PAURA D’AVERTI (3).

Forse è venuto il momento di presentarti la tua famiglia, almeno i parenti più prossimi, per non annoiarti, escludendo anche zii e altri affini. Di un tuo nonno ti ho già accennato. È quello che ogni tanto ti tortura con strani oggetti che tu tenti di afferrare, e gridi come una invasata quanto ti schiaffa in gola quel bastoncino piatto che si chiama abbassalingua. È sempre lui che ti ordina quelle pappe schifose che sono poi medicine, anche se a volte hanno un sapore dolce e tu rimarresti lì a succhiare il dosatore per ore.

È un ometto piccolo e ricurvo ora, che procede a passi lenti aiutato dal suo bastone o dal carrello di metallo che lo rende simile ad robot del cinema. Capelli grigiobianchi e radi, vestiti che sembrano sempre troppo abbondanti per lui. Ma solo un anno fa, quando tu stavi ancora nella pancia della mamma, era un uomo vigoroso, sempre fiaccato dal lavoro a cui non sapeva o non voleva rinunciare, con gli occhi rossi dalla fatica, ma vivi per quel che lo attendeva. Sapeva lavorare anche diciotto ore al giorno e pure dopo la pensione. Quando gli dicevo di rallentare il lavoro, che oramai era tempo di riposarsi, mi rispondeva sempre: “i bambini che stanno male non aspettano e non vanno in pensione”. Sinceramente, vedendolo ora, non so se la scelta sia stata giusta. Il sacrificio è una cosa che nobilita, forse e non ci credo molto, ma bisogna sempre valutarne il prezzo. Dopotutto ci sono altri medici che potevano interessarsene di tutti quei bambini e, prima poi, inevitabilmente, lui finirà.

È stata colpa sua anche quella brutta avventura che hai vissuto in un mattino invernale, quando ti sei svegliata con un febbrone da cavallo e del quale non se ne riuscivano a comprendere le cause.

Ti ha visitato, rigirato da ogni lato sul tavolo della cucina, perché era prima mattina e lo studio medico era ancora freddo, non scaldato dal tepore del caminetto invece sempre acceso in cucina dove un giorno forse anche tu cucinerai le salcicce.

Tutto a posto, per lui non avevi nulla, forse una banale influenza i cui unici sintomi erano la febbre e una leggera tosse, troppo alta, tracheale, per fortuna, per essere bronchiale. Però è un uomo saggio oltre che un bravo medico e, soprattutto, aveva tra le mani la nuova nipotina, l’unica che, fino a quel momento, gli aveva dato uno dei suoi figli maschi. Così non ha avuto dubbi, un paio di telefonate e di corsa all’ospedale per controlli più approfonditi.

L’ansia che invadeva tua madre e me era davvero spessa, sembrava di portarsi dentro un muro di mattoni di piombo impossibili da scalfire. Il tuo babbo, in un primo momento, si è anche dimenticato di telefonare al lavoro per avvertire che non sarebbe andato.

Comunque in pediatria di nuovo una visita e pianti, il sacchetto per la raccolta delle urine appiccicato alla tua passerina e poi, tragedia, il prelievo di sangue. La mamma si era messa in un angolo incapace di guardare, io osservavo il tuo braccino e mi domandavo come mai avessero potuto trovarci una vena. Era bianco, morbido, lo muovevi a scatti e con forza, ma neanche l’ombra di quel rivolo violaceo che si vede, a volte solo intravede, nelle braccia di un adulto.

Eppure il medico aveva infilato il suo ago e cercava sotto la tua pelle la vena. Lo muoveva, l’ago, sembrava di vedere sotto il tuo braccino un insetto che tentava di scavarsi una via, una galleria per sfamare una propria ansia di cibo, di vita. Un’infermiera e un altro medico ti tenevano stretta, ferma, immobile per quanto potevano, come su di un letto di tortura. Io ti guardavo cercando di mantenere una calma olimpica che non possedevo e, ogni tanto, mi giravo verso tua madre con un sorriso di disimpegno rassicurante, che doveva assomigliare a un sfregio di coltellaccio sul viso.

Poi il sangue è scorso dentro il tubicino trasparente e poi nelle provette. Un sangue scuro, vivo, una ninfa di cui eri privata. Un medico bravo che ti ha fatto soffrire poco, il minimo indispensabile, un medico a cui essere grati.

Ti abbiamo rivestita e ti sei calmata. Per poco. Ancora corridoi, ascensori, fin sotto terra. Di nuovo spogliata e stesa su di uno strano letto freddo, con la mamma che ti bloccava le gambe e il babbo che ti tenevano ferma le braccia. Non mi impressionò tanto il tuo pianto disperato, quanto l’espressione del tuo viso, i tuoi occhi che sembravano domandarci “perché mi fate questo? Salvatemi!”.

E poi,

flash, raggi X sui tuoi polmoni.

Tutto finito, siamo tornati a casa dal nonno per aspettare i risultati. Un’attesa snervante, anche se tu davi segni di miglioramento, la febbre sembrava abbassarsi, diventavi via via più vispa, ridevi quando la mamma ti rivolgeva la parola o ti porgeva un gioco. Il nonno era tranquillo e a ragione, le analisi andavano tutte bene.

Questo è il tuo nonno, quello che si è commosso quando sei nata, quello che ti seguirà, speriamo ancora per molto tempo, e che continuerà a torturarti.

 

L’altro nonno, come ti ho già detto, è stato compagno di liceo del sopraccitato. È un nonno mago che blocca le immagini su pezzi di carta e le rende più belle ed espressive di quello che sono realmente. Un orso bruno che si aggira per la sua spaziosa casa apparentemente burbero, ma con l’orecchio mezzo sordo teso a ogni tuo piccolo gridolino, l’occhio attento a ogni tuo scatto. È in casa sua che hai vissuto i primi mesi della tua esistenza, era lui quell’uomo che ti fischiava quando piangevi per farti sorridere, ed era sempre lui che ti cullava, ti nutriva con il biberon quando noi, i tuoi genitori, eravamo costretti ad assentarci entrambi nello stesso momento.

Quando sarai più grande ti accorgerai di avere più fotografie tu di qualsiasi altro bambino. Quasi una documentazione storica della tua crescita.

È un uomo alto, anche se ora ricurvo per l’età. Occhi azzurri come quelli di tua madre e una passione sconsiderata per tutto ciò che è meccanico. Ha un’intelligenza viva anche se un poco spontanea, si offende facilmente, a volte senza calcolare da dove e perché viene l’offesa, sempre che di offesa si tratti, e perché è arrivata. Insomma un miscuglio, mal miscelato di contemporaneità e rimpianto dei tempi che furono. Ma proprio per questo è interessante e degno di ogni rispetto. È un uomo che stimo e con il quale ho passato intere notti a discutere, a parlare, a confrontarmi.

Tua madre dice che lui ed io ci assomigliamo molto nel carattere, tanto che, scherzando, afferma che secondo lei sono anch’io suo figlio. Effettivamente sono molti i punti che ci accomunano. È disordinato come me, ama la cucina e cucinare come me, è un uomo di grandi entusiasmi e improvvise depressioni al pari mio, è abbastanza pantofolaio, anche se un po’ meno di me. Vedi a me costa una fatica immensa pensare di uscire di casa anche per fare una passeggiata o andare al cinema, anche se adoro la cinematografia. Sbuffo malvolentieri anche quando un viaggio o solo uno spostamento deve essere fatto per qualcosa che avrà un ritorno importante, come una presentazione, un’intervista, l’incontro con il redattore di una rivista o l’editore interessato a un mio lavoro.

Il nonno mago invece è disposto a scattare come un ventenne se da qualche parte c’è una fiera di elettronica, di fotografia o cose del genere, e non si perderebbe per nulla al mondo una presentazione di un figlio o di un nipote. Pensa che ha seguito tuo zio negli USA, dove si recava per lavoro. Non è cosa da poco, perché vedi è un fumatore accanito, più di me, e nove ore di volo senza fumare deve essere stato un sacrificio pesante.

Lo vedrai sempre con la sigaretta in bocca, di quelle leggerissime, mentre cammina, mentre guarda la televisione, quando passa ore e ore notturne davanti al computer dimenticandosi, a volte, anche di andare a letto e addormentandosi invece sulla poltrona di fronte allo schermo del p.c., sigaretta a terra che si consuma o, peggio, sul collo della giacca.

