre pensa a coloro che cantano più di ogni altro la bellezza interiore, la purezza e che, anzi, ritengono che la bellezza del corpo e del viso siano quasi una condanna. Pensa a loro e domandati perché tutti i Cristi e tutte le Madonne sono bellissimi. È vero ce n’è qualcuno che non lo è, ma in quei casi sono per lo più provocazioni.

Sai tanto tempo fa uno scultore che si chiamava Donatello scolpì un Cristo ligneo e lo fece così come se lo immaginava. Barba lunga, carnagione scura da palestinese, perché Gesù era un palestinese, e non un ebreo indoeuropeo con il cappello nero a larghe falde e le basette lunghe come trecce di donne persiane all’epoca di Ciro il Grande, e, tanto meno, un vichingo con i capelli biondi e gli occhi azzurri. Ma un corpo non perfetto come doveva essere quello di un uomo che per quasi trent’anni aveva lavorato sotto il fuoco del sole dell’Africa Settentrionale e non intrecciando cesti di vimini, ma duramente a martellare, segare, scolpire legno per riparare o costruire mobili. Bene quando vide quella scultura di Donatello, il suo amico Brunelleschi ne rimase sconvolto, disse che aveva messo in croce un contadino, e per tutta risposta ne scolpì uno dalle proporzioni perfette e la carnagione bianca come il latte, il viso quasi apollineo.

E non è finita. Circa un secolo dopo fu commissionato a Caravaggio un quadro che doveva rappresentare San Matteo che scrive il Vangelo. Il pittore lo rappresentò come doveva essere. Rozzo, con i piedi e le mani pieni di calli, uno sguardo ebete e perplesso e, sopra di lui, un angelo che gli prendeva la mano e lo guidava nella scrittura, perché, questo è un altro mistero di come abbia fatto a scrivere il suo Vangelo, escludendo la grazia divina chiaramente, era analfabeta come il resto degli apostoli. Anche in questo caso i religiosi rifiutarono il quadro, che tra l’altro è andato distrutto nei bombardamenti di Berlino e ne esiste solo una vecchia foto in bianco e nero, e lo fecero rifare con un Matteo bello nella sua saggia vecchiaia, in posa plastica, con una tunica rosso vivo e le mani e i piedi ben curati. E, naturalmente, l’angelo non guida più la sua mano nella scrittura, ma semplicemente detta.

Prova a continuare a pensare che la bellezza non conti e non è importante se ci riesci. Se mai è fondamentale non divenirne schiavo, non essere nevrotici o paranoici per essa e a non giudicare solamente dalla prima apparenza anche se, ti ripeto, il primo impatto è inevitabile.

Oggi il babbo è ridotto uno straccio. Mal di testa, bruciore agli occhi, tosse da non riuscire neppure a fare un tiro di sigaretta, male alle articolazioni. E sì che l’inverno se ne è andato, ma non ci sono più le mezze stagioni, tanto per ricorrere a qualche frase fatta, ed è un freddo della madonna.

Per fortuna la mamma si è presa un pomeriggio e ci pensa lei a te.

Ora siete sul divano rosso che tanto le piace. Il babbo va e viene dallo studio, per bere un sorso d’acqua, per prendere un altro fazzolettino. Non sta lavorando, soltanto s’illude di farlo. Ha un pacco di compiti da correggere, un paio di lezioni per il liceo, nella migliori delle ipotesi, da preparare, un verbale del Consiglio di Classe da scrivere, e un articolo da correggere. Ma in realtà cazzeggia. Gira un po’ in internet, gioca con un video game, poi riprende in mano un compito e s’incazza subito perché ha difficoltà a decifrare la calligrafia del ragazzino e quindi l’abbandona, e pensare che il tuo babbo è un filologo. E poi, vedi, tutto ciò genera altro stress, perché in condizioni normali, senza raffreddore o influenza che sia, sarebbe stata solo routine, iperlavoro, non pagato, denigrato dal governo e dall’opinione comune, ma fatto. Sai il tuo babbo non si sente un professore, un insegnante per vocazione, ma un professionista e vorrebbe che ciò gli fosse riconosciuto. Non accade nel nostro Paese. Pazienza. Vorrà dire che non faremo i professionisti.

