ARTE CONTEMPORANEA. OGGETTO ALIENO?

 

Il 26 ottobre si è temuto un dibattito-intervento intitolato Parlando di te. Conversazione sulla lettura dell’opera d’arte, a cui hanno partecipato il poeta Davide Rondoni, Tat’jana Kasatkima critica letteraria e direttore del Dipartimento di teoria della letteratura presso l’Accademia delle Scienze Russa, e il sottoscritto. Incontro molto interessante e da cui sono scaturite nuove o, quanto meno, insolite chiavi di lettura dell’opera d’arte e dell’approccio del “lettore” o dello “spettatore” alla stessa. Sarebbe troppo complicato e lungo anche solo riassumere quanto emerso nel corso della serata, ma quel colloquio, perché in fondo di questo si è trattato, ha mosso nel mio pensiero alcune riflessioni attorno all’arte contemporanea e al modo che il fruitore medio ha di recepirla.

Premesso che quelli che seguono sono quasi pensieri estemporanei, buttati un po’ di getto sull’orlo dell’”entusiasmo” e che quindi rimangono aperti a revisioni e approfondimenti, il primo termine su cui mi viene spontaneo soffermarmi è quello di contemporaneo. Cosa determina il concetto di contemporaneità? Argomento difficile e complesso, per cui è bene appoggiarsi a chi già ne ha avuto a che fare come Giorgio Agamben: “contemporaneo è chi è in grado di trasformare il presente e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia. Il contemporaneo è il luogo di un appuntamento fra i tempi e fra le generazioni”.

Da ciò si può già capire che contemporaneo non è sinonimo di presente, da usare magari come aggettivo da accostare a parole come arte, società, letteratura, musica ecc. Non è il qui e ora, o almeno non solamente quello. Il contemporaneo sembra piuttosto estendersi attraverso la temporaneità, si muove e, muovendosi, sposta anche il nostro modo di pensare, i modelli, la nostra concezione del mondo. In altre parole si pone come una maniera di collocarsi di fronte al proprio tempo, nel tentativo di interpretare e comprendere quello che ci succede attorno, con un occhio al futuro, ma anche sempre rivolti al passato da dove, inevitabilmente, possiamo trarre l’esperienza (che poi si metta a frutto o no è un altro discorso), le idee e anche, nel nostro caso, le opere che possono essere utili a chiarificare l’odierno.

Ne potrebbe venire che l’arte contemporanea non è per forza di cose, argomentazione, espressione e perfino, al limite, linguaggio, legata a una cronologia o a contenuti coevi. Rimane sì, in qualche modo, connessa a un fattore storico-cronologico e descrittivo, ma come elementi che le forniscono delle condizioni sufficienti, ma non necessarie.

Si potrebbe quindi dire che un’opera è contemporanea nel momento in cui stabilisce un rapporto con l’osservatore e viceversa, quasi un dialogo, legato all’oggetto artistico e all’esistenza nel mondo. Calco un po’ la mano su questa parola oggetto, cosa, perché l’opera d’arte è una cosa fatta di cose e di cose particolari che acquistano un senso che le rende opere d’arte. Pur apprezzando l’arte concettuale, nel significato che è venuta a ricoprire almeno dalla metà del secolo scorso e riconoscendone l’importanza, non sono di quelli disposti a credere che “tutto può essere arte”, perché, senza dilungarsi nel discorso che ci porterebbe a chiedere “cos’è un’opera d’arte” e quindi molto lontano, ma per semplificare il concetto, mi torna utile ricorrere a un esempio di Ferraris, e cioè se un orinatoio può essere un opera d’arte, e non metto in discussione che lo sia, adoro Duchamp, perché un elenco telefonico non può essere un romanzo? E si spera che nessuno lo affermi.

L’arte va dunque interpretata? Sì e no. Direi che l’arte va vissuta, ne va fatta esperienza e diviene esperienza. Un’arte da vivere, forse ognuno a proprio modo, secondo il tipo di rapporto che riesce a stabilire con essa. Una relazione che rimane comunque sociale, nel senso che l’opera d’arte è un oggetto, una cosa sociale, poiché per riconoscerne il valore e lo statuto di opera d’arte e non di semplice oggetto, se non di utensile, bisogna almeno essere in due, o presupporre che qualcuno partecipi comunque al nostro giudizio. E non mi riferisco certamente al giudizio del così detto “Mondo dell’arte”, cioè di un gruppo più o meno ristretto di critici, curatori, esperti di estetica, galleristi, giornalisti improvvisati, mercanti d’arte ecc., che si attribuiscono il “potere” di decidere cosa è o cosa non è arte, anzi cos’è Arte, arte e non arte.