Ora che non sei più in casa con lui e non può vederti fin dal mattino alla sera si è un po’ rattristato, telefona per sapere come stai e quando ti viene a trovare o tu vai a fargli visita teme sempre che nel giro di ventiquattro ore tu non lo riconosca più. Naturalmente non è vero, gli sorridi e ti diverti quando ti fischia o fa strani suoni con la bocca. Cerchi sempre di afferrargli gli occhiali, lo guardi strano quando compare improvvisamente davanti a te con le cuffie sulle orecchie per ascoltare meglio il telegiornale o un programma di ricette culinarie. Chissà, magari un giorno te lo ricorderai come un marziano o qualcosa del genere.

Ecco che squilla il telefono, il cellulare, proprio nella stanza dove tu ti sei appena addormentata dopo il latte pomeridiano. Ti svegli e io devo rispondere. Piangi. Mi sembro un acrobata mentre prendo il telefono e schiaccio il tasto e, contemporaneamente, cerco di sollevarti con un braccio dal seggiolone. Non ce la faccio naturalmente e sono costretto a mettere in attesa chi mi ha chiamato, e poi posare l’orecchio sul microfono e prenderti in braccio. Tu continui a piangere nel mio orecchio libero, mentre con l’altro presto attenzione al mio interlocutore costretto a ripetermi le frasi. Risultato, tu non ti calmi e io capisco metà della telefonata. Chi se ne frega, richiamerò, adesso voglio che tu smetta di stridere e che ti riaddormenti beata.

 

Naturalmente se ci sono dei nonni ci devono essere, in un modo o nell’altro, anche delle nonne. E infatti ci sono.

La prima, quella che fa riferimento al nonno che ti tortura, la conosci. È quella signora grassa che ti vede ogni settimana, più volte alla settimana, e ti gorgheggia strani suoni con i quali a volte ti diverti, altre ti incazzi come una iena. Ha paura di prenderti in braccio e a volte si offende se tu piangi quando la vedi. Spero che tu possa conoscerla meglio, perché vedi, in fondo ha un mondo molto bello dentro, anche se è restia a manifestarlo.

Sai quando le ho detto che saresti arrivata, che insomma tua madre era incinta, non ci credeva. Aveva perso ogni speranza. Poi quando l’ho assicurata e anche tuo nonno l’ha a lei confermato, si è messa a piangere. Non è venuta neppure a vederti appena nata, ha lasciato che trascorresse qualche giorno, per paura di commuoversi, di agire in maniera sbagliata. Ma ricorda, quando si tratta di sentimenti è molto difficile dire cosa sia errato o no.

Forse non lo capirai mai, ma la tua nonna vive in una sorta di afasia totale. Una palla di neve ghiacciata le ha procurato un ematoma cerebrale che l’ha messa in rischio di vita. Tanto tempo fa. Il tuo nonno ha trovato il migliore chirurgo disponibile all’epoca e si è salvata, ma la parte del suo cervello destinato alla parola è andato in totale disfacimento. Sono cose che ora accadono difficilmente e che quando sarai grande tu non accadranno più, probabilmente, ma un tempo erano norma o, almeno, rischio calcolato.

Sappi però che ti ama, che domanda sempre di te, e che se se si ritira quando tu non dimostri affetto immediato verso di lei non lo fa per alterigia, ma per la sensazione terribile di non essere all’altezza, di non essere accettata.

Il destino degli uomini e delle donne è sempre lo stesso da quando il tempo è tempo, da quando la storia è storia. Se non hai determinate performans sei un escluso e lei lo è stata, lo è, e continuerà a esserlo. Non riesce ad esprimersi correttamente, vede le cose in maniera differente, quindi è fuori dal gioco. Per tutti, anche per chi dovrebbe più amarla. Forse, sai, chi alla fine si preoccupa più di lei è proprio tuo nonno che ha avuto il coraggio di non lasciarla marcire nella propria afasia, nella propria inadeguatezza, nella propria incoscienza. Nonostante tutto.

E la nonna del nonno mago?

Mi spiace, ma non l’ho conosciuta, o forse sì, ma non ne ho memoria. Però ho visto il suo volto, le sue espressioni che il nonno mago ha fissato in mille modi sulla carta fotografica. Poi ci sono i racconti e non solo quelli della tua mamma, ma quelli del nonno torturatore, quelli dei miei colleghi, quelli di una tua zia che è stata sua compagna di classe al Liceo.

Non posso dirti molto di lei, se non che era probabilmente una donna dolce, bella, colta e che aveva lo stesso sguardo ammaliante di tua madre, almeno nelle foto del nonno mago. Ce ne sono tante di queste immagini: a colori, in bianco e nero, da giovanetta, da giovane, da donna e madre. E sono tutte belle, nessuna è retorica. Sai cosa ho pensato quando le ho viste? Che chi le ha fatte amava profondamente quella donna tanto da carpirle lo spirito più puro, tanto da immortalare la vera essenza del suo essere.

Ho chiesto molte volte al tuo nonno mago di organizzare una mostra fotografica con quelle foto. Ha sempre rifiutato, non so perché, ma ho il sospetto che per lui quelle foto siano cose private, un proprio mondo al quale non vuole rinunciare. È la sua donna ancora oggi, a tanto tempo di distanza dalla scomparsa, e nessuno deve intromettersi e, tanto meno, rendere pubblica l’immagine, del tutto privata, che lui aveva, e ha, di lei.

Non è solo logico, ma giusto.

Vedi che, a proposito di quanto di dicevo sullo storghé, l’amore per i fratelli e i compagni d’arme e che io ho esteso alla famiglia, non è una banalità. Il tuo nonno mago è in qualche modo ancora innamorato della sua donna, suppongo, tua nonna, o ne ha comunque un rispetto assoluto, e nutre verso di lei una gratitudine infinita. Spero che imparerai quanto sono importanti e assoluti questi sentimenti. Come possano essere i soli o quasi che riempiono una vita, che la rendano degna di essere vissuta più di ogni altro argomento, più del successo, del danaro, degli ideali, della religione o di tutto ciò che vuoi.

Chissà quanto sarebbe stata felice di vederti tua nonna, la madre del mio amore, di cullarti, di accudirti. Ma credo che in qualche modo ti veda, magari attraverso gli occhi della tua mamma e di tuo nonno, e, soprattutto, che ci sarà chi saprà parlarti di lei, di raccontartela e di fartela amare, anche se di persona non potrai mai conoscerla.

La tua mamma lo farà, stanne certa, alla prima occasione, magari quando le chiederai chi è quella donna ritratta in bianco e nero in quella cornice d’argento in una posa da dopoguerra con un sorriso naturale e due occhi pieni di fiducia e d’amore verso il futuro, che il tuo nonno mago tiene con gelosia e orgoglio sul mobile in sala, una foto che non riesco mai a non guardare quando entro in quella stanza e che confondo sempre con lo sguardo di tua di madre.

Quella foto che la mamma già ti fa osservare quando, passandole davanti ti dice con dolcezza “saluta la nonna”. Te lo dico anche io, ma sicuramente il mio tono di voce non ha la stessa gentilezza, il tepore di quello di tua madre. Ti ripeto, io non ho conosciuto quella donna, ma sento di volerle bene solamente per l’attaccamento che tua madre ha ancora per lei.

Ti racconto una cosa. Il giorno del nostro matrimonio il prete che ha celebrato la cerimonia era un sacerdote simbolo nella nostra cittadina. Non solo il parroco di una delle parrocchie più numerose della città, ma anche il prete che ha coltivato tanti bambini, insegnando loro Religione alle scuole medie. Io non l’avevo mai visto di buon occhio, perché non mi piace che ci sia questa materia nelle scuole, ma questo è un altro discorso.

Sta di fatto che era stato collega, per molti anni, della tua nonna. E durante la cerimonia del matrimonio ha fatto un discorso ricordandone l’immagine professionale, umana, materna e altro. Io mi sentivo sprofondare pensando che quel ritratto avrebbe potuto ferire tua madre e ne fui più convinto quando, guardando, la vidi che stava piangendo con il rischio di rovinare il trucco durato ore di fatica per l’estetista. Poi, a cerimonia finita, le chiesi cosa avesse provato e lei, tua madre, mi disse che era stata lei a chiederlo al prete. In quel momento ho capito cosa avesse voluto dire per lei quella donna, tua nonna, e, soprattutto, quale dramma fosse stato perderla, così all’improvviso, essere privati senza preavviso di una parte della sua vita, di un pezzo del suo corpo in pratica, di una parte indelebile della sua infanzia e giovinezza, quasi le avessero strappato il cuore da sveglia o forse peggio, perché almeno senza cuore cessi di essere anche tu. Solo allora ho capito il valore di quella di quella donna che è stata, anzi che è, tua nonna.

