ARTE?

 

 

Non credo esista qualcuno al quale, interessato o no all’argomento, non siano state formulate o non si sia posto, almeno una volta nella vita, le domande: Che cos’è l’arte? A cosa serve l’arte? Perché si fa arte?

Alla prima domanda risponderei d’istinto: BOH! Non lo so, c’è, mi piace, non ne posso a fare a meno e sento che è importante, forse è la materializzazione (in un certo senso) di un significato e non sarebbe cosa da poco. Ci sono molte sentenze famose al riguardo, personalmente ne ho sempre predilette due: Baudelaire: “Che cos’è l’arte? Prostituzione”, e, a distanza di un secolo, Andy Warhol: “La business Art è il gradino subito dopo l’arte”. Illuminanti.

La seconda domanda, “A cosa serve l’arte?”. Intanto a chi mi fa tale domanda mi verrebbe d’istinto rispondere “A te sicuramente a niente”, ma a parte questo, effettivamente l’arte non serve a nulla, se non, come sottolinea Andy, quando diventa business. Ripeto c’è, c’è sempre stata, appartiene al genere umano e, credo, sia una necessità. Perché, non lo so, aspetto che qualcuno ne scopra il gene specifico o qualche diavoleria neuronale o cose simili.

Forse l’arte insegna, a parte quella specificatamente didattica come l’arte cristiana delle origini, magari qualcosa che va al di là degli stili, dei linguaggi, della retorica o delle “idee”, come diceva già Henry Miller, “L’arte non insegna nulla, a parte il senso della vita”. Non è poi così iperbolica questa dichiarazione, sarà perché sono in qualche modo affezionato a Miller, non mi piace moltissimo, ma ci sono affezionato.

Probabilmente è per il fatto che mia madre lo adorava. Non permetteva che lo leggessi, facevo le elementari e non lo avrei capito diceva, ma la cosa mi stupisce un poco ugualmente. Mia madre non era certo una incline alla censura.

Ricordo che in quegli ultimi scorci degli anni ’60, quando appena entrati in classe con i grembiuli neri e i fiocchi azzurri, o bianchi e rosa a seconda del “generi”, le prime azioni una volta dietro i banchi, erano la preghierina e salutare il Presidente, non so in che ordine, e che in una famiglia come la mia della media borghesia con “frequentazioni” dell’intellighènzia del Paese, si leggeva Lorca e, soprattutto, si ascoltava De Andrè, sempre attenti che la tessera del PSI, nel migliore dei casi, nel taschino della Lacoste, fosse stata rinnovata. Ho ben presente quando, dopo aver ascoltato un paio di volte Via del campo, chiesi alla mamma cosa era un “puttana” e perché, reduce dal catechismo dove la suora di turno aveva spiegato che la vita appartiene a Dio e il suicidio è il peggiore dei peccati, quel signore invece cantava di un suo amico che si era sparato e domandava a Dio di accoglierlo e invitava i suicidi a seguirlo in Paradiso. Mamma, si era seduta al tavolo e mi aveva spiegato tutto, concludendo con un “Capito?”, “Sì, sì!” e chissà se era vero. Ma Henry non me lo fece leggere, almeno fino a 14 anni. Non era adatto.

Ancora un altro BOH, per la terza domanda. Perché si fa arte? Perché piace? Perché se ne sente il bisogno? Non certo per far carriera e soldi, visto la percentuale di gente che vi riesce. E poi non è un lavoro, uno fa arte anche se non lo pagano, anzi si ammazza di un lavoro che gli fa schifo per poter avere la possibilità di fare arte, molto spesso.

Forse è interessante come uno fa o crede di fare arte. Ognuno, presumibilmente, in maniera diversa. Dal canto mio, come faccio arte (con la a minuscola poiché non so se lo sia)? Anche questo sarebbe ardito definirlo. Un’idea da cui si sviluppa il tutto? Può essere, ma non ne sono convinto, quando ho un’idea cerco di esplicarla in altro modo, magari attraverso un ragionamento strutturato in maniera diversa. Certo è che il più delle volte quando mi metto davanti allo schermo bianco con solo scritto sopra nella barra in alto HOME, INSERISCI, PROGETTAZIONE, LAYOUT DI PAGINA ecc., o di fronte alla tela bianca o altro, mi prende il vuoto assoluto. Che ci faccio qui?

