CINQUE PICCOLE OPERE DI RAFFAELLO PER LA CORTE DI URBINO.

 

 

 

Ci siamo, è scoccato l’anno del cinquecentenario, si dovrà solo aspettare qualche mese per arrivare al culmine, il 6 aprile. E allora, tanto per continuare il discorso sulla bellezza, vorrei parlare, per quanto mi è possibile, di 5 opere di piccolo formato di Raffello, forse nate nell’ambito urbinate e a quella corte destinate, tra il periodo umbro e quello fiorentino del pittore, databili tra il 1503 e il 1506 e non tra quelle solitamente “pubblicizzate”.  Si tratta del Sogno del cavaliere, Le tre Grazie, San Michele e il drago, San Giorgio e il drago (Louvre) e San Giorgio con la lancia e il drago (National Gallery, Washington).

Non è sicuro, come accennato, che i piccoli dipinti giovanili di Raffaello siano stati realizzati in Urbino e su commissione dei Della Rovere, ma a suffragio di questa ipotesi non si deve dimenticare che con Federico da Montefeltro in Urbino si era affermata la pittura fiamminga, soprattutto con Giusto di Gand e poi con Hans Memlig. Se da una parte i pittori del tempo e quelli immediatamente successivi, cercarono di apprendere la maniera degli artisti dei Paesi Bassi, è vero che tra i committenti si diffuse quasi una moda per i soggetti da loro trattati e soprattutto per i quadretti di piccolo formato, veri gioielli da tenere in casa, quasi delle miniature da potere contemplare. Forse proprio in quest’ottica vanno visti i quadri che Raffaello dipinse in Urbino in questo periodo, primi fra tutti il Sogno del cavaliere e le Tre Grazie.

 

A dire il vero non tutti sono d’accordo nel pensare che le due tavolette fossero destinate al giovanissimo Francesco Maria della Rovere, ma la loro composizione e la grazia che li invade, sembrano proprio essere molto vicine a quelle opere di cui sappiamo con certezza che le commissioni partivano dalla corte Urbinate.

Il significato dei due quadretti, che dovevano formare un dittico o, come meglio spiega il De Vecchi, dovevano essere concepite come “il recto e il verso di una medaglia”, è stato interpretato in vari modi. Si è infatti pensato a Ercole al Bivio, a Ercole tra le Esperidi, fino alla accettazione del Chastel del tema del Somnium Scipionis di Cicerone. Si tratterebbe quindi di una specie di esortazione ai giovani, tratta dal poema Punica di Silvio Italico ritrovato nel 1417 da Poggio Bracciolini, e al commento di Macrobio al Somnium Scipionis di Cicerone. Scipione l’Emiliano, addormentato pesantemente, sogna Scipione l’Africano, il quale gli dimostra che l’anima è principio eterno e che la vera gloria si trova nella sede celeste. Questa si raggiunge tanto prima, quanto nella vita mortale ci si tiene distanti dalle passioni terrene e si segue la virtù, la donna con la spada e il libro, mentre coloro che sono dediti ai piaceri del corpo, la fanciulla con il mazzolino di fiori, raggiungeranno le sedi primitive solo dopo molti secoli. Nell’altra tavoletta le Grazie che consegnano al giovane i pomi delle Esperidi come ricompensa per la giusta scelta della virtù.

La piccola superficie quadrata è divisa dall’alberello di alloro in due parti, il giovane cavaliere è addormentato e sognante sotto di esso. La testa reclinata, un braccio appoggiato allo scudo e l’altro abbandonato sul fianco, le gambe incrociate. La linea ondulata che contorna il corpo è ripresa dalle due figure femminili verticali che delimitano la composizione ai lati, e chiusa, in alto orizzontalmente, dalle montagne. Oltre il primo piano, si estende il panorama che si allontana per piani successivi: un blocco di roccia rialzato, la strada con alcuni passanti, un paese, mentre a sinistra si eleva uno sperone roccioso con sopra una torre gotica e più a destra uno specchio d’acqua, fino ai monti azzurri in lontananza. Il colore digrada man mano che ci si distanzia dal primo piano, dai toni più caldi fino l’azzurro dei monti e in questo, soprattutto per il fatto che il digradare del colore accompagna la profondità spaziale, c’è un ricordo di Leonardo, le opere del quale Raffaello aveva probabilmente già veduto.