Può sembrarti strano, ma parlandoti della tua nonna scomparsa, ti ho già messo a contatto con la morte o con la sua configurazione. Ma io non ho nessuna intenzione di parlarti di ciò, anche perché non saprei cosa dirti e, soprattutto, per il fatto che tu ancora non sai cosa sia, non puoi neppure immaginarla e questo per molto tempo ancora per tua fortuna. Però prima o poi ti troverai di fronte a queste domande, cosa è la morte? perché si ha paura della morte? Vedi io credo che il vero problema non sia tanto la propria morte, quando si è morti si è morti, quanto come affrontare la morte degli altri. Quando qualcuno scompare se ne va qualcosa che aveva rivestito un significato profondo nel nostro mondo, qualcosa che era per noi fondamentale. Ma è inevitabile. Capita.

Bisogna allora elaborare il lutto, per dirla in termini scientifici, ma non è una cosa facile. Forse dopo un periodo più o meno lungo di tempo impariamo a convivere con quella perdita, ma la nostra realtà, il nostro mondo non sarà più come prima. Soprattutto per noi che viviamo in quest’epoca materialista dove il successo e il potere sono i principi che reggono la vita e dove la morte si nasconde.

Un tempo, per le generazioni prima della mia e, tanto più per quelle precedenti alla tua, la morte era un evento come gli altri, si conviveva con la morte, certo sempre la morte degli altri. Ma tu, come è già accaduto anche a me, non vedrai fino quando sarai adulta un cadavere dal vero, vedrai solo spettacolarizzazioni della morte, immagini televisive. La morte vera, quella ti verrà nascosta e non so se sia un bene, non mi pronuncio.

Tu però ora sei il trionfo della vita. Ti agiti, ridi, canti senza conoscere parole. Sei l’incarnazione della vita, uno spettacolo al quale non avrei mai creduto di poter assistere. E sì che di dubbi ne ho nutriti e non solo per quel che riguardava la possibilità che tu mi avresti cambiato la vita, non solo per egoismo insomma, ma anche per paura di sbagliare.

Vivere è duro, è un’impresa che spesso ti lascia senza fiato e alla quale, a volte, vorresti rinunciare. Perché vedi, amore, la vita è un po’ come i numeri primi. Sono estremamente razionali, logici, ma nessuno sa capirne le regole. E allora può facilmente venire da domandarsi se è giusto o no mettere al mondo un altro essere umano. No, non voglio essere retorico e tirare in ballo la miseria del mondo, le guerre, l’inquinamento, l’ingiustizia ecc.., queste sono cose che ci sono sempre state, sono sempre esistite, in diverse forme e con diversa intensità a seconda delle epoche e dei luoghi, e ci saranno sempre.

Tutto il nostro progresso ha forse abolito la povertà? No, ne ha creata di nuova. Ha abolito la malattia? In parte, ma non ha distribuito quei benefici in maniera equa e poi, guarda piccola, ancora in alcuni momenti c’è chi grida alla malattia mandata da dio per punire l’umanità dei propri peccati, come successe nei primi anni Ottanta con l’AIDS, proprio come con la peste nera del Trecento o quella tanto ben descritta da uno dei miei autori meno preferiti, certo Alessandro Manzoni. Se ci si dovesse domandare sulla giustezza di mettere al mondo un figlio per queste paure l’umanità sarebbe finita da un pezzo, sarebbe stata una perfetta auto estinzione.

Non sono questi i timori che mi tormentarono.

Non è questo il problema.

Ma, mi verrebbe da domandarmi, che diritto ho io di creare un’eventuale infelicità? Tutti e nessuno, e siamo da capo. Potresti domandarmi “Come è stata la tua vita? È stata dignitosa?”. Probabilmente lo è stata o, per lo meno, a fasi alterne. Un’infanzia tutto sommato serena, senza problemi di ordine economico o altro. Un’adolescenza da schifo, non per problemi economici, sai si era nella grande crisi degli anni Settanta, un po’ meno profonda dell’attuale, anche se più appariscente. Forse perché i politici allora, pur nella corruzione dilagante, una posizione abbastanza netta la sapevano prendere. Ti racconterò prima o poi di quando la domenica le auto non potevano circolare e si andava in bicicletta senza nessuna paura, in piena libertà.

Si può soffrire anche per cause differenti dalla povertà o dalla guerra. È una sofferenza diversa, forse di secondo grado, ma ti garantisco che può portare all’autodistruzione. Non ti voglio annoiare con le cause di quella parentesi di infelicità che ha velato la mia crescita, diciamo che all’epoca non c’è stato chi, come tu ora, mi ha teso le mani sporgendosi oltre il proprio orizzonte, come fai tu lanciandoti al ti là del limite del seggiolone, per farmi sentire quella fiducia totale che non m’è stata mai data o chiesta.

Ci fu poi una giovinezza con alti e bassi. L’università, il militare, il lavoro precario. Amori disperati, amori occasionali, amori sfruttati. Affetti a volte rubati, grida di rabbia e rissate senza senso con le dee moda e musica nella testa e la tendenza sempre all’esagerazione, alla trasgressione. Erano gli anni Ottanta. Se non eri out non eri in, il normale era bandito. Tutte cazzate, credimi.

La maturità, chiamiamola così, il posto fisso da buona mentalità italiana, i successi e gli insuccessi letterari, la noia, il lavoro che ti assilla e ti aliena (non credere a chi ti dirà che il lavoro nobilita l’uomo, il lavoro, a meno che non sia uno di quelli molto particolari, è solamente una necessità), gli amori di nuovo ecc.. Di nuovo alti e bassi, finché non è ricomparsa tua madre nella vita e poi sei arrivata tu. E allora tutto il resto ha perduto il proprio significato ed è diventato solo un percorso che mi ha portato a te. “Ecco”, dirai, “ti sei tradito. Forse ciò che mancava ero proprio io. E per me, probabilmente, sarà lo stesso e anche solamente questo ti autorizza a pensare che è stato giusto avermi messo al mondo”.

Fregato, lo ammetto.

Mi guardi serena. Accenni un sorriso che si trasforma rapidamente in una risata a bocca aperta, sembri la “rana dalla bocca larga”, mentre il tuo busto si butta all’indietro dentro il box e cadi, non sei proprio ancora capace di reggerti seduta, ma non ti lamenti, anzi continui a ridere afferrando un bugatto di peluche che rappresenta un elefante viola.

Te lo porti in bocca, lo succhi, poi lo scagli via da te. È stato solo un momento nella tua vita che neppure ti ricorderai, ma che sarà indelebile nella mia memoria, quel tuo sorriso rivolto a me, quella tua risata di complicità nei miei confronti. Perché vedi, sono sempre più convinto che tu non ricorderai quasi nulla di questi meravigliosi periodi, e se, per caso, dovessero sostituire il babbo con un altro babbo, non ne soffriresti troppo, o per nulla. Al contrario io potrei morirne, come se mi staccassero un polmone senza nessuna anestesia. Sei diventata una parte indiscutibile di me, un arto, un lobo mentale, il fondamento del mio “essere”.

Ma torniamo in palla.

A proposito dei casi della vita, la maggior parte dei regali che hai avuto per la nascita e poi per il battesimo, rappresentano elefanti. Di legno con le orecchie che si muovono, di peluche di ogni colore, stampati sul cuscino, sulla coperta, perfino lo zainetto con cui andrai all’asilo è in forma di elefante. Forse è il tuo animale protettore o forse in una vita precedente eri uno splendido elefante o, più probabilmente, una patriarca, anche se il tuo carattere pacifico non sembra confermarlo.

Certo, hai già un caratterino da guardarsi attorno. Pretendi, ti incazzi se non ti si dà ciò che vuoi. Fai già le tue scelte. E per carità se il babbo o la mamma ti danno la coperta sbagliata da ciucciare, se il giocattolo non è quello giusto, se la posizione del biberon non ha l’inclinazione esatta, per non parlare di quando ti si mette sul fasciatoio! Scatti da vederti volare per un metro e mezzo da terra, magari proprio nel momento in cui siamo più indifesi, mentre ti mettiamo la pomata nel culetto.

Ma sei anche molto dolce. Per esempio quando fai ragnetto con la tua mamma o con il tuo babbo. Piangi nel lettone e cerchi di arrancare verso uno dei due e non ti calmi, finché non ti si prende e posa sul supina sul torace del babbo. Allora stringi con le braccia il costato e con le ginocchia il giro vita. Sembri proprio un ragnetto avvinghiato alla ragnatela o, chissà, alla propria preda. Posi il tuo faccino sull’incavo del collo e, dopo un bellissimo sospiro, ti addormenti.

Sensazioni indescrivibili se non sono state vissute.

Ti guardi attorno senza dimostrare nessuna perplessità. Non è sempre stato così. Quando abbiamo lasciato casa del nonno non riuscivi a credere che questa sarebbe stata la tua nuova dimora. Ti guardavi stupita attorno, perplessa, studiavi a lungo gli oggetti, le luci, i nostri movimenti nella stanza. Non dormivi la notte, cosa stranissima per una come te che ha sempre dormito tranquilla fin dai suoi primi mesi.