Quindi mi alzo, faccio un giro, preparo un caffè o mi scolo un succo di frutta all’ananas e cammino per l’appartamento. Penso? Naturalmente, d’altronde è impossibile non pensare, ma a cosa non saprei dire. Poi ci si risiede e si comincia, una frase, un incipit, una riga o una chiazza di colore e si va avanti. Ben inteso non è che non ci sia un progetto, lungi da me l’idea dell’arte come pura ispirazione del genio di romantica memoria, ma diciamo che non è ben definito, almeno all’inizio e poi su un testo, su un dipinto ci si torna decine di volte, anche in maniera ossessiva, per mesi spesso. A meno che non hai usato gli smalti industriali, in quel caso è facile che non resti che buttare via la tela. E comincia anche la ricerca: consultazione di testi, attenzione a non ripetere ciò che è stato già detto o fatto o perlomeno dirlo in maniera differente, documentazione, attenzione alla chiarezza e, per quanto possibile, all’attualità.

Ciò che però rimane, almeno per me, un punto fermo è che l’arte, sia che uno la “faccia”, sia che la si fruisca, è qualcosa che va vissuto. Mettendo da parte le mille teorie, le mille supposizioni, da Kant a Hegel, da Dewey fino almeno a Danto (che mi piace molto, se non altro perché si capisce, scriveva di estetica e in generale di filosofia non per il punteggio accademico, forse perché era convinto che ormai i libri di filosofia li leggono solo gli “addetti ai lavori”), sono certo che si instauri un rapporto di senso tra l’opera e il suo autore e anche per chi la legge o contempla o ascolta (che poi il primo spettatore è sempre l’autore stesso), anche al di là delle intenzioni dell’autore, ammesso che avesse il proposito di comunicare qualcosa di definito e, nell’arte, in realtà, sembra proprio non esistere un preciso significato preordinato e già lo aveva notato Rauschenberg: “se ci fosse un messaggio specifico, sarei limitato dai miei ideali e dai miei pregiudizi. Insomma, ciò che mi interessa è un contatto, e non esprimere un messaggio”.

In altre parole, non solo la creazione, e si badi non la costruzione o la messa in atto, ma la creazione, dell’opera, ma anche la sua recezione e, eventualmente, interpretazione, sono soggettive, almeno in un primo stadio, quello dell’impatto positivo o negativo che sia all’opera. È insomma qualcosa che avviene in quel preciso momento, ma che è destinato a cambiare per sempre, ce se ne accorga o no, la vita e il pensiero e pure la fisicità, l’essere corpo, di chi lo affronta.

L’opera d’arte è comunque comunicazione il cui valore si manifesta solo quando da entrambe le parti, creatore e fruitore, vi è comprensione e diviene in qualche modo “universale”. Non è possibile che rimanga confinata da una delle due parti, che sia incomunicabile, ci deve essere una specie di dialogo. Non è necessario che l’arte dica qualcosa, piuttosto dovrebbe suggerire la possibilità di interpretare liberamente ad ognuno il linguaggio che la costituisce secondo il personale bagaglio culturale e di sensibilità. In questo modo non sarà necessario andare alla ricerca del proprio essere per instaurare un dialogo con essa, ma inizierà una ricerca di nuove strade e di reciproci suggestioni nel tentativo di comprendere la realtà e il mondo che ci circonda.

2 commenti su “ARTE?”

  1. Non sono proprio d’accordo…..l’arte è “Espressione “qualcosa che tu vuoi trasmettere alle persone….( che poi avvenga o meno questo è un’altra,cosa…) non sono d’accordo di considerare arte quando diventa businnes….anzi forse proprio per questo che ultimamente di ” buona”arte ce ne poca….

    1. Non ho detto che l’arte diviene tale quando diventa business e neppure Warhol lo diceva (anche se forse un po’ lo credeva); in effetti dice, parafrasando, che la business art viene dopo l’opera d’arte. Comunque è una realtà dell annoso dibattito del “chi decide che un opera d’arte è tale e non un oggetto qualsiasi”, cosa che vale non solo per l’arte contemporanea ma anche per una crosta del ‘500 o del’ 600. Per quanto riguarda la scarsità di buone opere contemporanee non sono d’accordo. Vero è che almeno da Duchamps la questione si è fatta più spinosa, ma non credere che l’atteggiamento del pubblico di fronte le opere del Cubismo, Dada, dell’Astrattismo, del Surrealismo, dell’Espressionismo astratto ecc., siano state molto diverse da quelle di chi si pone davanti a un’opera di Cattelan o di Hirst. L’arte è sempre esistita ed è stata sempre capita e goduta, magari a differenti livelli, ma questo conta poco. Non è necessario studiarsi teorie estetiche e critiche, è bene, ma non fondamentale. Il fatto è che trattare di questi argomenti porta a una domanda inevitabile a cui ho solo accennato nel precedente post: “Cos’è l’arte?”, e qui ci si infogna veramente, non sono stati sufficienti 2500 anni di ragionamenti e opinioni per chiarire del tutto la questione. Ma chissà, se ne può parlare, anzi sarebbe interessante conoscere le varie opinioni in merito.

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