INTEGRAZIONE POSSIBILE?

Sono anni che si parla di integrazione e la discussione per fortuna è ancora aperta. Ma l’integrazione, così come comunemente la si interpreta, spesso non sapendo quale sia il suo reale significato, è possibile? Molti ritengono di no, non l’integrazione totale, bisognerebbe piuttosto parlare di convivenza. Il perché non è semplice da spiegare e se qualcuno vuole approfondire potrà farlo a partire dalle poche righe che seguono e dalla breve ma illuminante spiegazione del noto antropologo Francesco Remoti rilasciate in un’intervista del 2019 a Linkiesta.

Integrare alla fin fine vuol dire cercare di indurre una persona o un gruppo di persone a rinunciare a propri modelli, abitudine, modi di pensare che non collimano con una cultura differente che li accoglie e, quest’ultima, a accettare o tollerare comportamenti e idee dell’accolto che in qualche modo possono essere accettabili. È possibile ciò in toto? Sembrerebbe di no, ma questo meglio lo spiega nelle righe che seguono Francesca Remoti.

Per quel che mi riguarda il ragionamento è molto più semplice e si avvale più di esempi che di teoria, tratti dalla realtà. Intanto storicamente da sempre, dalle civiltà remote, egiziane, greche, bibliche, babilonesi, romane e per tutta la nostra civiltà, compresi luoghi che dovrebbero esserlo per loro natura e costituzione, essendo nati proprio grazie all’immigrazione come gli USA (quando i nuovi arrivati, piuttosto che integrarsi e mutare la propria cultura, non hanno preferito e optato per distruggere e annientare quella autoctona), l’integrazione e il multicultaralismo sono sempre falliti e sono sempre rimaste sacche di resistenza anche piuttosto marcate. La cosa non stupisce, un conto infatti è adeguarsi, un altro cambiare.

Cerco di mettermi nei loro panni. Se per ipotesi un domani dovessi trasferirmi in Arabia Saudita o in Pakistan per motivi, ad esempio, di lavoro, con la mia famiglia, moglie e figlia a seguito, e per un lungo periodo, come mi comporterei? Certamente mi adeguerei alle loro leggi, le rispetterei, anche quelle che potrebbero sembrarmi assurde, illogiche o ingiustificate. Ma sono lì e quello è il loro Paese, che potrà, al limite, diventare anche il mio solo se rispetterò le loro leggi e i loro usi. Quando faccio una vita sociale, però. Non cambierò certamente il mio modo di pensare e di essere nel mio privato e nel mio intimo, non mi sarebbe possibile, se non per poche cose, quelle che, tra l’altro, si adegueranno meglio a me stesso.

Per fare l’esempio più scontato, se mia moglie o mia figlia devono uscire sapranno come me che devono mettere il velo, che sia hijab  o mezzo niqab poco importa, o che non devono entrare in locali pubblici, bar ecc., se non accompagnate da un uomo. Così si vuole in quel Paese. Bene lo faranno per rispetto e, soprattutto, perché in quell’ambito è giusto così. Ma non riterrò mai che sia giusto, in quanto imposto, secondo la mia ottica e la mia cultura, e non sarò disposto a cambiare le mie idee. Così quando moglie e figlia rientrano in casa e si è chiusa la porta, il velo scompare, se si invita qualcuno, amici o chi altro di sesso maschile in casa nostra, non porteranno il velo, berrò birra e mangerò maiale (se ne trovo), sempre che non ci sia una legge che me lo vieta anche nell’abitazione privata. E quando rientrerò nel mio Paese quelle usanze saranno cancellate dalla mia vita quotidiana. Cioè non mi integro, ma convivo, mi adeguo. Non penserò mai e non crederò mai che la donna sia da relegare a un livello inferiore e tale sia rispetto all’uomo, sempre ammesso che il senso sia quello per quella cultura.

C’è di più. Se mia figlia va a scuola e frequenta ragazzi del posto, come giusto che sia, la inviterò a rispettare i loro principi e a imparare cos’è la cultura di quel Paese, ma poi la educo in famiglia secondo i miei principi culturali e se dovesse contestarmi, chiedere di voler vivere come gli altri ragazzi di quel luogo, seguendo le loro linee e le loro idee, non mi opporrei, ma cercherei in ogni modo di farle considerare quali sono i punti che non ritengo giusti o opportuni di quella cultura e, certamente, la metterei a confronto con la mia, se non altro per spirito critico e per renderla completamente cosciente e consapevole della propria scelta.