Anche quando sei entrata per la prima volta nel mio studio, stanza per te bandita a causa del fumo di sigarette, benché avessi attraversato solamente un corridoio l’hai guardato come se fosse un altro universo. Si rimane attaccati alla propria dimora, è inutile, è l’involucro in cui sei cresciuta e crescerai.

Mi affascini. La tua voglia di conoscenza mi allibisce. Ho sempre creduto di essere una persona avida del sapere. Magari settario, ma insaziabile per quel che riguarda il conoscere. E ora mi rendo conto che confronto te sono solo un dilettante. Tu carpisci ogni cosa, ogni movimento, ogni cambiamento che ti si verifica attorno. Sei una carta assorbente, i tuoi occhi sono carta assorbente, pronti a ricevere tutto ciò che è nuovo. E ad accettare il nuovo senza rimpianti o pentimenti. Forse non hai ancora il metro del giudizio. Ben per te. Dopotutto è così difficile stabilire cosa è giusto o sbagliato. Non è un tuo problema. Non ancora almeno.

Per questo sei bella oltre ogni giudizio. Sì, lo so, già pensi. Fai già delle scelte. Pretendi e ti imponi. Così piccola, eppure sai come ottenere ciò che vuoi. Assomigli a tua madre nel carattere e ne sono contento. Non del tutto in vero, ma preferisco comunque il suo al mio. Io sono debole, mi abbandono al caso, attendo. Tua madre sa andare avanti, affronta la contemporaneità. Non si arrende facilmente, non si lascia al destino. Calcola, programma e quando non lo fa è solo perché il danno, per lo più sentimentale, sarebbe troppo grande.

Descriverti tua madre? Questo mi domandi? Cercherò di affrontare l’impresa. Anche se, in più punti, l’ho già fatto. Intanto è una donna, come te, e ha tutti i difetti delle donne. Certo come io ho tutti quelli degli uomini, ma vedi, è sempre più facile rendersi conto dei difetti degli altri. È dolce, tranne quando s’incazza e di ciò dovrai farne le spese anche tu, stanne certa. La testardaggine è poi una sua caratteristica, difficilmente ammetterebbe di avere sbagliato, anche davanti all’evidenza, non parliamo poi se si tratta di idee politiche, sociali o religiose, la sua, le sue sono certamente quelle giuste, non si discute.

Poi sa farsi perdonare tutto e bene, nel senso che lo fa a ragione. È molto razionale, a volte oserei dire troppo, ma non si lascia sfuggire nulla, calcola e calcola bene. Certamente è molto buona, non riuscirebbe a far male a una mosca ed è sempre stata disposta a sacrificarsi per tutti. E poi basta, probabilmente conosci molto meglio tua madre tu che io. Non ho succhiato il suo latte io, non mi ha preso in braccio consolandomi al minimo vagito, non mi conforta al più piccolo disamore, non va in paranoia per me alle prime linee di febbre, non mi cambia il pannolino sporco e puzzolente. Certo sono cose che faccio anche io nei tuoi confronti, a parte il latte, ma hai un’espressione particolare quando la protagonista è tua madre. Non sai che dolcezza e che invidia susciti in me quando ti allatta e tu poni la tua manina sul suo seno, dolce e violenta al tempo stesso, quasi volessi ringraziarla e, nel medesimo momento, pompare più latte dalla tetta comprimendola.

Ma si parlava prima di luoghi, come la casa in cui si cresce. Quella in cui sono cresciuto io, ad esempio, rimane nella mia memoria come un luogo mitico, unico. È una grande casa, molto grande, anche se un po’ fredda in inverno, troppi marmi e troppe finestre, secondo, d’altronde, l’idea architettonica degli anni Sessanta del secolo scorso, pieno boom economico, nessun problema di riscaldamento. Diversa la situazione oggi.

Attorno ha un parco in cui sono sempre scorazzati due, tre, quattro cagnoni. Ti ricordi il dalmata, Birillo, che ti affascina ogni volta che si pranza dal nonno? Potresti stare ore affacciata alla finestra mentre lui da fuori pone le sue zampe sul davanzale e ti guarda e, caso unico per un cane, ti sorride. Dici “Pei” quando lo osservi, che il tuo modo di dire “Bello”. Poi hai cominciato a chiamarlo “Bau”. È uno di quelli.

È la dimora in cui il tuo babbo ha sofferto molto, ha dovuto assorbire scenate, momenti drammatici. Le mani chiuse a mo’ di cuffia sulle orecchie per non sentire le grida. E le fughe ogni volta che stava per scoppiare la rissa, fughe in bagno o nella stanza più lontana, la camera o il garage. E poi i tentativi di riconciliazione, gli inutili appelli. No, non è stata una fanciullezza facile.

Ma è anche il luogo dove tutte le sue fantasie sono cresciute, si sono sviluppate. Lì vivono i tuoi nonni, sono vissuti i tuoi zii, sono vissuti i tuoi bisnonni. E chissà i tuoi bisnonni cosa avrebbero dato per poterti vedere, per potere solamente farti una carezza o chiamarti per nome.

Credo di doverti dire qualcosa in proposito, perché non penso che tu conoscerai fino in fondo i tuoi nonni, non riuscirai, anche se mi auguro il contrario, a crescere con loro, e qualcosa della vecchiaia devi sapere.

Per molto tempo, per secoli, la vecchiaia è stata il simbolo della saggezza. È chiaro che ciò non è sempre vero, anche se l’esperienza è un bene al quale non si può, non si deve rinunciare. Ma questo far ricorso al “savio” che la terza età destava negli uomini era già un riconoscimento del suo valore intrinseco. Dopotutto quei vecchi sono persone che hanno lottato anche per te, e prima per noi, pure se vogliamo ignorarlo.

Oggi è considerata come una malattia grave la vecchiaia e dalla quale dobbiamo fuggire, quasi potesse contaminarci come un virus subdolo ed incontrollabile. “Il mito dell’eterna giovinezza c’è sempre stato e sempre ci sarà”, dirai. Ed è vero, ma c’è modo e modo di considerarlo. I nostri vecchi, vedi, sono una cosa preziosa. Anzi, non una cosa, ma persone preziose. Il mondo non capisce quale valore abbiano. Purtroppo. E così li isolano, emarginano. I vecchi, e chiamiamoli così, con il loro nome, senza falsità, sono la storia del futuro. Tu se avrai la fortuna di conoscere vecchi che ti vogliono bene, e l’avrai perché i tuoi cugini hanno al massimo trentanove anni più di te e anche tuo zio ha la stessa età, conservali, fidati, non abbandonarli mai. Non c’è peggiore malattia per una persona anziana che sentirsi sola, derisa, lasciata al proprio destino. Pensare che tutto ciò che hanno investito, non solo in soldi e tempo, ma soprattutto in affetto ed amore, è andato perduto, è stato alla fine inutile, perché chi ne ha usufruito non ha capito o non vuole capirne nulla.

Per questo dovrai imparare a capire e ad amare i loro gesti, le loro parole, gli attimi di sconforto e le prese di posizione intransigenti. Non pensare mai che non capiscono perché il loro tempo è passato. Capiscono, ma in maniera differente a volte e dovrai essere tu a trovare il giusto tono, l’esatto piano del confronto. Ma non compatirli o sottovalutarli, non metterti mai nella condizione di doverti sentire dire “te lo avevo detto”. È la cosa peggiore, il seme della discordia. Non esiste una verità o un parere assoluto. Sarò novecentesco, ma lo credo fermamente.

Oggi hai il febbrone. Viaggi da stamattina sui trentanove, trentanove e mezzo. Hai fatto prendere al tuo babbo uno spavento allucinante. Non credo di avere avuto mai tanta paura, tanto panico, tanta angoscia in vita mia. Mai mi sono sentito così inutile e impotente. Altre volte hai avuto la febbre, per esempio quando ti hanno vaccinata o un’altra influenza, troppo frequenti da quando vai all’asilo. Ma mai come oggi.

Ti racconto la storia.

Sabato, il babbo era andato al lavoro ed era tornato a casa per pranzo. Tu stavi già male da un paio di giorni, frebbricina, e il nonno in camice ti aveva visitato tutti i giorni. Nulla di preoccupante. La mamma aveva passato tutta la mattina con te, curandoti, accudendoti e facendo tutto quello che fosse indispensabile per te. Abbiamo mangiato, la mamma aveva preparato uno stupendo piatto di pasta al tonno, cibo molto gradito dal babbo, poi ci siamo seduti sul divano con te in braccio che giocavi con Mister Been. Stavi bene, dopotutto avevi solo trentasette e mezzo di febbre.

