Il carattere immediato, spontaneo di Oliviero Luslini, l’ho conosciuto nei corridoi del Liceo Classico quando assieme insegnavamo a quei ragazzi. Un modo di essere e di fare che mi aveva colpito, a volte pure urtato, quando magari il mio umore non era proprio dei più ottimali, il che accadeva di rado in vero. Poi, quasi per incanto e sorpresa l’ho ritrovato per i vicoli di Urbino, sulla porta di uno dei pochi negozi rimasti al centro, in mezzo al prato con l’Albornoz scenario alle spalle e la coreografia del Palazzo e della città vecchia davanti. Declamava. Anzi recitava versi, accompagnati da una mimica unica, a volta in abiti civili, altre con qualche accorgimento: uno strano cappello, un mantello nero, un bastone da passeggio. Va bé, ognuno fa ciò che vuole. Poi ho ascoltato i versi e non era un qualcosa di solito quello che sentivo, ma altro, pieno di significati.
Poesia dialettale, o meglio “meta-dialettale”, non certo la lingua dei miei nonni, vernacolo stretto, quello di Ca’ Tonto e di Ca’ Gulino, o meglio de Che T’ont e Che Gulin, lingua contadina, arata e trainata da coppie di buoi al giogo e una terza elementare. Oliviero è cresciuto nelle scuole italiane dove il dialetto è tabù, ha vissuto all’estero, ha lavorato all’estero e poi è tornato. La sua lingua si è, diciamo “depurata” o “contaminata” a seconda dei gusti, e poi la tv, i giornali, i media, la vita nella scuola, insomma tutto ciò che ti cala in un’altra lingua e, neanche dirlo, in un’altra realtà, in un altro modo di essere. Nuovi termini che relegavano nel dimenticatoio quelli originali, sempre che lì esistessero, nuove espressioni, una nuova sintassi. Una miscela del tutto. Ma non è questo che mi ha colpito.
Innanzi tutto la vena giullaresca, il gusto, la consapevolezza che la poesia non è fatta e non è nata per essere semplicemente letta in una serie di grafemi stampati o manoscritti, ma per essere declamata, e magari non in squallide e asettiche sale, per quanto storiche e artisticamente belle, da professionisti che interpretano a loro modo i versi, con lo sguardo cupo e serio, o a volte dal preoccupato poeta, che ci tiene a sottolineare, mentre recita, che il poeta è lui, che sta facendo la cosa più importante del mondo, qualcosa di molto serio da cui possono dipendere le sorti del mondo e che è, molto, molto triste. Insomma il modo di farti disinnamorare della poesia, assieme alla scuola con le sue scomposizioni più o meno stilistiche, strutturaliste e noiose fino alla morte. Lasciamole ai così detti esperti, quelle cose, a chi piace masturbarsi mentalmente su un accento o su una parola, magari su tre versi slegati tra loro, me compreso chiaramente. Ognuno si diverte o si crede importante come crede.
I versi di Oliviero sono lanciati nel vento, chi vuole ascoltarli, sorride, al limite riflette, in somma ne coglie il lato più importante di ogni poesia e di ogni arte, la bellezza.
La città uno dei temi prediletti da Oliviero, questa Urbino antica, retrograda, in ogni senso, ma che della modernità ha saputo cogliere qualche aspetto, forse quelli meno utili e attraenti. Cullata nei suoi miti desueti del Palazzo, di Federico, di Raffaello, giusti e importanti, ma che dovrebbero essere da sprone al nuovo, alla creatività, e non rimpianto, vuota contemplazione, orgoglio da calpestare come un manifesto vecchio sulla strada, insomma non essere ciò che già all’inizio del secolo scorso era, una “Città del Silenzio”, per dirla con D’Annunzio.
