IL LIBRO DEL CORPO MARTORIATO.

F. Bacon, Nureyev

 

Ammesso che sia possibile, si potrebbe dire che su Una vita come tante (A little life), della scrittrice Hanya Yanagihara si sia detto tutto, tanto da aver costituito il caso letterario del 2015 a livello planetario, nonostante le più di 1100 pagine che lo compongono e che spesso sono sufficienti a scoraggiare molti potenziali lettori.

La storia sembra essere delle più scontate, l’amicizia tra quattro ragazzi e poi adulti, nella New York degli anni ’80 del secolo scorso, un’amicizia forte, nonostante i contrasti e gli alti e i bassi. Quattro personaggi che si muovono nella Grande Mela secondo gli stereotipi quasi soliti della città americana, tra locali, la vita del jet set, l’american dreem e il successo, che coglierà tutti e quattro, tre di loro in campo artistico e uno in quello giuridico. E in effetti all’inizio non si capisce il perché di tanta attenzione a questo romanzo, ma poi le cose cambiano e quello che sopravviene è un senso di oppressione, di angoscia che regna nella più assoluta normalità, un mondo che non vorresti neppure vedere narrato, ma che ti ritrovi a vivere quasi come un’esperienza, con la voglia di chiudere il tomo, senza riuscirvi. Leggendolo mi venivano in mente le opere, le immagini, di Francis Bacon e quelle più “attuali” di Andres Serrano.

Si potrebbe affermare che tutto gira attorno la figura di Jude, giovane e poi adulto, irrimediabilmente segnato nello spirito e, soprattutto, nel fisico, tanto che gli verranno amputate entrambe le gambe fino al ginocchio, da abusi e violenze inflitte, anche da parte di chi lo avrebbe dovuto proteggere, durante le fanciullezza e l’adolescenza. Soprusi al suo corpo volti alla mercificazione e allo sfruttamento.

Ed è il corpo, mi sembra, il grande protagonista di questo romanzo. Il corpo e il dolore, la sofferenza. Il corpo, testimone della rivelazione dell’immediatezza della vita di ognuno, il corpo e la sua relazione immediata con il mondo, il corpo come mezzo privilegiato per conoscere il mondo. Il corpo e il dolore, la sofferenza.

Abusi al corpo e, per conseguenza, all’anima di Jude che neppure possiamo immaginarci, come egli stesso ci racconta in un suo pensiero volto a Harold, suo ex professore di diritto al college e poi padre adottivo, impegnato costantemente nel tentativo di aiutarlo, che lo ama e ne viene contraccambiato, nonostante non sappia cosa abbia ridotto in quello stato Jude, come nessuno degli altri coprotagonisti, tranne in parte il medico personale: “Hai idea di quanto possa farti male? Vorrebbe chiedere a Harold. Potrei dirti delle cose che non riusciresti più a scordare, e per le quali non potresti mai perdonarmi, lo sai? Ti rendi conto del potere che ho? Lo sai che da quando ti conosco non c’è stato un solo giorno nel quale non ti abbia mentito? Sai chi sono veramente? Sai con quanti uomini sono stato, che cosa ho lasciato che mi facessero, le cose che mi hanno infilato dentro, i mugolii che mi uscivano dalla bocca?” (corsivo dell’autore).

In quest’ottica non stupisce neppure l’autolesionismo che Jude pratica costantemente, infliggendo al proprio corpo ulteriori ferite, tagli con lamette, vetro, sulle braccia, sulle gambe con una metodologia quasi scientifica, fino a quasi uccidersi o per un errore di “calcolo”, o con la volontà ferrea e lucida del suicida. Ma neppure questo mi ha colpito profondamente. Piuttosto è stato il fatto che a Jude non interessa come sopravvivere, non la sopravvivenza del corpo in quanto tale, quanto ciò che il corpo può imparare a sopportare per continuare a vivere nella migliore delle vite possibili.

Il dolore e la sofferenza sono una costante della vita umana e di quella animale, con la differenza che gli altri animali non ne hanno la coscienza, non ne percepiscono l’esistenza in anticipo, come della morte d’altronde, e questa sofferenza umana e la conseguente perenne tensione al piacere (che è essenzialmente un tentativo di riscatto e di cancellazione dell’angosciosa condanna al dolore)   non è eliminabile, al limite si può lenire, la si può narcotizzare, ma non annullare. E neppure ricorrere a un Dio avrebbe un senso, se non forse nella scommessa, per altro assai d’azzardo, di chi crede perché spera in una futura compensazione o premio che dir si voglia, poiché negherebbe gli attributi stessi della deità; un Dio che sa del patire umano e non vuole intervenire per lenirlo o abolirlo non è un Dio buono, un Dio che sa, ma non può intervenire non è un Dio e, anzi, è il proprio l’opposto, è il “male” a assumere la configurazione dell’onnipotenza.

