MADONNA STRATEGA.

 

Celebriamo da secoli la figura di Federico da Montefeltro per il suo umanesimo, la sua perizia militare e per l’abilità politica, ma anche a lui si può applicare quanto sembra dicesse Virginia Woolf, a cui è stata attribuita la frase: “dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna”. Ci si riferisce chiaramente a Battista Sforza, moglie del Duca, donna senza dubbio celebrata, ma sempre all’ombra dell’illustre consorte. Tuttavia in queste poche pagine dell’Arienti (1445 c.- 1510), tratte da Gynevra de le care donne (1490), emerge una figura di donna eccezionale, non solo colta e raffinata, ma grande statista e, cosa particolare, abile stratega nell’arte della guerra, tanto che Sigismondo Malatesta Signore di Rimini, in guerra con il Ducato di Urbino, trovandosi a scontrare con lei avrebbe detto in preda all’ira: “Certo questa femina è troppo proveduta et saghace, che basterebbe havesse gubernato el regno de Franza”. Poche pagine curiose e interessanti.

De Baptista Sforza duchessa de Urbino.

(…) Quando hebbe de sua aetate XI anni compiti, per la fama de le sue virtute preclare, fu non manco adimandata in matrimonio da molti principi, che fusse Athlante, per le cui virtute et beleze possedere tanti se poseno a la morte. Ultimamente, come dispose la divina providenza, lei fu disponsata a Federico da Montefeltro conte de Urbino, conveniente marito a la sua virtute, che poi fu de quello creato duca; il quale fu ne l’arme tanto scientifico, perito et strenuo, che s’è facto aeterno per gloria de bataglie.

Pervenuta Baptista nel terzodecimo anno, il duca sposo cum essa se congiunse. Consumato che hebbe el sacro matrimonio, lui convenne andare cum florida gente, come valoroso duca de arme, nel regno de Neapoli a li subsidii del re Ferdinando, alhora remasto herede del regno per la morte del re patre Alfonso; che tutto il regno era in grandissima rebellione et guerra, per la venuta del duca Ioanne nel regno per occuparlo. Alhora Baptista, sposa illustre, deponendo ogni molicia, come cupida de vera gloria, aiutava cum ogni solicitudine l’andata del marito, fin ad aiutarlo cum le proprie mane armare. Et in questo principio de la sua adolescentia remase al guberno cum tanta prudentia et animo, che facea de maraviglia stupire altrui; per il che tutti li suoi populi ne haveano grandissimo conforto.

Havea continua bataglia del calido furore de Sigismondo Malatesta principe de Arimino, animosissimo imperatore de arme, il quale sempre ardea de desiderio ciascuno luoco del stato del marito occupare. Lei hebbe tanto animo, ingegno et providentia in difensare cum ogni stratagema explorante le insidie de l’inimico e ‘l stato, che quello non hebbe alcuno detrimento, non altrimenti se li fosse stato il dilecto marito cum le gente d’arme. Per la qual cosa il principe Sigismondo disse irato: « Certo questa femina è troppo proveduta et saghace, che basterebbe havesse gubernato el regno de Franza. »

Così continuando le guerre nel regno de Neapoli, la valorosa donna se transferitte, per richista del marito, ad Magliano, svernando le gente d’arme in quello paese. Et poi se transferitte ad Roma dove fece reverentia a Pio Secundo, pontifice maximo, orando cum tanta flagrantia et eloquentia, che la sua sanctità ne hebbe singular dilecto, et admiratione de la facundia de tanta donna; et in sua comendatione celebrò lei de molta laude, verso quilli che gli erano intorno, dicendo che credea de tale aetate Italia non havesse simile donna de costei. Visitava spesso li sancti templi et luochi devoti de essa cità, et specialmente le vergene vestale; dimorava cum loro, dicea l’officio a le hore come esse, el giorno et la nocte; deiunava li giorni de la septimana, come faceano loro, in pane et in aqua. Visitava in Urbino cum frequentia li lochi pii et devoti. Havea familiarità grande a li religiosi de sancta vita; et specialmente le monache de sancta Chiara eran spesso da lei visitate. Dicea ogni giorno l’officio, che diceano le prefate monache, amate da lei teneramente. Fu elemosinatrice oculta. Fu liberale in tutto, overo in parte, in maritare povere donzelle. Hebbe prompto et acuto ingegno, per il che sempre intravenne nel consiglio del sapientissimo marito, quale mai haverebbe alcuna cosa expedito, senza comunicarlo seco; et meritamente; perchè essa, per le glorie et triumphi, infra le felice victorie del marito, se era facta illustre per tutta Italia.