Luslini non so se la fa rivere, ma certo nei suoi versi il ricordo gioca un ruolo molto importante. È nostalgia, certo, ma una nostalgia intimistica, che poi tutti quelli appartenenti a una certa generazione avvertono, quella appunto del vuoto, del non esserci, del sentirsi quasi a Pompei o a Ercolano, in un un luogo che fu, a cui manca la vita. Un reperto storico. Non più gli schiamazzi dei “burdei”, non più i negozi che si aprono sulla via, sui sampietrini, non più una piazza, una vera e propria agorà, dove a ore quasi stabilite era difficile passare a piedi, dove le generazioni quasi sceglievano le ore ore di uscita, anziani, uomini e donne mature, ragazzini e studenti, giovani, un trionfo di belle facce striscianti sugli scalini dei portici, sui “ferri”, lungo la “vasca” del portico maggiore. E l’orologio, punto d’incontro, potrebbero anche toglierlo. Però c’è la web camera per tenere aggiornato l’intero globo in rete su quel vuoto e quella desolazione.
La città è però, per Oliviero, anche il nido, e un luogo di libertà, non tanto come ambiente, ma proprio nelle sue strutture, nelle sue architetture e nei suoi suoni, nelle sue voci. E così il Campanile di San Francesco con l’impalcatura per il restauro, o i Torricini impacchettati di plastica come un’opera di Christo, generano in lui un sentimento di oppressione , di costrizione, tanto che fanno dichiarare al poeta: “Francament me sent un carcerat, /en ved l’ora d’ èssa liberat!”.
E il ricordo va anche anche agli amici, vivi o scomparsi, al padre che lo richiamava dal gioco dalla finestra (bella quest’immagine là dove di solito sono le madri a assumersi questo ruolo), la natura, vissuta quasi con un tono pascoliano. Ciò che domina però è il senso della solitudine, del trovarsi solo, del guardarsi attorno e accorgersi che un mondo è scomparso e non è cosa strana, sempre accade, deve accadere, la mutazione è la chiave di un probabile futuro, ma nelle anime sensibili e spontanee, sincere, tutto ciò lascia un segno, che non è propriamente rimpianto, ma un velata e al tempo stesso marcata malinconia. Un’assenza.
Ancora una nota, la vena trobadorica, l’amore, corrisposto, non corrisposto, ha poca importanza, ma vissuto sempre come un’assenza, non propriamente un abbandono, piuttosto come qualcosa a cui si aspira ma nel momento fatidico, quello della scelta, del proporsi, diventa difficoltà, se non impedimento. Non precisamente trobadorico quindi, non vi è qui il gusto del corteggiamento, dell’altra e delle sue moine, dei falsi rifiuti, e la galanteria cavalleresca. C’è un speciale rassegnazione al tempo, al luogo, alla propria consapevole, forse tutta paesana e religiosa, timidezza, inadeguatezza emotiva immotivata, senso del tempo che va, che rimane, attesa, e voglia nonostante della vita.
Bei versi, bella meta-lingua, da leggere certo, ma meglio da ascoltare, da vivere e partecipare, per chi ne ha l’occasione appoggiati a un muro in laterizio, o seduti su di un prato o, perché no, quasi di sfuggita, fermi improvvisamente con le sporte del supermercato in mano, sulla soglia di una bottega in via Veneto, o sul Sagrato della Cattedrale, tra la Piazza e il palazzo, o durante una fiera paesana, in compagnia di uno sparuto drappello di turisti e qualche indigeno.
Poesia vera quella di Luslini, sentita vissuta, tra le migliori che si possono ancora ascoltare, non per forza strutturata, costruita, intellettualizzata, tra le mura antiche di questa cittadina.
CHE GIOIA
Che gioia saría per me
potet conquistè ,
magari per un giorne
sensa nesun d’intorne.
I’ te vria tocchè,
ma quest en se pò fè.
Alora te guard dentra chi bei occhj:
quant me piacria essa el tu balocch.
La tu bocca sorident
en me fa capì pió gnent.
I ce vria apogè la mia:
te pregh, en scapè via.
COM NASCOST
Camin com nascost
in mezz al bosch.
Un piéd dietra c’l’ altre sensa posa,
la mi ment finalment s’arposa.
Che bel el cant d’ucc’lin
quand aranc sò per el stradin.