Tanta letteratura ci ha abituato a “sopportare”, quando non a farsi una “ragione” del dolore, addirittura a considerarlo un’esperienza sapienziale, conoscitiva, attraverso la narratività; raccontare la sofferenza, quasi in un’operazione liberatoria, catartica o, al limite, esorcistica, ma Jude non è partecipe di questo gioco, Jude non si fida delle parole, è un racconto il suo a cui lui sembra non voler partecipare, non si appella al potere salvifico dell’affabulazione. Lui vuole essere ciò che è, vuole che lo si veda per ciò che è, compreso il contrasto tra la bellezza quasi apollinea del suo viso e il corpo storpiato, desidera che si capisca che la sua vita, per quanto assurda e inconcepibile alla comprensione degli altri, incluso l’autolesionismo, è e rimane sempre una vita.

Ciò che traspare da questo romanzo è la convinzione che nella vita ciò che conta non sono le trasformazioni, i progressi, la grazia, ma la schietta sopravvivenza del corpo e di tutto ciò che si porta dietro. Jude ci presenta ciò che accade nel suo corpo e di conseguenza nella sua psiche e tutta la lotta di volontà di cui è capace per far sì che quel corpo possa vivere nel migliore modo possibile, anche al di là della sanificazione o della guarigione.

Un bel libro, da consigliare a tutti, senza farsi impressionare dalla mole perché le pagine scivolano via, anche se ogni volta viene in mente di smetterla perché troppo angosciante, ma inutilmente. Dentro quelle righe c’è la vita di ognuno, “Una vita normale” appunto, volente o nolente assuefatta al dolore che la contraddistingue.

2 commenti su “IL LIBRO DEL CORPO MARTORIATO.”

  1. Alessandra Arceci

    Non ho letto il libro; ho letto con attenzione questo post e mi piace molto. Non mi ritrovo, da credente, sul concetto di deità secondo il quale un Dio che sa del patire umano e non interviene non è un Dio buono e, anzi, è il suo diretto opposto.
    Mi avventuro in una riflessione semplice di una persona semplice. Dio è altro rispetto alla fisicità della nostra vita, Dio è il nostro infinito, il non possibile da definire e spiegare. Credo che definirlo sia una presunzione umana. Negare la sua esistenza, quando siamo travolti dalla sofferenza, sia attribuire alla ragione umana un potere che non può avere. La ragione ha i suoi limiti, altrimenti saremmo noi l’onnipotenza. Non so quanto questa “riflessione” banale sia comprensibile e condivisibile e, soprattutto attinente al romanzo oggetto del post. Nel mio futuro prossimo ci sarà la sua lettura.