Comunque il babbo ora pensa se prendersi un antidolorifico o un antinfluenzale, ma le parole del nonno con l’abbassalingua gli riecheggiano nelle orecchie: “Finché puoi resiti, non buttare giù nulla di chimico”.

Però ogni volta che vi passo davanti vi osservo. Tua madre ha un comportamento diverso dal mio nei tuoi confronti. Sembra quasi che stia giocando o trastullando una parte di se stessa. Una parte fisica voglio dire. C’è una simbiosi totale tra voi due della quale, a volte, sono un po’ invidioso. Sì, lo so, ti ho detto che l’invidia è un sentimento da evitare in ogni modo, ma è più forte di me. E comunque è gelosia benevole, in fondo m’intenerisce molto vedervi. Lo sapevi che quando eri nel nido all’ospedale la tua mamma continuava a contarti le dita dei piedi perché non le tornavano i conti e le sembrava che ne avessi sei per piede?

Immagina che apprensione, che devozione.

State lì su quel divano come due figure rinascimentali. Lei ti tiene in braccio assecondando i tuoi sussulti improvvisi, ma reggendoti con sicurezza. A volte mi sembrate la Madonna di Vico l’Abate del Lorenzetti, così statica e imperterrita, bizantina, ma che nelle mani dimostra una forza, una stretta totalmente umana per trattenere il guizzo del bimbo che sembra sfuggirle dal grembo. Imperterrita è anche la tua mamma che sta seguendo in quel momento, con estrema concentrazione, Cento Vetrine alla televisione, ma senza perdere la percezione del tuo corpo, di quello che stai facendo, dei tuoi movimenti futuri. Anche questa è una capacità che le invidio, fare due cose, e bene, allo stesso momento.

Stai lì, seduta sulle sue ginocchia, e cerchi di afferrare la collana che le pende dal collo. Ti arrabbi, anche perché non te lo permette. Oppure sei in piedi, sempre sulle ginocchia, e urli, canti, ridi con un’espressione di beatitudine, quasi avessi davanti l’unica cosa che ha importanza nel tuo mondo. Il suo viso.

Batti le mani quando ti fa un complimento e le mostri gli unici due dentini che hai. A volte te ne stai stesa sulle sue cosce completamente abbandonata mentre la mamma ti accarezza il collo o la schiena e il tuo sguardo, l’espressione completa del tuo volto, il rilassamento dei muscoli del tuo corpo, fanno trapelare un abbandono totale al piacere.

Sei in estasi.

Eppure è quando soffri, quando sei malata, che la presenza della tua mamma diviene qualcosa di irrinunciabile per te. Magari sei sola col babbo e stai tranquilla, ma quando il dolore alla testa o al pancino ti prende, cominci a guardarmi con uno sguardo supplichevole che fa rivoltare le viscere, e cominci in maniera assillante a ripetere “mammà, mmmà, màmmà”. Sono i casi in cui il babbo vorrebbe vivere in quel telefilm della sua fanciullezza in cui i corpi venivano teletrasportati.

Poi, finalmente, arriva, e anche se stai piangendo sul viso ti si disegna un’espressione di sollievo. È arrivata. A dire il vero a volte sei anche un poco stronzetta, perché all’inizio la snobbi, come per volerla punire per la sua assenza nel momento del bisogno. Certo non capisci che non è una sua precisa volontà, se hai tutte le cure che ti diamo è anche, forse soprattutto, per merito suo, per le famose sette camicie che suda, ma sei un po’ stronzetta lo stesso. Ma poi ti abbandoni a lei, la cingi, le studi il viso con le mani graffiandolo con le unghie sempre troppo lunghe e affilate e, finalmente, ti addormenti.