Ti sei addormentata come “La bella addormentata nel bosco”, eri magnifica, con gli occhini chiusi e le ciglia lunghe che sembravano spazzolare le guance, il volto sereno, disteso e quella bocca con le labbra appena pronunciate a mo’ di bacio, rosse e semichiuse che sembravano dipinte, una figura sensuale, quasi come certi ritratti di Tranquillo Cremona.

Non avrai certo bisogno di silicone tu in un lontano futuro.

Il corpicino abbandonato e le manine che stringevano al petto la tua coperta preferita, quella che hai sostituito al ciuccio e che non abbandoni praticamente mai.

Un sonno profondo, totale, quasi che Morfeo ti avesse preso tra le sue braccia e coccolata dolcemente in una ninna nanna acquatica, lenta, dolce e imprevista. Il babbo ne era molto contento, poteva finalmente lavorare senza problemi. Sai è difficile scrivere, studiare, o solamente leggere con un bambino in braccio. O anche con un infante che ti guarda e chiede di giocare, di avere attenzione. Nel novantanove virgola novantanove per cento delle volte, lasci il lavoro e soddisfi il bimbo.

Gli occhini che domandano conforto, accoglimento. I gesti che sembrano votati solamente ad avere ospitalità. Insomma hai bisogno di tutte le attenzioni e se non te le si dà, le pretendi. È impossibile lavorare in queste condizioni, a volte mi verrebbe voglia di darti un valium e metterti a dormire, ma è solo un pensiero stupido e fuggente. Il babbo viene ad accoglierti e a giocare con te, sempre, ogni volta che vuoi. Non lo crederesti mai, ma sei il numero uno assoluto nelle priorità di mamma e babbo. Di nonni, zii ecc..

Insomma, ad un certo punto ti sei normalmente svegliata. Hai fatto il consueto lamento di richiamo e il babbo è venuto a raccoglierti dal tuo “pagliericcio”. Eri strana piccola. Mi guardavi, non giocavi e non cantavi, non gorgheggiavi. Piuttosto emettevi un pianto strozzato, quasi limitato da qualcosa che era più forte di te.

Bè, strano. Non era certo il tuo modo consueto di essere. Non eri proprio la mia bambina abituale. E certo non mi sembravi posseduta da qualche entità esterna o soprannaturale. Ho cominciato a pensare.

Ma non capivo.

Pensai fosse il bisogno di cambiarti, che tu avessi delle caccone lente incredibili che ti stessero ustionando il culetto, e così ti ho cambiato. Ho visto, in effetti, una caccona biblica nel pannolino e mi sono convinto di avere ragione. Certezza che è durata qualche secondo.

Vedi, quando ti cambiamo tu ridi sempre come una matta. Ti piace sentirti nuda e sei contenta quando ti passiamo la salvietta bagnata o ti laviamo dalle caccone con l’acqua tiepida. Ridi nel sentire la pomata spalmata sulla passarina e sul culetto. E poi ci sono i giochi, mamma che ti bacia i piedini o la pancia nuda, che ti solleva per le manine a sedere e ti fa vedere come è bello il mondo visto dall’alto.

Tu invece continuavi a lamentarti, eri scontenta, un pianto sottile da malessere, come un coro di rimpianto di una tragedia greca.

Solamente a quel punto al babbo idiota è venuto in mente di posarti le labbra sulla fronte. Brace.

Non avevo mai sentito, percepito sulle mie labbra un calore del genere. Mi sono allarmato, ma, in sincerità, neppure tanto. “Un po’ di febbre”, mi son detto, dopotutto è il periodo, c’è un sacco di influenza in giro. Poi ho avuto l’accortezza di piazzarti il termometro sotto l’ascella. Cosa che tu odi. Non so perché, ma non la sopporti. Quando ti si mette il termometro o ti si allaccia o slaccia il bavaglino ti incazzi come una bestia. Ripeto, non so perché. Questa volta, però, non reagivi, l’hai accettato senza indugio.

Il termometro maledetto. Uno strumento necessario, fondamentale, e creatore di tante ansie. Non si può descrivere cosa si prova a misurare la febbre ad un figlio così piccolo. Anche se il tempo necessario sono solo uno, due o tre minuti a seconda del termometro. Sono secondi interminabili, attimi che potrebbero valere anni della tua vita. Quella linea di mercurio che sale inesorabile è come una spada di Damocle sulla tua testa, qualcosa che ti logora dentro.

Bé, avevi trentanove e mezzo di temperatura. Fu panico totale. Non sapevo assolutamente cosa fare. Vedi tua madre, sfiga tra le sfighe, come ogni sabato era libera dal lavoro. Ma proprio quel sabato l’allarme della banca della quale è responsabile era scattato. E lei era dovuta correre, assieme a tecnico e carabinieri, per ripristinarlo. In pratica, il tuo babbo era solo con te, e con il proprio panico.

Immediatamente ho chiamato la mamma che ha piantato tutto lì ed è corsa a casa. Poi al nonno con lo stetoscopio. Gli ho descritto per telefono i tuoi sintomi meglio che potevo e lui mi ha detto di stare calmo, che era una normale influenza, di darti la tachipirina e tenerti il ghiaccio sulla fronte. Dopotutto ti aveva controllato solamente il giorno precedente.

Ti domanderai perché il nonno non è corso a visitarti e soccorrerti. Non è molto che il nonno ha rotto il femore mentre cercava di prendere di mira una palomba. Grande passione la caccia per lui. È rotolato giù per un greppo e si è fratturato il femore, che è poi l’osso della gamba che collega il ginocchio all’anca, e alla sua età non è cosa da poco. Un tempo, non troppi anni fa, si poteva morire per questo danno. È ciò che è capitato al tuo bisnonno. Cammina ancora a fatica e tanto meno può guidare e in quel momento non c’era nessuno che potesse traghettarlo per i cinque chilometri che separano casa sua dalla nostra.

Così ti ho stesa sul divano, ti ho tolto quanti più abiti potevo per farti raffreddare senza che tu prendessi freddo. Le gocce di tachipirina scendevano troppo lentamente sul cucchiaio e ogni volta che una cadeva sembrava pesare una tonnellata. La mano tremava e temevo che avrei potuto rovesciare la medicina sul pavimento. Avevo la stessa sensazione, la stessa dedizione di quando da piccolo giocavo con il piccolo chimico. Ponderare tutte le dosi, essere attento alle proporzioni. Ma questa volta non c’era in gioco una reazione sbagliata, c’eri tu. Ed avevo una paura folle di sbagliare, di farti, senza volerlo, del male. Poi mi sono deciso, stavi troppo male, e ho dosato la soluzione. Dopo avertela versata in bocca ti ho messo del ghiaccio sulla fronte. Non hai obiettato tanto eri cotta.

Gli occhi lucidi e quasi spenti al tempo stesso, le sopracciglia inarcate all’indietro, la bocca contorta in uno strano spasmo. Emettevi un lamento costante e fievole, quasi un canto gregoriano al rallentatore, come se non avessi la forza di piangere, intervallato da colpi di tosse. Ero disperato, avrei voluto fumare, ma per farlo sarei dovuto andare nello studio per evitare di inquinarti l’aria e non avevo il coraggio di lasciarti sola, mentre la mia mente aveva cominciato a girare da sola e a formulare solamente un pensiero:

“per favore le convulsioni no!”.

Ero terrorizzato che tu potessi averne a causa della febbre così alta. Una paranoia assoluta. Giravo per la stanza e, dopo pochi secondi, tornavo da te e ti guardavo, ti tiravo su le palpebre e osservavo la pupilla, ti aprivo la bocca per vedere se c’era bava, cercavo di farti reagire e reagivi normalmente. Tutte cazzate con il senno di poi.

E poi, dopotutto, avrei saputo come intervenire nel caso fosse accaduto, ci ho convissuto con le crisi epilettiche di tua nonna, conseguenza dell’intervello al cervello che aveva subito. Tanto tempo fa, avrò avuto dieci, undici anni, la nonna ne ha avuta una improvvisa in cucina e il nonno non era in casa, c’eravamo solo la tua bisnonna materna ed io. Il telefono non andava, qualche cretino aveva lasciato sollevato il ricevitore dall’altro capo del cavo. I cellulari erano ancora fantascienza. Dopo aver steso la nonna per terra lasciata alle cure della tua bisnonna, il tuo babbo è scattato come un centometrista e ha percorso il chilometro e mezzo che lo separavano dallo studio del babbo per avvertirlo, fiato in gola, stomaco che si ribalta, ma missione raggiunta. Vedi che so fronteggiare le emergenze dopo tutto!

