GIACOMO, GIACOMO!!!

Chi non ha amato (o odiato a scuola) Leopardi e la sua poesia? Forse il più grande poeta italiano a mio parere, eppure il caro Giacomo non era poi, nella vita reale, quale a scuola si vuole si conosca. Ecco alcuni stralci dell’Epistolario, da tre lettere al fratello Carlo, il suo primo confidente. Roma non era quella che si aspettava e, soprattutto, i romani, la gente della grande città. Il poeta dell’amore (ah Silvia! ah Nerina!), della solitudine, del dolore in queste lettere appare come egli si rivela, un “becero” pronto a sparare sentenze, con una considerazione della donna che oggi farebbe rabbrividire: “bestie femmine” che “non la danno”, facendolo ripiegare sulle “donne pubbliche”. E nulla è risparmiato neppure ai rappresentanti della Chiesa Romana. Un Leopardi che non tutti conoscono.

Al fratello Carlo – Recanati

Roma, 6 Dicembre [1822]

Carlo mio(…). Veniamo alle prove di fatto. Lascio stare ch’io vedo la noia dipinta sul viso di tutti i mondani di Roma. Dirò solamente questo. voi sapete che l’unica fonte di piaceri è l’amor proprio, e che questo amor proprio in ultima analisi si risolve o in ambizione o in sentimento. Quanto al sentimento, potete immaginare se una moltitudine dissipata, che non pensa mai a se medesima, ne debba esser capace. Quanto all’ambizione, dovete persuadervi che in una città grande è impossibilissimo di soddisfarla. Qualunque sia il pregio a cui voi pretendiate, o bellezza, o dottrina, o nobiltà, o ricchezza, o gioventù, in una città grande è tanta soprabbondanza di tutto questo, che non se ne fa caso veruno(…). Lasciando da parte lo spirito e la letteratura, di cui vi parlerò altra volta (avendo già conosciuto non pochi letterati di Roma), mi ristringerò solamente alle donne, e alla fortuna che voi forse credete che sia facile di far con esse nelle città grandi. V’assicuro che è propriamente tutto il contrario. al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi. Io ho fatto e fo molti giri per Roma in compagnia di giovani molto belli e ben vestiti. Sono passato spesse volte, con loro, vicinissimo a donne giovani; le quali non hanno mai alzato gli occhi; e si vedeva manifestamente che ciò non era per modestia, ma per pienissima e abituale indifferenza e noncuranza: e tutte le donne che qui s’incontrano sono così. Trattando, è così difficile il fermare una donna in Roma come in Recanati, anzi molto di più, a cagione dell’eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d’ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi non sia sa come, non la danno (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le quali trovo ora che sono molto più circospette d’una volta, e in ogni modo sono così pericolose come sapete. La carta mi manca. Non finirei mai di discorrer con voi. Tutti dormono: io rubo questi momenti al sonno, perché durante il giorno, non mi lasciano un momento di libertà. Salutami tanto Paolina. Ti prego, caro Carlo, che per amor mio, quando tu mi scrivi, vogli prendere questa fatica d’allargare un poco il carattere, e lasciare fra le righe alquanto più d’intervallo a causa de’ miei poveri occhi. Marietta sta bene, e pare che attenda molto quando si parla di te. Puoi scrivermi liberamente sotto il mio nome, senza far lettere ostensibili ec., perch’io non mostro né le tue né le altrui, e questi di casa sono incapaci di violare le lettere che mi vengono. Questa sera ho conosciuto alcuni dotti tedeschi, che m’hanno alquanto confortato. Addio, ti bacio; stammi di buon animo.

A CARLO LEOPARDI – RECANATI.

Roma 16 Dicembre 1822.

Carlo mio. Se non siete persuaso di quello ch’io cercai di provarvi nell’ultima mia, n’en parlons plus. Io v’accerto che non solo non ho provato alcun piacere in Roma, ma sono stato sempre immerso in profondissima malinconia. Non nego però che questo non venga in gran parte dalla mia particolare costituzione morale e fisica. V’accerto ancora che quanto alle donne, qui non si fa niente nientissimo più che a Recanati. V’accerto che gli spettacoli e divertimenti sono molto più noiosi qui che a Recanati, perchè in essi nessuno brilla, fuori dello stesso spettacolo e divertimento. (…)