Lei amò sempre, cum augumento de amore et fede, infinitamente il marito; et lui ella similmente, per la excellentia de tanta donna et per l’ardentissimo zelo de l’honestate, da lei habiuto in tanta cura et solicitudine, che alcuna donna, che fusse manco che di peso, havea ardire esserli nominata avanti, come effecto de’ sacri coniugati. Molte volte, quando per varie expeditione el duca suo marito existendo in campo, essa seco dimorava cum virile animo, senza alcuno timore; de la qual cosa forsi qualche inprudente la imputava; ma lei el facea per la grande dilectione portava al marito et per procreare a laude de Dio uno figliuolo maschio, quale excessivamente desiderava, perchè havea habiuto nove figliuole femine l’una drieto l’altra. Pregò tanto la divina clementia et la pietà de la regina del celeste imperio che li concedesse uno figliuolo maschio, che ella fu exaudita de uno bello et desiderato figliuolo, quale al sacro fonte nominarono Guido Ubaldo; del cui felice parto lei, il marito et tutto el stato feceno festa et triumpho, et ogni oraculo et templo furono visitati cum oblatione, incensi et fochi, ringratiando Dio de tanto dono; se mai lei fu devota et elemosinatrice, fu più per l’havuto figliuolo. Non facea come molte fano, che ingratamente se dimenticano li beneficii et gratie recepute dal benigno Dio, come havesseno bevuto de l’aqua del fiume di Lethe.

Lei fu clemente, cum grandissimo zelo de iustitia. Hebbe più presto inclinatione ad pietate che ad severitate. Cum grande discretione et prudentia fu liberale de gratie et documenti a li subditi. Sempre dicea, che li signori doveano cum ogni sforzo loro transferire l’utile, le richeze e ‘l bene a li subditi et citadini loro, da li quali procedea el bene, la fede et la securtà del stato ne li loro signori, li quali doveano solamente triumphare et godere del titolo del principe. Cun ciò fusse che meglio era possedere il regno opulente che macro. Tollerava gravemente quando alcuno, per auxilio de richeza o d’altra fortuna, volesse superare et forzare li poveri et infirmi. Volea circa la iustitia ogni homo fusse equale. Mai non volse se potesse iustamente pensare, non che dire, vendesse le sue gratie et servitii. Apresso li suoi altri ornamenti, fu in li suoi habiti et vestimenti de magnifica pompa, et similmente per suo iocundo dilecto volea che le sue figliuole fussero ornate de varii habiti, de illustre vestimente et di geme, ne le quale molto si dilectava. Havea grandissimo piacere che li suoi citadini et donne loro andasseno de vestimente. Ma fu opinione quasi de ogni homo, quantuncha lei pigliasse de la sua pompa tanto piacere, che sotto le signorile vestimente, in absentia del marito, per non dimenticarse Dio, portasse el cilicio.