Che profum vien da chi prat in fior,
subbit sparischen tutti i mi dolor.
El vent tira fort e fa rumor,
i alber me riparen dal fredor.
Arivat in cima al mont
da malé ho vist el mond.
In cima a la mi vita en ce so arivat
perché so’ sempre stat disturbat.
A LA SERA
A la sera, quand fa scur,
en me sent pió sicur.
Me guard intorne, so’ sól.
En c’è pió manca un fiol.
Lia è gitta via:
che torment la vitta mia
EL CAMPANIL
So ’n bel campanil,
dietra d’ me c’é un verd cortil,
davanti c’é ‘na piasettina
do’ c’ é sempre un po’ d’ gent a la matina.
Tutt’ intorn’ a me veggh la mi’ città
che me dà ‘na gran felicità.
Da un po’ de temp, prò, me so’ avilitt
perchè en riesch pió a veda ‘ste bel sitt.
M’hann méss in t’ un gran cest,
hann incminciat a la matina prest.
Tutt de ferr e de tavlon
per paura ch’ vagga gió a rugulon.
El terremot francament
è stat, per tutti, un brutt moment.
En vrìa prò lamentam tant. Per ‘sa fè !
C’è ma chi i’è gitta pegg de me.
La mi cugina de Folign
è cascata gió com un macign.
Che fin spaventosa
per cla torr maestosa !
Per quant pó ma me
en riesch pió a sonè.
La mi campana de mezgiorne
en se sent pió d’ intorne.
Tutti guarden vers de me
e me dmanden: ”Com stè te?”
Francament me sent un carcerat,
en ved l’ora d’ èssa liberat !
Avret capit sicurament
chi ha parlat fin ‘ste moment:
So’ el campanil de San Francesch d’ Urbin.
Me sa miland d’ artornè dritt com un torricin.
A VINCENSIN
O Vincensin
t’arcordi quand eri pcin?
Quand giocavam in t’ un chi viculin
sa le castagn i tapp e le palin.
T’arcordi quand fregavam i pcion dla piassa,
malé da la tu’ terassa
sa chel particolar congegn,
frutt del tu’ ingegn ?
I pción eren duri com i accident,
ma éren boni i nostre dent.
T’arcordi quand sotta chel murett,
che ce faceva da parapett,
stavam nascosti
e molt’ accorti,
per freghè ma chi vecch,
sa cla moneta de carta atacata al fil ?
Mentre lór s’ abasaven per arcoja
la moneta volava come ‘na foja.
E no ridevam com i matt:
fugiven sfuriati tutt i gatt.
Adess t’arcord anca un fatt brutt,
e per dilla francament è stat un lutt.
E’ sucess quand eravam grandi e grossi,
c’era cresciut anca el goss.
T’arcordi Vincensin
de cl’ atre burdlin
che se chiamava Diegulin ?
Lo era pcin e secch,
i facevam sempre i dispett.
Pó da grand quand è dventat professor,
è sucess ‘na robba che me dà ancora tant tremor.
‘Na mana brutta e trista l’ha tolt da la nostra vista.
Lo en è pió sa nó,
è gitt Malasó !
Adess i salut ma Diegulin:
ce manca tant chel burdlin !
Adess salut anca ma tè
e te dich sa tutt el cor :
« O Vincensin,
quant me darìa gust, sa te, artornè pcin !»
PER URBIN
Quand camin
per I viculin
dp’, da pcin,
giocav sa I tapp e le palin,
me chiappa l’avilimen:
en c’è piò nient.
En c’è manca piò I burdei:
quant eren bei!
È riba da matt,
en c’è manca piò i gatt.
ANCORA
Oh mi’ bella Urbin,
quand er pcin
dentra le tu’ mura
giocav fin a nott scura.
Eri la mia casa spensierata,
mai t’avria lasciata.
Ma mi’ padre fischiava
e dop urlava:
“Oliviero vien a casa! En te basta da stè
fora!”
Ma io: “Ancora, ancora!”