Questo pone il problema delle seconde e terze generazioni. Anche per loro, tolti i casi, forse non pochi, in cui un’integrazione avviene, l’integrazione così come la si prospetta non sembra una cosa del tutto possibile. Per quanto possano frequentare la scuola di stato, passare giorni sui mass media, i social, condurre una vita di comunità con coetanei ecc., anche con l’uso di mezzi che possono sembrare coercitivi, tipo il divieto di parlare la lingua madre a scuola, l’educazione che viene impartita poi a livello famigliare e nel gruppo etnico che inevitabilmente si costituisce, anche se fosse solamente per difesa o per avere una seppur inefficace mediazione almeno iniziale tra vecchio e nuovo, influirà sempre sul loro modo di pensare, porsi e essere. Sempre è stato così. La creazione di una popolazione o di una cultura creola, non solo nel senso linguistico del termine, è un’utopia e è stato in pratica dimostrato, a meno che non si ricorra a mezzi estremi, come la pulizia etnica.

Senza dover ricorrere a mezzi così drastici e aberranti, per altro ancora di attualità, qualcuno ci ha provato a dire il vero, riuscendoci, anche se con esiti postumi disastrosi.

In Danimarca si pose durante il ‘900 il problema di “modernizzare” la Groenlandia con un nuovo tipo di abitante. All’inizio degli anni cinquanta la Danimarca indisse un Programma di rieducazione forzata dei bambini groenlandesi, esquimesi, di etnia inuit per la precisione. Il progetto, organizzato in collaborazione con la Ong Save The Children, aveva come scopo dichiarato il miglioramento delle condizioni di vita della colonia danese, per creare un’élite per guidare la Groenlandia. Il governo inviò  dei telegrammi ai preti e agli insegnanti che si trovavano nell’isola, chiedendo di selezionare i bambini più intelligenti, tra i 6 e i 10 anni.

Prima del trasferimento e dell’affidamento a famiglie danesi, i piccoli dovevano trascorrere l’estate in un campo estivo. Si trattava però di un vero e proprio sopruso, in quanto i bambini venivano strappati dalle famiglie originarie.

E nell’estate del 1951 questa sorte toccò ad H. T., una bimba di 7 anni. Due ufficiali dell’esercito danese andarono a prelevarla nella sua casa nella capitale della Groenlandia, Nuuk. Convinsero (obbligarono) la madre, spiegandole che le avrebbero insegnato il danese e garantito un’ottima istruzione. La madre dopo un’iniziale rifiuto, accettò, anche perché vedova e con tre figli.

La bambina si ritrovò così con altri 22 coetanei su una barca per la Danimarca e collocata nel luogo dove era stato allestito il cosiddetto “campo estivo” dove, tra l’altro, contrasse un eczema piuttosto serio. Una volta trasferita nella famiglia adottiva danese la bambina, racconta oggi, non si trovò subito bene.

Dopo un anno, assieme a 2/3 dei bambini deportati, venne riportata in Groenlandia, mentre sei bambini rimasero con le rispettive famiglie adottive con il supporto di Save The Children.

Tornata dalla madre le raccontò tutto quello che le era accaduto. Si accorse che la madre però non proferiva parola, e quando lo fece la bimba non capì nulla. Parlavano due lingue diverse, la piccola aveva completamente dimenticato l’esquimese e la maggior parte degli usi della propria tradizione.

Nel frattempo la Croce Rossa danese aveva istituito un orfanotrofio a Nuuk, e qui vennero trasferiti i piccoli inuit di ritorno alla Danimarca, lei compresa. Tutto questo per evitare che tornassero a vivere con le proprie famiglie. Nell’orfanotrofio era rigorosamente vietato parlare eschimese. Quando i bambini divennero grandi e a conoscenza, per via traverse tra l’altro, poiché il governo danese tace ancora sul fatto e ugualmente Save the Children e la Croce Rossa danese, rimasero come si può immaginare sconvolti anche perché molti di loro, pur avendo dimenticato la propria origine e essersi completamente integrati, conservano danni psichici apparentemente immotivati, e che dopo la rivelazione dei fatti, gli psichiatri e gli psicologi spiegarono piuttosto facilmente.