Quando il marito era stato in li castri, et che ad casa retornava dicea che non intrava in una casa, ma sì in uno templo et religione, per l’ordine sancto li havea posto la prudentissima donna. La quale ultimamente, nel tempo che ‘l suo glorioso marito triumphò ne la victoria de la ribellata cità de Volterra per il populo firentino, dal quale in Firenci receputo cum gloria, festa et triumpho, honori et munificentia, come de suo victorioso capitanio, fu assalita da acuta febre in la cità de Ugubio, dove era adcompagnata da Octaviano, ornati de li humani et phylosophici studii, nobilissimo fratello del marito. Et non giovando alcuno physico remedio per la corporea salute, la egritudine fu inremediabile iudicata; per il che lei, come savia et magnanima donna, patientemente, ancora fusse nel fiore de la sua aetate, anni XXVI, a la morte se dispose. Ma solo li dolea non potere vedere el caro marito avanti la sua fine, il quale spesso chiamava. Adimandò cum propria boccha tutti li sacramenti de la chiesia, havendo poco tempo de vita. Ma non se volse mai dimenticare, in la mortal infermità, la cura de li suoi subditi, che fin che possette nel lecto sedere et che forza hebbe di parlare, fece molte gratie, signando de propria mano supplicatione, cum tanta liberalità quanto mai facesse ne la prosperità de la vita.

Sentendo il signor marito, cum suo singular dolore, il mortal morbo de la cara sua consorte, subito ne venne volando ad Ugubio, dove, retrovata lei a lo extremo de sua vita, ella hebbe grandissimo conforto vedendo(lo), che tanto l’havea desiderato. Et non potendo per letitia parlare, ella l’abraciò, et lui lei, cum grandissima tenereza. Poi, retornata a lei alquanto la lingua, in questa forma quasi mosse le sue parole al marito: «Signor mio caro, sii el ben venuto. Ringratio el benigno Dio, che me ha concesso gratia che io veda la tua excellentia avanti la mia fine, come te ho affectato, per potere più in pace morire. Tu vedi in che termine sono: così è il fine de la nostra misera vita. Per me tutte le vanità, le pompe, li honori, le glorie, le geme, l’auro et l’argento del mondo sono passate. Oh quanto è sciocho colui che pone speranza in la fragilità de questo mondo! Beato colui, che tutti li suoi pensieri pone in la speranza divina! Cognosco ora intieramente quanto è grave non temere la maiestà de Dio, dal quale procedono tutti li beni. Io me ne vado a li non cognosciuti luochi, se non per vera fede de Jesù Cristo. Pregoti duncha, signor mio, per la nostra sancta coniugal fede, me doni venia, se mai te offesi; et recomandoti la mia anima; et questo mio cynereo corpo pregoti el faci colocare in li proprii sepulchri de le mie monache de sancta Clara de Urbino. Et recomandote li nostri figliuoli.» Li quali, havendoli avanti, et alciando in loro li languidi occhii pieni de pietate, et prima al figliuol maschio che era de cinque mesi, disse: « O figliuolino tanto affectato (osculandolo teneramente) prego io la pietate de Dio, ad consolatione del tuo patre, lungamente te salvi, cum timore de la sua divina maiestà, a ciò sii vero principe appellato, et non tyranno. » Et poi a le figliuole disse che a Dio le recomandava, che le facesse sue devote, honeste et pudiche. Et a tutti dette la sua benedictione, usando molte altre sancte parole de fervido amore (ben cum lassitudine) per le quale tutti li astanti furono a pietose lachryme provocati. Il flebile marito la confortò cum quelle dolce parole, che li concesse il mesto core. Poi infra pochi giorni, mancandoli li vitali spiriti, a li xvii giorni de augusto, ne li anni de la beata gratia MCCCCLXX rese l’anima al suo factore. Per il che se levarono pianti et stridi per tutta la cità, territorio et convicini, et il magnanimo duca suo marito per l’ingente merore de havere perduto tanta donna, non possette cum forte animo retenere le lachryme, singulti et suspiri, che ne fu per morire; tribuendoli dignissime laude de pudicitia, de honestate et de prudentia, de consiglio et de religione, per il che mai più consolato vivirebbe. Et che ciò fusse vero, mai se reputò consequire intiero gaudio et victorie che havesse, non potendo quelle cum lei partecipare, dove spesso cum sospiri la desiderava.