Comunque mi ripetevo costantemente le procedure di soccorso. Sollevarti, il dito in bocca e poi un tovagliolo o un cucchiaio per evitare l’ingoiamento della lingua e relativo soffocamento, avvolgerti in una coperta e di corsa all’ospedale. Continuavo a ripetermi mentalmente la prassi, con ossessione. Poi mi sono reso conto di non avere in casa i clisterini di diazepam. Il nonno in camice mi aveva detto di comprarli per ogni evenienza, ma me ne ero dimenticato.

“Per favore no!”, recitava la mia mente, con ossessione paranoica.

Tua madre è entrata. Sul suo viso si leggevano solamente ansia e spavento. È corsa da te e i suoi occhi azzurri sono diventati trasparenti inumiditi dal cristallino delle lacrime. Ho cercato di calmarla, di mostrarmi freddo e sicuro, le ho detto quello che tuo nonno mi aveva riferito. Era terrorizzata, voleva chiamare l’ambulanza, ma, al tempo stesso, si ripeteva le parole del nonno del quale ha una fiducia totale. Dopotutto è stato il medico suo, dei suoi fratelli, dei suoi nipoti e tutti i suoi amici.

Poi la febbre è cominciata a calare. Lentamente. Troppo lentamente, per i miei gusti, e non di molto, un grado, un grado e mezzo. Però tu ti sei ripresa, hai cominciato a sorridere, a emettere dei suoni graziosi e a giocare.  Pericolo scongiurato.

Mi sono sentito svuotato, come dopo una grande fatica, come dopo una corsa che ti lascia senza fiato. Avevo un disperato bisogno di fumare e di bere, ma il fumo delle sigarette mi raschiava la gola e l’acqua scendeva lungo l’esofago e formava uno strano rigurgito, ma non importava, acqua, ancora acqua, come se avessi appena concluso la maratona di New York. Mi sarei aggrappato ad una bottiglia di grappa se non fosse per la paura di peggiorare la situazione.

Tua madre si è rigenerata augurandosi di non dovere più sottostare ad uno stress simile. Povera illusa. Però intuisco cosa abbia provato. Per lei deve essere stato come se qualcuno le succhiasse lentamente la vita, allo stesso modo in cui tu succhiavi il latte dal suo seno. Uno stillicidio lento, durato un’ora o poco più, anche se sembrava essere passato un secolo.

E così anche oggi hai il febbrone, ma il babbo è più tranquillo e anche la mamma. Il nonno ti ha visitato ogni giorno e dice che non c’è da preoccuparsi e poi anche noi abbiamo imparato a controllarci di più e poi metà famiglia è venuta ad accudirti, lo zio, la zia, il nonno col camice e il nonno mago.

Do not worry: ho comprato il diazepam e credo che se mai, speriamo di no, dovesse accadere qualcosa vorrà dire che se ne farà una dose anche il babbo mentre ti soccorre.

Chiaramente tu ancora non puoi saperlo, ma abiti in una città molto bella. Piccola, ma bella. Dicono una della più belle d’Italia. Naturalmente esagerano, ma è decisamente una cittadina dal fascino eccezionale, specialmente per chi non ci vive. Stai tranquilla non starò qui a raccontarti la sua gloriosa storia, la pur parziale gloriosa storia, perché si tratta di una parentesi brevissima a confronto di altre città altrettanto piccole o che piccole erano all’inizio e sono poi diventate città importanti.

Non ti annoierò neppure con le gesta del suo più famoso duca, ti faranno “due palle così” con queste storie, per tutta la vita, vedrai continuamente la sua brutta faccia con il naso tagliato stampata su ogni suppellettile e solo perché c’è stato un pittore geniale che l’ha saputa rendere immortale dal punto di vista estetico. E neppure mi spellerò le dita sui tasti per esaltarti l’opera dei suoi due più grandi artisti, quello bravo con il pennello e quello bravo con la penna che, sarà un caso, ma appena hanno potuto si son presi la licenza di prendere “la strada per Roma”, insomma di andarsene. Ti auguro di fare altrettanto.

Anche perché è una città bina. Forse come tutte le altre, certo, ma è questa che io ho vissuto e dico “ho”, per il fatto che ormai mi sono rassegnato a non viverla più. Una piccola città costituita per lo più da statali o dipendenti dell’università. Pochi imprenditori, pochi professionisti e forse per questo risulta avere un reddito pro capite alto, ci abitano in prevalenza uomini e donne che le tasse le pagano per forza essendo dipendenti. Poco più di un paesetto tranquillo dove non accade mai nulla, anche se il tuo babbo ci ha ambientato storie di Killer o giù di lì.

Eppure questa città è doppia. Per il fatto che esiste un’altra città, un’altra popolazione. Quella degli studenti che, a ragione, fanno la propria vita e che è un’esistenza diversa da quella degli indigeni. Sono due mondi distanti, completamente differenti, che si scontrano e, al tempo stesso, devono tollerarsi per forza, con un vantaggio degli studenti che sono la linfa vitale di una città che non ha saputo svilupparsi e non ha nulla oltre l’università. Industrie? Imprese? Idee innovative? Perché sprecare energie se c’è già chi ti dà da mangiare? Pacchia arrivata al limite.  E tutto ciò rende la vita molto semplice, ma anche molto stressante e, soprattutto, in bilico.

Poi è un luogo dove tutti, o quasi tutti, si conoscono, per cui c’è un gran parlare, un gran vociferare (nel nostro vernacolo si dice “sbecerare”), e via su di quello o di questo. Potrai trovarti in un bar, o in qualsiasi posto pubblico, presa da una discussione su un tale o un tal altro. I suoi difetti, le sue amanti o i suoi amanti, indifferentemente che siano donne o uomini i soggetti degni di attenzione, i soldi che ha ladrato al Comune o alla Regione. Poi se l’imputato della discussione appare, credimi, saranno tutti ossequi per lui o lei, grandi complimenti, finché non avrà voltato le spalle e si sarà allontanato di almeno dieci metri. Allora ricominceranno i bla, bla, e ti andrà bene che nella compagnia non ci sia qualche suo affiliato stronzo e carogna che andrà a riferirgli tutto, nomi e cognomi compresi naturalmente.

Ma non è di questo che volevo informarti.

Mi piacerebbe invece parlarti di alcuni luoghi, pochi, che sono stati importanti nella vita di tuo padre e che non lo saranno nelle tua, perché ormai la città è cambiata, quella che io chiamo la città, cioè il centro storico, è solo un luogo burocratico, se vuoi ridere chiamala “city”. È vuoto, triste, ben tenuto, ma asettico e dove la vista di un bambino, tolta l’ora dell’uscita di scuola, ma rapidamente anche in quella, è una visione beneficatoria come un’oasi in pieno deserto.

Una strada, in salita o discesa, come preferisci. Valbona, oggi si chiama via Mazzini, ma per me rimane Valbona, non sono mai stato incline a celebrazioni nazionali. Ora è solo una squallida strada poco praticabile con negozi più o meno alla moda, ma un tempo era un vero e proprio rione. Il tuo babbo ci ha passato almeno dieci anni della propria vita.

Anche tu l’hai già percorsa diverse volte nei due sensi, questa estate, dentro la carrozzina con il babbo o la mamma a turno che sudavano per spingerti su o per trattenerti onde evitare che te la facessi di corsa fino all’arco con l’aquila, come un tempo accadeva durante la corsa dei birocci. E non erano pochi quelli che si schiantavano sui muri delle case o, appunto, sull’arco finale o sulla fontana a destra di questo dove il tuo babbo era solito dissetarsi dopo una corsa a guardie e ladri o una battaglia con gli stoppacci.

Sono cose e giochi che tu probabilmente non conoscerai mai e non perché sei una bambina ed erano quelli intrattenimenti da maschi, ma piuttosto perché sarai avvolta nei rivoli dei colori e dei suoni di splendidi video games, che il babbo ha conosciuto solo da adolescente e ci si è poi appassionato, o riuscirai a perderti in mondi virtuali dove la tua identità sarà solo un gioco, un mondo mitico senza storia, senza parole o immagini eroiche, una falsa identità fatta su misura per immaginare, neppure per sperare, di essere ciò che non sarai mai, e non potrai mai essere.

Questa lunga strada è contornata da diversi vicoli che si inerpicano su per la collina. Erano i luoghi dei miei giochi d’infanzia, nascondigli, tane, e sopra la pineta con i suoi segreti e dove si poteva andare solo accompagnati dai grandi, genitori o zii, perché lì si potevano incontrare coppiette intente nei loro giochi da adulti.