Sta di fatto che la maggior parte delle persone che si recano a una mostra d’arte contemporanea si trovano spesso depistate, perplesse nei migliori dei casi, quando non si innervosiscono o vengono prese da veri e propri ratti d’ira sentendosi quasi prese per i fondelli. Eppure quelle opere hanno un senso, non sempre, ma a volte ce l’hanno. Dopotutto non si deve credere che gli avventori alle prime esposizioni degli impressionisti o di Picasso o di Pollock, per non parlare di Fontana, non abbiano avuto più o meno la stessa reazione, magari celata dietro un sorriso ironico.

Solitamente ci se la cava con affermazioni del tipo “non hai la preparazione necessaria” o “è una questione di linguaggio” o altre simili. Non so se sia giusto, ma nutro i miei dubbi. Certamente una certa preparazione ci vorrebbe (e non certo quella scolastica, storicistica e strutturalista, che genera solo noia, quando non ostilità verso arte e letteratura), come d’altronde davanti a un quadro di Caravaggio o, ancora di più, di Giotto, maggiormente lontano da noi come linguaggio, ma sta di fatto che è vero che di fronte a opere di quest’ultimo tipo si rimane comunque colpiti, quando non estasiati. Sarà l’ammirazione per la perizia tecnica? Sarebbe banale, non è che Picasso o Kandinskij sapessero disegnare e dipingere molto peggio di Raffaello, non certamente dopo anni di Accademia e delle Accademie del tempo, a parte il talento personale di cui erano dotati. Ma è vero che, per molti, anche se esperti, davanti a un blocco di grasso di Beyus o Sedia di Kosuth o ancora a Cemento armato di Uncini, non provano le stesse sensazioni.

Avanziamo quindi l’ipotesi che per prima cosa l’opera (e non solo figurativa, ma anche letteraria, musicale ecc.) debba in qualche modo attrarre, creare un’affinità con il fruitore più o meno “inconscia”, insomma creare empatia. Si nota nell’opera qualcosa che rinvia in qualche modo a altro, forse una specie di somiglianza e ciò innesta un meccanismo di riflessione, un pensiero. Non si riesce neppure a dire o a capire a fondo cosa ci ha colpito, ma ne proviamo la sensazione, il famoso “non so che”. E questa somiglianza non riesce a esaurirsi, a completarsi, a essere colta completamente e una volta per tutte (da cui una delle differenze tra l’arte e la scienza; davanti a un giudizio su un’opera posso accettare un: “mi piace”, “perché?”, “non lo so, mi piace e basta”, ma se il medico mi ordina un ciclo di antibiotici e chiedo: “perché?”, “non lo so”, cambio medico).

Proprio dopo questo primo momento si dovrebbe verificare una partecipazione attiva dello spettatore come persona presente nello spazio dell’opera e comunicante con essa, al limite anche senza conoscere il linguaggio specifico dell’autore, ma è necessario che questo dialogo tra osservatore e opera si instauri quasi come uno scambio di esperienza in atto, da vivere, altrimenti non avrebbe senso, tra l’altro, che l’artista abbia affidato l’opera al mondo, se l’ha fatto vuol dire che vuole comunicare.

La comunicazione e l’interpretazione dell’arte dovrebbero quindi essere concepite come uno scambio tra l’opera e lo spettatore che ne verrebbe arricchito a livello di conoscenza (una conoscenza indiretta, poiché l’opera d’arte non nasce per trasmettere conoscenza e non guardo un quadro o leggo un romanzo per imparare qualcosa, per quello c’è la saggistica), mentre l’opera riceverà il proprio collocamento all’interno della storia o di una storia, attraverso occhi che interpretano storie diverse.

Si potrebbe alla fine dire che un’opera d’arte diviene opera d’arte e non solo oggetto nel momento in cui si apre alla comprensione e all’esperienza di entrambe le parti, opera e fruitore. È l’incontro tra le parti che la realizza, nel dialogo singolare che la determina come opera d’arte. Quindi l’arte non deve per forza dire qualcosa, ma al limite suggerire la possibilità di interpretazione, lasciando libero lo spettatore di cogliere quanto la propria esperienza e attraverso l’esperienza e sensibilità, l’opera stessa saprà comunicargli, dando vita a riflessioni e impressioni libere e personali, creando, al limite, nuove strade e proposte per tentare di capire e comprendere o solo intuire o sentire la “realtà” e il tempo in cui si vive.

Non si tratta di una conclusione, ma di una serie di riflessioni avute di primo acchito, dopo aver ascoltato i due autori citati all’inizio e che rimandano, spero, a altre probabili occasioni di dialogo, in una discussione (come un’opera?) aperta.

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