Vi adoro, non so in che misura l’una rispetto all’altra, ma vi adoro. Va bene, siamo, sinceri, senza di te non potrei più vivere. Almeno credo. Nonostante la paura d’averti iniziale.

Chissà se un giorno ti capiterà di leggere Le mille luci di New York: spero di sì, perché è un romanzo molto bello e un’icona dell’epoca in cui il tuo babbo ha vissuto, una specie di On the road per chi aveva vent’anni, o giù di lì, negli anni Ottanta.

Non mi auguro che tu segua un’esistenza simile, dio me ne scampi. Ma forse è giusto avvertirti che la propria età bisogna viverla, altrimenti si perde il contatto con la realtà. Sii convinta che il mondo è bello, nonostante tutto, e vale la pena viverlo e conoscerlo. Parlo del tuo mondo, di quello che sarà e che forse i tuoi genitori e i tuoi zii non saranno più in grado di capire o di accettare, non completamente forse. Accade sempre. Ma tu sii testarda e cerca di comprenderlo e di criticarlo e di coglierne i lati positivi, perché non esiste un’epoca migliore di un’altra se non nell’immaginario di ognuno di noi. L’epoca più bella è sempre quella che si è vissuta da giovani.

Sai il calendario è una brutta bestia. Per molto tempo non ci farai neppure caso, poi il tempo inizierà a passare ad una velocità esagerata. Ad esempio non sembra vero che tu sia nata tanti mesi fa, sembra ieri, al punto che riguardando i filmini del primo mese della tua vita ci sembrava, alla tua mamma e a me, impossibile vederti così uguale, simile ad ora. Capivamo che in realtà era passato tanto tempo solo quando la mamma o io ti tenevamo in braccio e allora notavamo le proporzioni. Stavi quasi in un palmo di mano allora. Ora comincia ad essere un problema tenerti in braccio per più di un quarto d’ora. Pesi e ti muovi. Ci sono giorni che il tuo babbo o la mamma hanno la schiena completamente a pezzi, fitte lombari e scapolari da maratona di New York.

In altre parole la vita, il mondo, sono un esperimento non finito. Vi è una lotta continua per affermare ciò che è nuovo o trasformare ciò che è vecchio. Certo è che la vita non è solo biologia e di questo ti accorgerai presto. È un movimento irregolare e inarrestabile e per questo è meglio non calarvisi dentro in maniera totale, ma affrontarla con un po’ di agilità. Semmai dovrai cercare di renderla più intensa quando si starà abbreviando, quando, come ti dicevo, il calendario sembrerà scorrere troppo velocemente.

Tu non crederai che io, ad esempio, l’abbia fatto e ti sbagli. Se in gioventù ho cercato di cogliere tutto il possibile l’ho fatto però con leggerezza, ora cerco di godermelo tutto il tempo, la vita e anche gli errori che immancabilmente commetto, anche gli ostacoli su cui inciampo e cerco, soprattutto, di rendere questa esistenza piena, intensa, a partire dall’avere voluto avere te, cosa che mai mi era passata per la testa da ragazzo. Insomma è diventata una vita piena tanto più mi sono avvicinato alla normalità, ad un modello comune, anche se comunque sempre interpretatati secondo la mia indole. E cioè adeguandoli con ragionevolezza a ciò che io sono.

Perché vedi nel mondo fatto dagli uomini ci sono cose senza senso o, se lo hanno, è molto difficile da trovare. Per esempio la guerra. C’è chi l’ha definita la più grande e spettacolosa delle azioni umane, o chi l’unica igiene del mondo. Io mi sono sempre domandato se sia la dimostrazione che vogliamo dare a noi stessi dei nostri privilegi o il tentativo di nascondere le nostre imperfezioni.         Perché altrimenti si schierano tecnologie fantascientifiche e migliaia di uomini, per lo più “fatti” come cammelli di eroina o cocaina, per cause che non hanno senso o che, perlomeno, non lo hanno per quei singoli individui imbottiti di retorica e quasi incapaci di pensare con il proprio cervello?