Il Pianello proprio dietro casa dei tuoi bisnonni e dove anche il babbo ha abitato per un periodo, prima di trasferirsi nell’antico Ghetto ebraico, sempre lungo Valbona, e dove alcuni bulletti in tono minore rispetto ad oggi, dettavano le loro leggi. Erano tempi da pantaloni corti al ginocchio anche d’inverno, il tempo delle slitte di legno, per i più fortunati, e dei sacchetti di plastica sotto il culo giù per la rampicata della Pineta dove qualche ragazzo più grande aveva disegnato una pista sulla neve con tanto di trampolino per un breve salto.

A volte, piccola mia, quei tempi si rivestono di un alone mitico che comprende un po’ tutto, i sapori, come quello della neve con il vino, o del pane bagnato con acqua di rubinetto e cosparso poi di zucchero, della fetta di pane appena abbrustolita sul fuoco e poi irrorata di olio di oliva e un po’ di sale e un po’ di pepe. Poco pepe per i bambini. E poi delle castagnole o della crescia appena sfornate dalla tua bisnonna. Ma non era in realtà tutto roseo. Vi era povertà, più evidente di quella di oggi, ma forse meno drammatica, meno devastante. C’erano lungo quella strada diverse osterie e uomini che si trascinavano già nel primo pomeriggio contro i muri, mentre le mogli li aspettavano a casa a volte in ansia, temendo le loro razioni violente verso di loro o dei figli.

(Ma ti guardo, distraendomi dai miei pensieri per un attimo, e mi domando, chissà cosa vuol dire per te quella coperta rosa che ti porti sempre alla bocca e con la quale ti addormenti?  Succhi e poi piano piano i tuoi occhi si socchiudono prima, poi si sigillano e guai a cercare di toglierti la coperta rosa, subito ti svegli lamentandoti. Gli psicologi ci dicono che è un sostituto al seno materno essendo tu in piena fase orale. Forse, quello che so è che il tuo babbo ha avuto come te il proprio straccetto da succhiare, e doveva essere quello, e se l’è tenuto fino i quattro o cinque anni. Poi l’ha sostituito con un cagnone di peluche più alto di lui. Doveva essere un bracco, ricordo le orecchie pendenti che arrivavano fino a terra).

Mi appare poi strano pensare che il luogo prediletto a quei tempi per i giochi sia divenuto la parte più importante della città. Quello spiazzo, anzi quella piazza compresa tra l’entrata del Palazzo Ducale e la Cattedrale. Certo si giocava lì perché spesso e non solo di domenica, si frequentava l’oratorio, con il ping pong, il bigliardino, un nugolo di ragazzini e ragazzine e il pannocciato all’uvetta che il parroco distribuiva per merenda. Quelle suore nere che nelle stanze disintonacate della curia e sui banchi traballanti, passavano pomeriggi cercando di inculcarci il senso del peccato, l’orrore per il corpo, proprio e degli altri, fantasie su orchi demoniaci che vestivano di rosso tagliavano le mani ai bambini con la falce per poi inchiodarle con il loro martello sulle porte e, soprattutto, non credevano in Gesù. Forse ascoltavamo, almeno i primi dieci minuti, poi le gambe cominciavano a fremere attendendo il momento di poter cominciare a giocare o uscire sulla piazza per la partita di pallone.

Era un luogo ideale quello spiazzo, un vero e proprio campo da calcio. A destra il piccolo porticato che conduceva alle grotte del duomo, a sinistra i grandi portali del Palazzo Ducale. Quindi le due porte da calcio erano già sistemate perfettamente l’una davanti all’altra. Le squadre sempre scelte con le “Kappe”, per cui alla fine ce n’era una nettamente superiore all’altra, il lastricato disconnesso su cui ognuno di noi ha lasciato diversi centimetri di pelle, i guardiani del Palazzo che s’incazzavano perché davamo fastidio ai turisti, che poi ai tempi erano molto pochi, e il pericolo sempre in agguato dei vigili municipali.

Inutile dire che era vietato giocare a calcio in quel luogo. Ma le guardie, così chiamavamo i vigili urbani, o la polizia municipale, chiamala come vuoi, chiudevano un occhio, dopotutto anche loro ci avevano giocato lì, finché un guardiano del palazzo o un negoziante di souvenir non si scocciava e telefonava in comando per denunciare l’orrendo misfatto.

A quel punto un vigile saliva lentamente dalla piazza lungo il corso, qualcuno di noi vedeva spuntare il berretto bianco e dato l’allarme si fuggiva con il pallone sotto braccio. C’erano due via di fuga, le scalette che portano al Teatro, quelle che percorreva il già citato Duca con il cavallo per recarsi nella propria dimora, o la fuga prospettica di Piazza Rinascimento in leggera salita, ma abbastanza ampia da scartare un vigile non proprio giovanissimo e magari con qualche chilo di troppo.

Naturalmente se accadeva che la caccia dei vigili andasse a buon fine e uno di noi o più venivano fermati non succedeva nulla di grave. Una tirata d’orecchie, una predica, la minaccia di essere riconosciuti (ma ci si conosceva tutti) e relativa spia ai genitori. Ma la condanna più grossa era il sequestro del pallone. Un vero dramma, ci sarebbero voluti giorni per organizzare la colletta e disporre dei soldi necessari per comprarne un altro. Non che la maggior parte di noi non avessero la possibilità di domandare ai genitori di comprarne uno personale, probabilmente a casa tutti ne avevamo uno, ma era un rito, il pallone doveva essere di tutti. Palloni di plastica da quattro soldi, leggerissimi, che bastava una brezza leggera a far volare o cambiare direzione dopo un tiro o un rinvio.

Palloni che sembravano palloncini. A rombi bianchi e neri, proprio come quelli con cui giocava la Nazionale. Sfere di plastica gonfia che ti facevano sentire il centravanti della squadra di punta quando riuscivi a segnare, a sbattere quella palla piena d’aria contro il portone rigido ed austero del Palazzo o farla penetrare oltre il porticato adiacente al Duomo. Era un trionfo e sberleffi infiniti per la squadra avversaria, almeno fino al momento in cui anche lei segnava un gol alla tua.

Un altro ricordo mi lega a quei momenti. Quando di domenica, dopo la funzione ed il catechismo, proprio mentre stavamo giocando a calcio, arrivava una mercedes bianca che si annunciava con il suono smoderato del clacson. Tipo il casino che faceva Gassman ne “Il sorpasso” lungo le strade dell’Italia del boom. Era un segnale inequivocabile, lo zio e la zia venivano a prendermi. “Che c’è d’eccezionale” dirai “eri un ragazzino di dodici, tredici anni! Qualcuno doveva scarrozzarti.” Forse è così, ma quell’apparizione poteva dire solamente una cosa: si andava a Cesena o a Bologna a vedere giocare l’Inter. Un’emozione incredibile.

Già lo stare in quella macchina con l’odore di pelle dei sedili, larghi come un letto matrimoniale e sull’autostrada ad una velocità che oggi costerebbe un occhio in multe e punti detratti alla patente. Non erano situazioni normali, era, per me a quell’età, toccare il cielo con un dito. E poi lo stadio. Lo stadio di Bologna soprattutto. Quel catino immenso, ai miei occhi di allora, riempito di quanta più gente avessi mai visto nella mia vita. La sua torre che sembrava incombere sul campo, le grida dei tifosi, allora corretti, e le squadre in campo. Passare attraverso quei cancelli controllati, sentirsi quasi schiacciato dalla ressa, benché lo zio mi proteggesse e tenesse sempre vicino al suo corpo, vedere Facchetti, Mazzola a pochi metri da me e la delusione fittizia di vedere perdere l’Inter per uno a zero con il Bologna. Ma in fondo non è che me ne importasse molto, quello che aveva senso era stato lo spettacolo dello stadio, il piacere di esserci stato con lo zio.

Spero che anche tu abbia simili occasioni, anche se ne dubito.

L’altro campetto per giocare a calcio era l’Orto Grande. Proprio dietro la chiesa di San Domenico dove tu sei stata battezzata. Un vasto orto incassato tra quattro muri alti e al cui centro sbucava una colonna romana, il troncone di una colonna romana. Solo molto tempo dopo ho saputo che lì sotto c’era il teatro romano e che, quindi, era luogo di interesse archeologico. Anche lì era vietato giocare e, quel che peggio, non vi erano vie di fuga, per questo solitamente il ragazzino più piccolo non poteva giocare e doveva stare di guardia all’inizio del vicolo.

È la prima volta che tocco un luogo che rimarrà in qualche modo anche attaccato alla tua storia, la chiesa del tuo battesimo. Permettimi una parentesi.