Ma venghiamo a cose più allegre. Primieramente io non ho conosciuto nè guardia nè Spada nessuna. Ho ben conosciuto quel fenomeno di Menicuccio Melchiorri, e pratico tuttogiorno con quel coglione di Peppe, che invita mezzo mondo a mettergli tre braccia di corna. Ma per quanto pessima idea possiate aver della moglie, non è possibile che arriviate a concepire che razza di donna misera e nulla sia questa. Figuratevi una servaccia sciocchissima, bruttissima, goffissima, senza una grazia negli occhi o nel portamento o in alcuna parte della persona, senza una parola in bocca, insomma senza un attrait immaginabile al mondo; e tutto questo, essendo puttana, o se non altro, civetta. Io non conosco le puttane d’alto affare, ma quanto alle basse, vi giuro che la più brutta e gretta civettina di Recanati vale per tutte le migliori di Roma. Ho conosciuto parecchi di questi furbi e di questi bravi. Hanno più franchezza e più parole, ma quanto al saper fare e cavare i ragni dai buchi, cederebbero tutti quanti ai Galamini. Un Condulmari si mangerebbe tutta Roma viva viva in un boccone. Confermatevi pure nel vostro pensiero che un buono e compito Marchegiano vale per mezzo mondo. Io me n’accorsi fin da Spoleto, paragonando quei Marchegiani che v’erano a tavola, con altri pur giovanotti e galanti, nativi d’altre parti. Cancellieri mi diverte qualche volta con alcuni racconti spirituali, verbigrazia che il Card. Malvasia b. m. metteva le mani in petto alle Dame della sua conversazione, ed era un débauché di prima sfera, e mandava all’inquisizione i mariti e i figli di quelle che le resistevano ec. ec. Cose simili del Card. Brancadoro, simili di tutti i Cardinali (che sono le più schifose persone della terra), simili di tutti i Prelati, nessuno de’ quali fa fortuna se non per mezzo delle donne. Il santo Papa Pio VII deve il Cardinalato e il Papato a una civetta di Roma. Dopo essere andato in estasi, si diverte presentemente a discorrere degli amori e lascivie de’ suoi Cardinali e de’ suoi Prelati, e ci ride, e dice loro de’ bons-mots e delle galanterie in questo proposito. La sua conversazione favorita è composta di alcuni secolari, buffoni di professione, de’ quali ho saputo i nomi, ma non me ne ricordo. Una figlia di non so quale artista, già favorita di Lebzeltern, ottenne per mezzo di costui, e gode presentemente una pensione di settecento scudi l’anno, tanto che, morto il suo primo marito, si è rimaritata a un Principe. La Magatti, quella famosa puttana di Calcagnini, esiliata a Firenze, ha 700 scudi di pensione dal governo, ottenuti per mezzo del principe Reale di Baviera, stato suo amico. Questo è quel principe ch’ebbe quel miracolo di guarire improvvisamente (come si lesse nelle gazzette) dalla sordità, restando più sordo di prima. Che ve ne pare? E contuttociò siate certo, che quanto al sostanziale (in materia di donne) si fa molto più a Recanati che a Roma, data però la proporzione della gente, ed escluso quello che si fa per puro purissimo denaro, il che senza dubbio è moltissimo, anzi è il più. Ma ci vuol danaro assai, perché qui non se ne manca, e non si può discorrere di bagattelle(…).

Salutami tutti. Io sto bene. Abbiamo un freddo del diavolo, perchè tira vento di tramontana. Fuori dei giorni di gran neve, non fa mai tanto freddo costì. Buona notte. Stammi allegramente, se puoi; voglimi bene e scrivimi.

A CARLO LEOPARDI – RECANATI.

Roma 25 Novembre 1822.

Carlo mio (…) Ma giunto ch’io sono, e veduto questo orrendo disordine, confusione, nullità, minutezza insopportabile e trascuratezza indicibile, e le altre spaventevoli qualità che regnano in questa casa; e trovatomi intieramente solo e nudo in mezzo ai miei parenti (benchè nulla mi manchi), ti giuro, Carlo mio, che la pazienza e la fiducia in me stesso, le quali per lunghissima esperienza m’erano sembrate insuperabili e inesauribili, non solamente sono state vinte, ma distrutte. Come inespertissimo delle strade, io non posso uscir di casa, nè recarmi in alcun luogo, nè restarvi, senza la compagnia di qualcuno della famiglia; e conseguentemente, per quanta forza io voglia fare in contrario, sono affatto obbligato a far la vita di casa Antici; quella vita la quale noi due, ragionando insieme, non sapevamo qual fosse, né in che consistesse, né come potesse reggersi, nè se fosse vita in alcun modo.

Ieri fui da Cancellieri, il qual è un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra; parla di cose assurdamente frivole col massimo interesse, di cose somme colla maggior freddezza possibile; ti affoga di complimenti e di lodi altissime, e ti fa gli uni e l’altre in modo così gelato e con tale indifferenza, che a sentirlo, pare che l’esser uomo straordinario sia la cosa più ordinaria del mondo (…).

Senti, Carlo mio, se potessi esser con te, crederei di potere anche vivere, riprenderei un poco di lena e di coraggio, spererei qualche cosa, e avrei qualche ora di consolazione. In verità io non ho compagnia nessuna: ho perduto me stesso; e gli altri che mi circondano non potranno farmi compagnia in eterno. Scrivimi distesamente e ragguagliami a parte a parte dello stato dell’animo tuo, intorno al quale ho molti dubbi che mi straziano. Amami, per Dio. Ho bisogno d’amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita: il mondo non mi par fatto per me: ho trovato il diavolo più brutto assai di quello che si dipinge. Le donne romane alte e basse fanno propriamente stomaco; gli uomini fanno rabbia e misericordia. Ma tu scrivimi, e amami; e parlami assai assai di te e degli altri miei. Bacia per me la mano al signor Padre e alla Mamma, a’ quali scriverò quest’altro ordinario, se ancora saprò scrivere. Salutami Paolina e Luigi e Don Vincenzo. In tutti i modi faremo animo: e l’assuefazione sottentrerà e rimedierà ogni cosa. Addio, caro ex carne mea. Addio.

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