Così per ultimo honore, in testimonio de le virtù de lei, la fece il dolorato duca suo marito sepellire cum magnifica et illustre pompa lugubre et funebre nel monastero de sancta Clara de Urbino in li proprii sepulchri de le sancte monache, come havea lei devotamente ordinato ne la sua infirmitate. Non volse ancora solo in morte honorare, ma li fece, doppo alquanti giorni de la morte de lei, fare al sextodecimo kallende di septembre uno solenne exequio de magnificentissima pompa et lugubre ornamento, de singulare spesa: dove l’intravenne tutti li potentati, comunitate et republiche, et magnati de Italia, parenti et amici, che furono insumma cavali ccclxxxii de li externi venuti, et chi spontaneamen te, et chi invitati, nel modo gradualmente qualuncha al luoco suo, tutti de nero vestiti; et chi non possette personalmente venire, mandarono li loro dignissimi oratori (…)

In AAVV, Urbino nella Letteratura Italiana da Dante a D’Annunzio, a cura di E. M. Guidi, Aras Edizioni, Fano, 2017. pp. 145-152.

NOTA BIOGRAFICA SULL’AUTORE.

Arienti (Giovanni Sabadino degli), nacque a Bologna verso la metà del Quattrocento (1445 circa), da un Sabadino degli Arienti, barbiere di professione. Fu, nello Studio bolognese, discepolo di Manfredo Valturio e forse anche di Mario Filelfo. Dopo un debutto come notaio decise di avvalersi della protezione che i Bentivoglio accordavano alla sua famiglia. Dopo aver composto alcune poesie amorose (oggi perdute) scrive la sua prima opera di carattere encomiastico in prosa volgare, il De civica salute (scritto tra il 1467 e il 1468), volta a tracciare una storia di Bologna durante la prima metà del secolo in cui si esalta l’operato dei Bentivoglio. Nella primavera del 1471 dedica al nuovo signore di Bologna, Giovanni Bentivoglio, un’operetta in cui è descritto il torneo da lui organizzato per il 4 ott. 1470. Nel 1471, dopo aver rinunciato definitivamente alla carriera notarile, diviene segretario del conte Andrea Bentivoglio e nel 1473 sposa Francesca Bruni dalla quale ebbe otto figli. Si prodigò in questo periodo, soprattutto con composizioni celebrative, ad allacciare amicizie e protezioni importanti di nobili e futuri regnanti che lo portarono a ricoprire uffici ed avere sussidi da Bologna e Ferrara. E’ questo il periodo in cui l’Arienti compone la sua opera più famosa, Le Porrettane, terminata nel 1478 e dedicata a Ercole d’Este. Negli anni seguenti fu investito da diversi problemi economici e famigliari, tra i quali la morte di un figlio (1485) e della moglie (1487 circa). Tra queste difficoltà famigliari non interrompeva, tuttavia, la sua attività di letterato cortigiano scrivendo tra l’altri il De Hymeneo, per Ginevra, moglie di Giovanni Bentivoglio la serie di trentatré elogi di figure femminili raccolta nel 1490 sotto il titolo Gynevera de le clare donne: a questa serie si aggiunse poi, nel 1493, l’Elogio di Isabella di Castiglia. Il 27 genn. 1491 il conte Andrea muore; egli ne scrive una delle sue solite encomiastiche biografie. La morte del conte contribuì certo a diminuirgli la familiarità coi signori di Bologna, tanto da rivolgersi ai signori di Ferrara a cui rese servigi nel 1495 e tra il 1597 e il 1498. Nella prima metà del 1498, poco dopo la morte della giovane moglie di Alfonso d’Este, scrive una Vita di Anna Sforza e vari particolari della narrazione ci confermano che lo scrittore si trovava ancora in Ferrara. Dal 1499 è di nuovo documentata la sua presenza a Bologna. Le sue ultime opere di carattere cortigiano si dirigono ancora prevalentemente agli Estensi: la Descrizione del giardino della Viola (1501), e il Colloquium ad Ferrariensem plebem (fine 1501), ora perduto. Alla caduta dei Bentivoglio e del ritorno effettivo del dominio papale in Bologna nel 1507 e ottiene nuovo governo la carica di gonfaloniere pel quartiere di Porta Piera e nel 1508 si reca a Roma a fare atto di omaggio al papa. Meno di due anni dopo, nel 1510, muore bruciato dalla febbre.

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