Pensa, se vuoi, alla Grande Guerra, migliaia di ragazzi mandati contro una mitragliatrice. Uscire da una trincea sporca di fango e di feci. Allo sbaraglio. Pieni di grappa mista ad amfetamina. E senza sapere il perché. Loro stavano benissimo in Calabria o in Toscana, o in Sicilia senza il Trentino annesso. Che cazzo gliene fregava a loro. Forse era più importante arare il campo con il padre e la madre per sbarcare il lunario.

Non voglio inoltrarmi in campi troppo specifici e pericolosi, in comodi temi economici o d’immagine (ti chiederai mai perché ogni presidente di una potente nazione d’oltre oceano da più di cent’anni a questa parte ha avuto la sua guerra personale, e qualcuna l’ha anche perduta e altre ne perderà, ma alla fine non gliene frega un cazzo appena finito il mandato?), o addirittura di religione, ma non credo, in questo caso, che un qualsiasi dio penderebbe dalla parte dell’uno o dell’altro per supplire al loro comodo.

Bene è ora di tirare le fila di questa lunga lettera che forse non leggerai mai. Sei nata dunque e senza piangere, mentre attorno a te tutti gioivano. Cerca di vivere la tua vita in modo che il giorno, mi auguro remoto, che, purtroppo, morirai potrai essere a tu ridere e gli altri a piangere. Quindi vivi la tua vita al meglio, non secondo gli eccessi, ti ho già detto che non servono a nulla se non a rimpiangere la normalità, ma essendo ciò che sei senza cercare di sembrare o di adeguarti a stereotipi spesso senza un senso. Sogna, sogna sempre e se qualcuno ti dirà che sognare o immaginare non serve a nulla digli che sta commettendo un omicidio. E poi viaggia, conosci, cerca sempre di capire.

Ci sono poi le persone, gli altri, quelli che ti permettono di vivere, poiché siamo animali sociali e non possiamo fare a meno degli altri. Certo piccola non sempre gli altri portano piacere, anzi anche chi ti vorrà più bene in alcuni casi saprà ferirti, sconcertarti, ma ricorda che tornerà, se ti ama veramente, sempre e tu dovrai avere il coraggio e la forza di perdonarlo. Perché vedi l’amicizia si fonda soprattutto sulla fiducia e questa si costruisce con grande pazienza, ci vogliono a volte anni, anche se la persona in causa sarà il tuo amore. Dopo il fuoco dell’invaghimento dovrai affrontare la parte più difficile, appunto fidarti ciecamente di lui e sempre con l’incubo che per perdere la fiducia in qualcuno basta un attimo. Anche perché le persone cambiano nel tempo, ricordi che ti ho detto che nessuno rimane uguale a se stesso, ma il fatto che ci sia una mutazione non è sufficiente per abbandonarla, ma piuttosto per cominciare un nuovo cammino di comprensione, di adeguamento, poiché, sicuramente, anche tu sarai cambiata.

L’amore, inteso in tutte le sue eccezioni, è difficile da capire e tanto più da praticare. Non ti capiterà di raro di chiederti perché determinate persone che ami e che stimi, sembrano non ricambiare il tuo sentimento. È difficile spiegarlo, ma troppe volte ti ho già detto che spesso vale più il mezzo del contenuto. È facile che siano semplicemente persone, che per qualche motivo a te, ma probabilmente anche a loro, ignoto non sanno come comunicartelo. E accadrà anche a te la stessa cosa, ti sentirai frustrata da questa impotenza che a volte si risolve banalmente con uno sguardo differente dai soliti, un sorriso, un gesto.

A volte capita di passare anni accanto a qualcuno senza che ci accorgiamo del suo sentimento nei nostri confronti. Può anche accadere che lo ignoriamo di proposito e senza però accorgerci. Il perché è un mistero, o un enigma da psicoanalista, forse. Ci vuole molta pazienza per capire se stessi e gli altri e la pazienza costa fatica, perché ci vuole pazienza ad imparare ad essere pazienti.