Non potrai fare a meno di ricordarti il tuo battesimo, ci sono troppi documenti visivi che te lo testimonieranno. Ma non è stata una cosa facile. Tu sei nata all’inizio dell’estate e i tuoi genitori non erano sposati. Forse non sentivano neppure la necessità di farlo. Poi sei arrivata e le cose sono cambiate. No, non è stato un matrimonio riparatorio, né tua madre, né tanto meno io crediamo in queste cose. È stata una scelta più o meno spontanea, certo molto dettata dalla tua venuta. Perché sai, tu pur essendo una creatura stupenda, pur essendo una bambina come tutte le altre, pur essendo un essere umano come tutti, se il babbo e la mamma non si fossero sposati avresti avuto molti diritti in meno degli altri bambini. Ti sembra assurdo? Lo so, ma è così. Ringrazia per questo chi ci fa vivere ancora in uno stato clericale e vaticano, compreso chi si dichiara laico.

Sta di fatto che l’organizzazione di tutto ciò è stata un’impresa biblica. Solamente una come la tua mamma poteva riuscirci. Aveva solamente quattro mesi per predisporre tutto, e conta che solitamente solo per un matrimonio ci si impiega almeno un anno. Lei in quattro mesi ha organizzato un matrimonio e un battesimo da favola. Certo gran parte l’hanno avuto il tuo babbo, il nonno mago e la zia che ti hanno tenuto per ore e ore mentre la mamma era fuori. Ma lo sforzo non è paragonabile.

Non starò qui ad annoiarti nel raccontare tutta la cerimonia, per certi aspetti patetica, tuo padre aveva una sciatica che gli impediva quasi di camminare ed era imbottito di antidolorifici, vedrai nel film che faccia da imbecille incantato con l’espressione a volte assente ha. Ma dopo la cerimonia matrimoniale era previsto che arrivasti tu, accompagnata dai cugini madrina e padrino, per il battesimo. Un tempo incalcolabile, da trhiller cinematografico separarono quei momenti. La cerimonia era finita e tu non arrivavi. Il povero prete non sapeva più come impiegare il tempo e tua madre ed io non facevamo altro che girarci in dietro nella speranza di vedere comparire la carrozzina.

Poi, quando sembrava ormai tutto sballato, improvvisamente l’altro tuo cugino, quello di due anni, si è messo a gridare il tuo nome. Una. Due. Tre volte. Saltellando lungo la navata della chiesa. Tutti si sono girati e ti hanno visto ed è partito un lungo applauso. Poi è stato un battesimo normale, ma se ti racconto ciò è per il fatto che tu rimarrai legata a quella chiesa romanica, con arredi e rifacimenti barocchi, una navata assoluta, semplice e così piena di tutta la bellezza che, nonostante gli interventi successivi, il romanico nel suo anticipato minimalismo sapeva donare al fedele.

Altro luogo, o meglio luoghi, ma più legati alla mia adolescenza che all’infanzia.

La Piazza, un catino dove tutta la città, studenti compresi, si ritrovano. Un tempo non era come oggi, non si trovavano a sera solo pancabestia e studenti mezzo stravolti. Era il centro della vita quotidiana. Non ti so dire con precisione come era la mattina quando ero ventenne, perché il tuo babbo il mattino o dormiva, o studiava, o era a lezione all’università. Qualche ricordo lo ha e la piazza era già piena di gente. Ma il pomeriggio, soprattutto in primavera e d’estate, era come la stazione di Milano all’ora di punta. Ben inteso, tutto regolato da precisi canoni. Gli anziani seduti ai ferri, la lunga ringhiera che impedisce agli avventori di cadere su Valbona, o sotto l’orologio, una cipolla appesa all’angolo tra due vie, sempre in ritardo e mai aggiornata in tempo con lo scatto dell’ora legale. Gli studenti nel mezzo della piazza o appoggiati vicino ai bar e i giovani indigeni a reggere le colonne del porticato.

Penso che alcune di quelle colonne abbiano un incavo, l’impronta della mia spalla scolpita da ore e ore, giorni e giorni fermo su di loro. Cosa si faceva? Nulla. Si aspettava l’ora di andare a dormire, fino a tarda notte, per accoccolarsi su cuscini confortevoli, e letti dal design firmato. O meglio si credeva, si sperava, che quella notte ci avrebbe riservato qualcosa di speciale, magari un’avventura erotica fuori dal normale, naturalmente troppo spesso delusa.

Patetico penserai, e forse hai ragione. Ma erano notti spese tra birra e altro nella speranza che qualcosa sarebbe cambiato. Raramente si tornava a casa con la delusione dentro. Se non altro si discuteva, si rideva, ci si confrontava. Sai, piccola mia, il tuo babbo ha passato notti a parlare di un concetto, di un’idea, di un verso o di un progetto con i suoi amici. Se poi è andato tutto in fumo poco importa, sono cose che comunque rimangono.

Ora se vai nella stessa piazza trovi un’assenza assoluta. Vuota. Percorsa solo da pochi ubriachi che c’erano anche allora, ma almeno erano simpatici, da qualche anziano o maturo depresso che cerca la compagnia di qualche coetaneo per sfuggire alla noia della moglie o alla solitudine, e da adolescenti fatti come caramelle che sciamano in attesa del bus per la discoteca. È così. Forse tranne il giovedì e il sabato, quando il casino è assoluto e tutti si riversano in quel catino, per lo più ubriachi, violenti, tanto che neppure le forze dell’ordine osano intervenire. Stai serena, vivi ancora in un posto tranquillo, puoi sempre uscire da sola senza paura che qualcuno ti importuni. Anche alle due di notte. Ma comunque vivi in una città che sta morendo.

L’altro posto mitico è il Monte, ma su questo spenderò poche parole. Era il luogo dove da adolescenti ci ritrovavamo d’estate. Il parco. Si posteggiavano i motorini, scusa gli scooter, lungo la strada e si passava lì il pomeriggio e le sera. Anche le notti. Si parlava, si facevano gavettoni e cose di questo genere. Poi si amoreggiava, della serie una coppia ogni settimana o quasi. Non erano amori, tranne qualche caso, ma prove di amore, simulazioni di coppie per un futuro più impegnativo.

Poi c’erano i luoghi delle trasgressioni. Il cortiletto sotto i Torricini. Le prime sigarette e poi non solo più quelle. Le discoteche aperte il sabato e la domenica pomeriggio, Donna Summer, Tozzi ecc.. Perché Tozzi? Ma semplicemente perché allora in discoteca si ballavano anche i lenti ed era il preambolo ad altre gustose avventure ed esperienze, da consumarsi sui divanetti duri, con le gambe incastrate tra i tavolinetti bassi, sempre attenti a non far cadere il bicchiere con la consumazione. Insomma non è cambiato nulla se non nei modo e nei ritmi.

Poi vi erano i momenti in cui si doveva essere impegnati. E allora si discuteva di Freud, di Moravia e Pasolini, di From e di altri. Si ascoltavano i Pink Floyd, Dylan, Coen, Guccini, e De Gregori. Non che non valessero, anzi sono autori eccellenti, ma il fatto è che ti sentivi sempre mezzo castrato. Cazzo a quei tempi se non assomigliavi a De Gregori non valevi nulla. E allora tutti con la barbetta incolta, una barbetta che ancora non era cresciuta, e capelli trasandati, preferibilmente ricci e lunghi, sguardo perso nel vuoto. Racconti fantastici di esperienze con LSD o con altre droghe e di viaggi immaginari in chissà quali luoghi esotici. Che palle.

Amore mio, non adeguarti mai agli standard. Ce ne sono anche oggi sai? Guarda tutti quei ragazzini e quelle ragazzine con i pantaloni a cinta bassa, con il culo di fuori o le mutande in evidenza. Tutti uguali. Nessuna personalità. L’importante è appartenere alla massa. Non avere un proprio io, un proprio gusto, è la regola. Perché di gusto si tratta. Gli specchi esistono e tutti li hanno in casa. E allora se sei venti chili sopra perché ti metti i pantaloni bassi sotto la cinta e una maglietta che non ti copre l’ombellico così che escono fuori due riccioli di grasso? D’accordo che l’importante è piacere a se stessi, ma vuole dire che nessuno ti ha insegnato cosa sia il bello o, in molti casi, il decente.

Discorso politicamente scorretto, se vuoi, ma reale.

1 commento su “PAURA D’AVERTI (3).”

  1. Bello!! Mi piace questa sorta di diario …… mi piace il modo in cui descrivi le tue paure,emozioni,sensazioni,quasi vissute in simbiosi…..mi piace quando parli dei Nonni della tua adolescenza,il mettere in guardia tua figlia sul mondo in cui dovrà vivere…. Avevo la curiosità di leggere questo libro e devo dire che è molto interessante e soddisfa molto le mie aspettative.

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