    1. Fai bene a leggerlo Alessandra, è un gran bel libro.
      Ciò che ho scritto nel post sulla divinità (non necessariamente sul Dio cristiano e tanto meno su una confessione che, a mio parere, hanno molto dell’arbitrario, forse, come sostengono molti e su base storica e filosofica, per motivazioni “temporali”) non l’ho pensato io, ma è un passo di Epicuro riportatoci da Lattanzio (De ira dei):”Dio – dice Epicuro – o vuole togliere i mali, ma non può; oppure può, ma non vuole; oppure non vuole e non può; oppure vuole e può. Se vuole, ma non può, è impotente; il che è inammissibile in Dio. Se può, ma non vuole, è invidioso; il che pure è alieno da Dio. Se non vuole e non può, allora è invidioso e impotente; e anche questo non può attribuirsi a Dio. Se vuole e può, il che soltanto conviene a Dio, allora da dove vengono i mali? o perché non li toglie?”, e poi ripreso da Hume.
      Se si tratta della millenaria domanda sull’esistenza di Dio, per me è un problema che non è necessario porsi, poiché siamo uomini e ciò che siamo in grado conoscere lo possiamo fare attraverso i sensi. Forse la possiamo intuire, o immaginare, che sono in un certo senso altri mezzi della conoscenza, ma diversi dal comune significato che si dà al termine. Quindi per me la questione non è l’inesistenza di Dio; non lo so, non lo escludo, anzi credo in un qualcosa di superiore, vedrò, se ci sarà da vedere (e al limite c’è sempre la scommessa pascaliana a cui ricorrere, ma è banale e contradditoria).
      Quello che non quadra è che la maggior parte dei credenti “fervidi”, in un certo senso, identificano Dio con il Padre di tutti. Ora un Padre che possiamo non chiamarlo “degenerato”, lascerebbe un figlio soffrire e fin anche morire, quando sa di avere il potere di evitargli il male e il dolore? Lasciamo perdere il male per il quale ci può essere una responsabilità diretta dell’individuo (libero arbitrio? ci sarebbe da discuterne), ma il tumore o un’infezione mortale (contratta ad esempio in un luogo dove il benessere non è arrivato) che colpisce, fa soffrire e uccide un bambino o un ragazzino che non ha, come d’altronde nessuno, chiesto e tanto meno scelto di nascere, magari proprio in quel posto, come lo giustifichi? Si dirà “quella è la natura”, come gli uragani o i terremoti. Ergo, la Natura è superiore a Dio? O Dio è la Natura? e allora siamo da capo.
      Parli di “presunzione umana”, ma non è così, è solo l’eterno domandare dell’uomo che, al suo apice, si presenta come “sfida a Dio” pur conscio della sconfitta, e per sfidare una persona o qualunque cosa o spirito ci sono due condizioni non rinunciabili: porsi al suo livello e ammetterne l’esistenza. Non si può sfidare ciò che non c’è.
      Si può accettare la propria condizione, ma quando si sa che null’altro c’è da fare, e tanto più diviene difficile se si può supporre che qualcuno possa metterci rimedio. Fino non molti decenni fa c’era chi rifiutava le cure (e ci sono anche ora) perché la vita è nelle mani di Dio e non del medico col farmaco pronto. È una scelta, d’accordo, la rispetto, basta che sia solo sulla pelle di chi la opera.
      Ho una certa età e sono figlio di quella cultura, ormai tramontata da qualche decennio, che è stata il postmoderno. Lyotard, Faucault, Derrida, Vattimo, Kristeva, Deluze e mettiamoci anche Eco sono state le mie letture (accanto all’insostituibile Nietzsche e, aimè, la psicanalisi di Freud e discendenti), e ciò, anche se so che è “superata”, non so se in meglio o peggio, vedremo, fa di me un relativista. Per cui non sono molto incline alla morale o all’etica, non in senso rigoroso almeno.
      Ma un limite a volte bisogna metterlo. E allora se da una parte sono convinto che se uno vuole credere è liberissimo di farlo, beato lui, ma non deve intralciare la vita degli altri e ciò accade, è sempre accaduto. Quando eravamo ragazzi si chiamavano ad esempio divorzio o aborto, oggi eutanasia e biogenetica (e non sono un cieco sostenitore né dell’una, né dell’altra, anzi tutt’altro, ma non mi pongo davanti alla questione con preconcetti e “imperativi categorici”, cerco di capire e sentire). E allora mi fa riflettere questo voler sempre eludere le domande, i dubbi, con “le vie del Signore sono imperscrutabili”, o la “mente umana non può accedervi”, la scappatoia di tutte le religioni monoteistiche, che è come dire “sta zitto, noi solo sappiano, tu accetta, subisci”.
      E allora di fronte a chi dice “credo” in maniera perentoria, tanto da influire anche sulla mia vita e su quella di altri, mi viene da chiedere un minimo di coerenza. Nella Grecia antica l’Aldilà promesso era il mondo dell’Ade, un posto tremendo, in cui le ombre degli uomini (l’anima), vagava senza scopo, se non per rimpiangere la vita e dove, se avevano la fortuna di incontrare un vivo a cui era stato permesso di addentrarsi in quel luogo, per poterlo interrogare dovevano bere sangue appena sgorgato dalla gola di un animale sacrificato. Eppure credevano negli Dei, fortemente e devotamente, a modo loro magari, con tanto di preghiere e olocausti di “tori di cinque anni non ancora domati”, per fare una citazione. Ora proviamo a fare lo stesso con le religioni monoteistiche, togliamo la ricompensa, e vediamo quanti ancora crederanno. Il problema era nella frase o domanda: “Ma credi perché speri, o speri perché credi?”.
      Il discorso sarebbe lungo e forse infruttuoso, ma è bene tentare di farne ogni tanto.
      Ti auguro una buona lettura del romanzo, magari ne parleremo.

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