La causa di ciò può spesso risiedere nel fatto che sbagliamo giudizio e che riteniamo che una determinata persona ci odi. Ci aspettiamo che sia proprio lei a finirci colpendoci nel momento del bisogno e invece scopriamo che sarà l’unica disposta ad aiutarci, spesso sacrificando se stessa.

E poi l’amore si basa di sovente sull’egoismo. Non siamo mai soddisfatti di come ci ama una persona e riteniamo di essere sempre noi quelli che amano di più. È ancora una questione di punti di vista, semplicemente quell’individuo non ci dimostra l’amore come noi vorremmo, e probabilmente la sensazione è reciproca. Quindi mai fermarsi alle apparenze, e, soprattutto, cerca di metterti al suo posto e avrai l’impressione che anche lui prova la tua stessa sensazione.

Certo trovare qualcuno da amare non è cosa facile e ci vuole molta pazienza, anche per il fatto che incontrerai molta gente sbagliata che, magari, ti farà del male. Ma non è negativo, perché quando troverai quella giusta sentirai che davvero il cielo è in terra. E spesso sarai tu ad offendere, a sfruttare, a denigrare gli altri.

Non ti accontentare di essere perdonata, piccola, perché non serve a nulla se prima non hai perdonato te stessa.

Ma ciò che ti auguro più di ogni altra cosa è che tu possa incontrare qualcuno che sappia sempre farti sorridere, se non ridere. Un rapporto, un amore non vale nulla o più nulla se non ci si diverte a vicenda. Guarda tua madre ed io. Litighiamo, mai troppo a dire il vero, abbiamo opinioni estetiche, politiche, religiose, morali ecc. diverse, spesso opposte, ma stiamo assieme perché nel nostro amore c’è una grossa componente di divertimento. C’era prima e ce n’è ancora di più oggi, ingigantita dallo spasso che tu ci regali quando siamo tutti e tre assieme. Anche il momento più terribile può essere lenito da un sorriso, anche tenue o appena accennato.

Così ti sei affacciata a questo mondo e noi ti abbiamo disperatamente cercato, desiderato e siamo felici che tu ci sia. Ma se avrai letto queste pagine ti renderai conto che non hai davanti un percorso facile. La vita è bella e vale la pena di viverla, ma è anche piena di insidie, di rancori e delusioni.

Sai io ho sempre dato molto peso al caso. Il più delle volte conta il proverbio “essere nel posto giusto al momento giusto”. Ti ci trovi e tutto va bene. Tutto ciò che accade, tutte le circostanze ci influenzano, ma noi abbiamo la responsabilità delle nostre azioni, siamo noi alla fine, anche se governati dal caso, che scegliamo. E in questo senso siamo tutti un poco eroi quando riusciamo a fare la cosa legittima, a prendere la decisione giusta valutandone le conseguenze e assumendoci la responsabilità degli esiti. Perché se non sarai in grado di tenere sotto controllo ciò che fai o pensi, rischi che siano le cose o gli altri a dominare te.

Capita spesso che il mondo ti si rivolti contro, o che si crede che lo faccia, e in quei casi sembra che tutto vada a rotoli, che tutto si spezzi. Certo vi sono situazioni in cui veramente le forze vengono a mancare e dalle quali quindi è difficile risollevarsi. Gli abbandoni, la perdita di cari, la sensazione di non potere provvedere a chi ami e ti ama. Il senso di impotenza di fronte l’impossibilità di intervenire per sollevare qualcuno, per aiutarlo. A questo proposito ti auguro vivamente di non avere mai tra chi ami qualcuno colpito da depressione, deve essere qualcosa di lancinante, sentirsi assalire dall’inettitudine e temere ad ogni momento che il peggio possa accadere, sentirsi sull’orlo dell’emergenza, anche allo squillo di un telefono. Deve essere come avere un figlio in guerra, in prima linea.