Esperimento riuscito? Per quel che riguarda l’integrazione sì, ma con quali danni e conseguenze? E questo a prescindere dall’abuso e dalla violenza con cui è stato perpetrato, non molto diverso da una pulizia etnica col gas nervino dopotutto.

Conclusioni ognuno le tragga da solo secondo la propria visione e magari sia dia una letta alle poche righe di un antropologo (sempre poco opportunamente consultati in quanto forniscono una interpretazione quanto più scientifica, nel senso di comprovata da studi e indagini sul campo e non con finalità e ipocrisia politica viziata da appartenenza ideologica aprioristica da qualsiasi parte e colore provenga, quando non da opportunità populistica di stampo propagandistico elettorale per la conquista o il mantenimento del potere sulle spalle del popolo, se ancora esiste) di fama internazionale come Francesco Remotti.

Francesco Remotti da LINKIESTA, Luglio 2019.

Un altro tema caldo dell’attualità è l’integrazione. Non sono pochi coloro che parlano di un’impossibilità di convivenza pacifica fra diverse «culture». Da un punto di vista antropologico cosa significa «cultura» e pensa che possa esistere un modello di accoglienza funzionante?

Ci sono molti nodi da sciogliere in questa domanda: cultura, culture, accoglienza, convivenza, integrazione, conflitto. Partiamo da cultura sotto il profilo antropologico: a) cultura è qualunque insieme di comportamenti appresi e relativi prodotti, materiali o mentali che siano; b) ogni cultura nasce da una selezione di alcune possibilità, invece di altre; c) ogni cultura è quindi sempre particolare, mai universale. Ciò significa che le culture sono sempre diverse tra loro: mai però assolutamente diverse, bensì diverse e simili nello stesso tempo, ovvero sono simili in quanto condividono aspetti, temi, oggetti ecc., e sono diverse nella misura in cui non condividono scelte, valori, principi. Per quanto riguarda somiglianze e diversità è dunque sempre una questione di grado. Un grado sufficiente di somiglianza favorisce senza dubbio l’accoglienza. Ma somiglianze e diversità non sono quantità fisse: i soggetti umani possono aumentarle e diminuirle, oppure considerare più importanti certe somiglianze rispetto alle differenze o viceversa, oppure ancora considerare le differenze non già come fattori di allontanamento e di respingimento, ma come elementi che possono essere valorizzati. Guardiamo la differenza tra integrazione e convivenza. L’integrazione è sempre una relazione asimmetrica e gerarchica, in quanto si basa sul principio che, per esempio, A è la società che accoglie e integra B, nella misura in cui B accetta i principi di A, rinuncia alle proprie differenze più consistenti, decide di assimilarsi ad A, di divenirne parte o addirittura di fondersi e scomparire in A. Al contrario, la convivenza tra A e B avviene su un piano di maggiore parità: qui non si annullano le differenze di A o di B, ma le differenze vengono persino esaltate e armonizzate con le differenze altrui. Qui le differenze non sono ostacoli (lo sarebbero in vista dell’integrazione); sono invece risorse sia per A sia per B, anzi per l’insieme A-B. Ma, tutte le differenze sono risorse? Qui nasce il problema delle compatibilità: non ogni differenza è compatibile con qualsiasi altra differenza. È dunque probabile che si debbano aprire delle discussioni, scendere a compromessi, operare delle scelte. Il che significa che il conflitto è sempre in agguato: un conflitto che può essere ricomposto, circoscritto, persino ammesso e ritualizzato, oppure un conflitto che esplode e che induce i protagonisti a scelte radicali, come quella del reciproco allontanamento, di un prolungamento della guerra, oppure la scelta estrema della soppressione e dello sterminio. Quindi – come si può vedere – ci muoviamo su un terreno di possibilità (estraneità, scambi, integrazione, convivenza, conflitto, sterminio): dipende da noi decidere quale strada intraprendere, quale strategia adottare, e ciò naturalmente in rapporto anche alle scelte degli altri, i nostri potenziali nemici o alleati. Dunque non è soltanto questione di accoglienza: le cose cambiano se si concepisce l’accoglienza in vista di un’integrazione (annullamento delle differenze) oppure in vista della convivenza (valorizzazione delle differenze). Sono tutti problemi assai complicati: non esistono formule sicure, se non per le soluzioni più radicali. Specialmente per l’accoglienza-convivenza occorre che i noi si attrezzino di intelligenza e di cura: occorre che sviluppino una vera e propria cultura o arte del convivere.

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