Meno complesso e articolato il quadretto con le Tre Grazie, che ricorda un dipinto ellenistico perduto e che oggi conosciamo attraverso delle copie pompeiane, e che Raffaello non poteva conoscere (anche se forse aveva veduto i tipici cammei urbinati, la medaglia di Pico della Mirandola o quella delle nozze Albizi-Tornabuoni. Le tre grazie della tavoletta, infatti, sono molto simili a quelle di quest’ultima medaglia che, tra l’altro, reca al scritta, Castitas, Pulcritudo, Amor), ma che è utile a capire quale affinità avesse già Raffaello con l’antichità. Ha tuttavia un movimento molto aggraziato che si esprime nelle pose dei corpi delle tre giovani e nel loro intrecciarsi delle braccia.

Forse allo stesso periodo appartengono altre due piccole tavole oggi al Louvre, che dovevano comporre una specie di dittico. Il San Michele e il drago e il San Giorgio con la spada e il drago, sono altri due splendidi e delicati quadretti realizzati per corte di Urbino a scopo celebrativo.

Quasi sicuramente infatti le due piccole tavole furono commissionate proprio da Giovanna Feltria della Rovere. La gentildonna era sorella di Guidobaldo e moglie di Giovanni della Rovere, dal quale matrimonio nacque Francesco Maria. In lei quindi si univano i due casati insigniti di due importanti onorificenze: Guidobaldo dell’Ordine della giarrettiera dal re d’Inghilterra nel 1504 e Francesco Maria di quello di San Michele nel 1503 dal re di Francia. Non sembra oggi che i quadretti siano stati commissionati per celebrare quelle onorificenze, ma in occasione dell’adozione, da parte di Guidobaldo, di Francesco Maria che diventava così ufficialmente suo erede e successore. I due santi rappresentativi dei due casati, posti l’uno accanto all’altro, simboleggerebbero l’unione dei Montefeltro e dei Della Rovere e, in un certo senso, la continuità della dinastia alla guida del ducato di Urbino.

San Michele domina la scena con un gusto narrativo raro in Raffaello. È rappresentato con la spada alzata in atto di colpire il drago che schiaccia sotto i piedi. È una figura che si libra libera nello spazio con un senso scultoreo che non può sfuggire all’osservatore e che, per il Mitsch, ricorda il Putto del Verrocchio destinato a una fontana di Careggi e posto nel cortile del Palazzo della Signoria per Cosimo I. Ai lati della figura del santo si vedono alcuni mostri, che fanno pensare alle opere di Bosch che Raffaello poteva avere visto dalle incisioni che circolavano sicuramente anche in Urbino, mentre sullo sfondo sono ritratte scene prese dall’Inferno dantesco e la città di Dite in fiamme. Forse questa citazione dantesca si riferisce alle malefatte del Valentino a cui si addicono gli episodi descritti. Infatti vi sono i sepolcri infuocati degli eretici dei canti VIII-XI della Commedia, che potrebbero alludere alla nascita, in fondo eretica, del Valentino figlio del Papa Borgia. Gli ipocriti del canto XIII che camminano in circolo con i mantelli di piombo dorato e che si potrebbero interpretare come il tradimento del duca Borgia nei confronti del ducato di Urbino quando, con un abile stratagemma, lo occupò nonostante l’alleanza con Guidobaldo, e in fine i ladri del canto XXIV, morsi dai serpenti, che si riferirebbero ai saccheggi operati dal Valentino.

Il colore ha un gusto che evoca quello veneziano, testimonianza forse di un precoce viaggio di Raffaello nella città, magari al seguito di Guidobaldo quando fu costretto a rifugiarsi a Venezia per sfuggire proprio al Valentino, ma che potrebbe più semplicemente derivare proprio dalla cultura Urbinate e dall’esperienza pierfrancescana e non solo, se è vero che nelle Marche e, forse, anche ad Urbino, aveva lavorato Giovanni Bellini e è pensabile che Raffaello conoscesse almeno la sua Incoronazione di Pesaro che è databile intorno al 1474.