Nonostante tutto, quando accadrà che il mondo ti crolli in pezzi, non fermarti per cercare di rimettere insieme i brandelli, non esiste nessuna colla in grado di farlo, ad ogni pezzo che avrai attaccato ce ne sarà un altro che cade. Devi andare avanti, il mondo non si fermerà ad aspettarti, dovrai fartene una ragione e il più presto possibile, altrimenti rischi di rimanere indietro, cioè di perdere la partita con la vita.

In questo tua madre è bravissima, te l’ho detto, ha una gran forza e nei momenti in cui i pezzi del suo mondo erano talmente piccoli da sembrare frammenti del cristallo più puro, non ha certo cercato di ricomporre il vaso rotto. Ne ha conservato il ricordo, certo, assieme alle sensazioni, ma è andata avanti.

Vedi, il futuro è vero che si basa sul passato, in gran parte, ma soprattutto su ciò che del passato si può dimenticare, fallimenti e dolori compresi.

Mi auguro che tu sia felice. Anche se è difficile, se non impossibile definire cosa sia la felicità. In primo luogo non pensare mai che la felicità ti abbia abbandonato. Se così ti sembrerà non fermarti a guardare a lungo il lato infelice perché uno felice, probabilmente, si è già presentato ed è lì che ti attende. E non credere che la felicità sia soggetta a determinate condizioni, come la bellezza, la ricchezza, il successo. La felicità è una condizione della personalità, della tua personalità: essere estroversi, avere fiducia in se stessi, credere di avere il controllo di se stessi e del proprio futuro. Insomma non è felice chi ha di più, ma chi sa cogliere il meglio di quello che ha.

Non esiste un manuale della felicità e felicità non vuol dire non soffrire, altrimenti basterebbe l’eroina o qualsiasi altra droga. Però, certamente, ci sono dei modi di essere, piccola, che possono facilitare la felicità e tu già li stai sperimentando. Non è un caso se tutti quelli che ti conoscono notano per prima cosa la tua tranquillità, il tuo benessere.

Qualche inutile consiglio per concludere.

Ricorda che non si deve mai attribuire solo a noi stessi ciò che di spiacevole ci capita. Cerca sempre, anche se a volte non sarà possibile, impedito ad esempio dal lavoro che farai, di stare accanto a persone felici, tu ora stai quasi sempre con la mamma e il babbo che, tutto sommato, sono felici. Non metterti mai a confronto con gli altri, almeno dal punto di vista economico, sociale ecc… Prova sempre a valorizzare quello che fai e che vuoi fare e non sopravvalutare gli insuccessi e non arrenderti se qualcuno ti dice che è inutile continuare a lottare. Cura il tuo corpo come se fosse un tempio, la salute fisica è un privilegio che va venerato.

Questo non vuole dire che dovrai sopravalutarti, è un errore gigantesco questo, credimi. Aiuta chi vuol essere aiutato e non avere paura a chiedere aiuto. E, soprattutto, non trarre mai conclusioni affrettate dagli inevitabili insuccessi a cui andrai incontro, come non esaltarti troppo dei successi. Le sconfitte insegnano, è duro ammetterlo, ma è vero e poi, piccola, la vera sconfitta è quando le permettiamo di prendere il sopravvento su di noi.

            Reagisci. Sempre.

Ecco, forse, sono solo questi i consigli che posso darti per sfiorare la felicità e spero che tu vi riesca.

Non ho altro da dirti piccola mia, se non che aspetterò con ansia che tu cresca, che tu possa affrontare il mondo.

Ed ora chiudi i tuoi occhi che anch’io ho sonno, mi sembra quasi dieci anni che non dormo per lasciarti queste pagine, un segno rintracciabile di questo mio passaggio terreno che spero, ti accompagnerà ancora per molto.

 

Ciao, amore mio.

Il tuo babbo.

 

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