Una scioltezza esecutiva maggiore è presente nel San Giorgio, ritratto, mentre sicuro di sé, sta per vibrare il colpo definitivo con la spada al drago, già ferito gravemente alla gola dalla lancia. Il drago, dal proprio canto, tenta un improbabile ultimo attacco avventandosi con le fauci e gli artigli sul cavallo. Alle spalle un paesaggio campestre su cui regna un cielo placido e alcuni alberelli che ricordano certe composizioni leonardesche. Pure il cavallo può essere di origine leonardesca, anche se è vero che non c’è bisogno di ricorrere necessariamente alle esperienze fiorentine e alla pittura di Leonardo, poiché anche alla corte di Urbino, per esempio nella Bibbia di Federico da Montefeltro, Raffaello avrebbe potuto studiare soluzioni simili a questa per quanto riguarda i movimenti di cavalli e cavalieri in lotta. È però vero che in questo dipinto vi è un patos dinamico che non è rintracciabile in altre opere di Raffaello di questo periodo e che farebbe pensare veramente a un’influenza in qualche modo leonardesca.

Sempre sullo sfondo si intravede la principessa che fugge terrorizzata, ma è come un semplice accenno che non disturba la figura centrale del santo che domina la scena. Il San Giorgio è certamente di una qualità migliore rispetto al San Michele e si caratterizza per uno stile più evoluto, cosa che ha fatto pensare a alcuni studiosi che le due tavole non siano state dipinte nello stesso periodo. Certo è che anche qui sono leggibili le fonti che, se da una parte portano ancora verso la pittura nordica e in particolare a Durer, richiamano anche le esperienze fiorentine del Quattrocento che erano passate per Urbino, si noti ad esempio come i frammenti della lancia spezzata sotto il cavallo siano disposte secondo uno schema che evoca la pittura di Paolo Uccello.

Quello del Louvre non fu forse il solo San Giorgio dipinto da Raffaello per la corte di Urbino. Ne esiste un altro, il San Giorgio con la lancia e il drago di Washington, realizzato per celebrare il conferimento dell’Ordine della Giarrettiera a Guidobaldo.

Si discute ancora sulla storia di questo piccolo quadro e l’unica cosa certa è che fu eseguito per Guidobaldo, come testimonia la fascia legata sotto il ginocchio sinistro di San Giorgio che reca la scritta HONI, cioè la prima parola del motto dell’Ordine della Giarrettiera che recita per intero: “Honi soit qui mal y pense”. Sulla scorta di quanto scritto dal Baldi si è ritenuto per molto tempo che il quadro fosse stato inviato da Guidobaldo a Enrico VII con una ambasciata capeggiata dal Castiglione per ringraziarlo del conferimento dell’Ordine della Giarrettiera, e in questo caso sarebbe stato eseguito nella prima metà del 1506, poiché il Castigione si recò in Inghilterra il 10 giugno di quell’anno. Tuttavia nel 1881 già lo Schmarsow, obiettava che la missione era stata progettata molto prima, tra il 1504 e il 1505, e anticipava quindi l’opera a quelle date. Negli ultimi tempi si sono formulate altre ipotesi tra cui mi sembra interessante quella di Cecil Clough che ritiene che il destinatario del dipinto fosse sir Gilbert Talbot, che aveva consegnato a Guidobaldo le insegne dell’Ordine. Sempre lo Shearman nota, come per tutto il ‘500 siano presenti in Italia molte copie di questo dipinto, per cui ritiene che il quadro non abbia lasciato la penisola fino alla fine del secolo e ciò mi fa pensare, anche sulla base di elementi stilistici, che Raffaello lo abbia potuto dipingere nel 1507 durante il suo probabile lungo soggiorno urbinate.

Dai disegni preparatori fino al cartone conservato al Gabinetto dei disegni e stampe degli Uffizi, si nota come Raffaello abbia studiato e meditato molto su questo dipinto. Il quadro è però abbastanza differente dal cartone, soprattutto nello sfondo, dove compare un piccolo stagno in cui è riflessa l’immagine della principessa o santa, che forse allude alla nomina di Guidobaldo a capitano della Chiesa assieme alla Torre delle Milizie che si scorge in lontananza, e al profilo dei colli e della boscaglia che sono differenti da quelli del disegno. La cura dimostrata per l’esecuzione di questo quadro si nota anche in confronto con l’altro San Giorgio poco sopra illustrato, e segna una netta evoluzione stilistica di Raffaello. Non vi è più il dinamismo drammatico che caratterizzava il primo dipinto, c’è invece una calma superiore, soprattutto nella figura del santo e in quella del cavallo, che sottolinea come Raffaello abbia dato la precedenza ai valori formali piuttosto che a quelli espressivi.

Al centro della composizione si trova il santo a cavallo, che sta infilzando il drago (simbolo del male) con una lancia; sulla destra in secondo piano, la principessa in preghiera, che assiste ammirata al combattimento. L’ambiente è un bosco, un paesaggio stilizzato dell’Umbria. La spalla sinistra di San Giorgio è al centro della tavola e il cavaliere assieme al cavallo dividono il dipinto in quattro triangoli al cui interno sono collocati il cielo, la principessa, il drago e una collina. Secondo l’uso tipico di gran parte del Rinascimento italiano lo spazio è suddiviso in maniera razionale, caratteristica oltre tutto della maniera raffaellesca.

A dare movimento alla scena, è il mantello del Santo, che si sta gonfiando sotto i movimenti rapidi e violenti del cavaliere, eliminando la staticità dall’azione a prova di una maggiore maturità pittorica raggiunta da Raffaello.

Anche in questo dipinto, da ritenersi firmato dando fede alla scritta RAPHAELLO V (Raffaello Urbinate) presente sulla bardatura del cavallo di San Giorgio, le fonti a cui si può risalire sono varie e tutte di una certa importanza. Innanzi tutto il San Giorgio di Donatello realizzato circa nel 1417 per il tabernacolo dell’Arte degli Armaiuoli posto in Orsamichele a Firenze, che dimostra la conoscenza dell’opera da parte del pittore urbinate e quindi, la possibilità che il suo dipinto sia stato realizzato durante il soggiorno fiorentino, come d’altronde l’influsso leonardesco che, è stato notato, si vede soprattutto nell’energia del cavallo, derivato dai disegni per la Battaglia di Anghiari eseguiti tra il 1503 e il 1506, senza dimenticare che lo stesso Vasari nella Vita, ci dice che Raffaello era rimasto colpito proprio dai disegni dei cavalli di Leonardo e per questo decise di andare a Firenze, dove appunto si recò, come ci ricorda la lettera di Giovanna Feltria, per imparare. Anche in questa tavoletta poi sono presenti elementi della pittura fiamminga, soprattutto nel panorama, e precisamente, il ricordo di un dittico di Hans Memling, in cui è rappresentato San Giovanni Battista e Santa Veronica, che fu visto nella casa di Pietro Bembo da Marcantonio Michiel, ma che era stato già in possesso del padre di Pietro, che nel 1502 lo aveva inviato in prestito a Isabella d’Este a Mantova.

C’è però, anche una fonte urbinate. Sembra infatti che la figura di San Giorgio dipinta da Raffaello dipenda da quella di San Crescentino, il patrono di Urbino. Esistevano infatti monete coniate dal conte Guidantonio, che circolarono per tutto il ‘400 nel ducato, con l’immagine del santo patrono e lo stesso grosso d’argento di Guidobaldo portava l’immagine del santo che uccideva il drago con la lancia. Ma soprattutto è presente nell’Archivio Capitolare di Urbino una miniatura gotica, forse eseguita intorno al 1348, che ritrae San Crescentino su di un cavallo bianco. Il libro che contiene la miniatura era ben visibile in Urbino al tempo di Guidobaldo. È probabile che Raffaello si sia ispirato a questa immagine, infatti doveva ben conoscere la leggenda del santo protettore, visto che in Urbino si facevano grandi feste per la sua ricorrenza. D’altronde tutto ciò doveva essere di gradimento anche a Guidobaldo che vedeva così ritratto il San Giorgio, che gli ricordava l’onorificenza donatagli dal re d’Inghilterra, e San Crescentino patrono di Urbino, a cui era particolarmente devoto.

 

 

 

 

 

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