Io, Icaro e il telecomando

Mi permetto di ripubblicare la recensione di Maria Lenti del 2015 su “L’altro giornale delle Marche”, del mio romanzo Io, Icaro e il telecomando edito per 0111 Edizioni lo stesso anno.

Un colpo di nostalgia forse.

Uscita in www.altrogiornalemarche.it, agosto 2015

Rec. di Maria Lenti

Enrico Maria Guidi, Io, Icaro e il telecomando, Zerocentounounidici, 2015, p. 130

Il tessuto dell’ultimo libro di Enrico Maria Guidi è Urbino. Simile ad un qualsiasi luogo di una Italia senza spinte. Urbino, i suoi silenzi e l’atmosfera pesante, mi hanno intrigato.

Questa città gode di una letteratura, mi fermo al Novecento, che l’ha elevata a paradigma di soffi vitali nella esistenza di una persona. Per Carlo Bo (in libri e momenti diversi) Urbino è “la città dell’anima”. Paolo Volponi, nelle pagine sulla sua vita (diverso il discorso sui romanzi o sulle poesie), ne dice la forza e il limite, vedendone, tuttavia, bellezza e potenzialità. Poeti e scrittori, viventi e qui residenti, e testimoni “di passaggio” avendo qui studiato (Scuola del Libro, Università, Accademia di Belle Arti, Isia) ne scrivono come di luogo mitico per la luce, l’arte, un’ambiance che resta a confortare quanto la vita sottrarrà di suo a ciascuno. Io sto ricapando dai miei ricordi la Urbino-anni Sessanta e Settanta del Novecento, gli anni di una mia età in formazione, protesa peraltro verso la consapevolezza di me donna. Alcune pagine-assaggio sono già in un libro collettaneo (Dove sta andando il mio italiano?, a cura di Alessandro Ramberti, Fara, 2014). Urbino la sentivo viva (e viva era) di proposte e di stimoli, di lacci e di libertà. Mi spingeva alla conoscenza e…mi frenava. Un senso di possibilità e di costrizione: in mezzo io con tutte le mie aspirazioni e “prove” di autonomia. Il conflitto ne incideva la necessità.

Che cosa ne è stato, in seguito, di quella Urbino stimolante in ogni caso, che tratteneva e mandava via, che attirava a sé e proiettava altrove? Generosa. Ci ha donato pensieri e idee. Ne richiedeva. Non glieli abbiamo negati: parole, dibattiti, incontri.

Tra me e Enrico Maria Guidi corre una generazione. Lui, infatti, è stato giovane negli anni Ottanta del Novecento. In questi anni il protagonista del suo libro, le ragazze, gli amici di Io, Icaro e il telecomando hanno venti anni, frequentano l’università, danno esami senza patemi d’animo, magari vorrebbero in seguito avere una docenza nell’ateneo ma sanno il “gioco” delle nomine e non si illudono, fumacchiano e più. Bivaccano in miniappartamenti, bar e piazza di una città spettrale, da cui non hanno niente e alla quale nulla restituiscono in termini ideali e di risarcimento sentimentale. L’insegnamento e il lavoro saranno dentro una normalità depurata di ogni condivisione emozionale. C’è chi inventa il suo lavoro, chi insegna, chi mescola realtà e fantasia, apparenza ed apparire senza sussulti. Scherzo forse, forse impotenza. Certo non agendo il sogno sprigionato da una Urbino caput mundi di stagioni precedenti.

Il loro linguaggio tira l’evidenza. Affidato ad un eloquio che, giusto in quei tempi, calava da un iperuranio letterario alla quotidianità delle mezze parole, restringe i campi semantici della comunicazione al pieno patetico di “parolacce” non più trasgressive.

In questa nebbia e in una sorta di esistenzialismo al ribasso si muovono il protagonista, Icaro, Michela, Amalia, Frenc, …un andare sghembo, nel filo del provvisorio, inavvertito alla coscienza. Le domande inesistenti: dove, con chi, quando, Urbino, Bruxelles, Milano, l’America: ma sono poi veri questi luoghi, sono risolutivi i passaggi di questi giovani negli spazi del loro definirsi? Sono vere le ragazze nella loro esibita libertà (incompresa dai partners)? E quegli amori, repentini e sofferenti a volte, a coprire notti e gesti, sterili, quasi afasici?

Realtà come somma di ectoplasmi, sembra. Un vivere non scelto. Dipendente da un telecomando. Gli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta: un giro di boa a spegnere velleità. Forse c’è stato un momento di riflessione, lampo impossibile da cogliere… Ma Icaro non vola. Il suo mito resta a non significare l’incavo tra bisogni e desideri.

Enrico Maria Guidi restituisce in Io, Icaro e il telecomando il periodo dell’ultimo Novecento – esteriori i coinvolgimenti, sottile e non esplicitata la disperazione del consumo del tempo – nella presenza di una perdita. Amara, nel perché non detto né rintracciabile se non nelle pieghe di un reversement di bobine mal sbobinate perché male incise. Urbino e una generazione in perdita. L’Italia e una generazione in perdita.

Durata della stasi. Sentore di tale resa si era avuto in Girardot e gli altri, poesie del 2006 dello scrittore urbinate: ma il personaggio-poeta sembrava alla ricerca di un varco nella instabilità contestuale. Poi, nel romanzo La tana (2007), giallo sui generis dispiegato nelle vie e nei vicoli della città feltresca, in cui vive e gira nascosto un feroce assassino alla ricerca di documenti che si riveleranno dirompenti, e tacitati, nella comunità. Un riscatto, quasi e invece, Paura d’averti (2012): tenera, determinata nonostante le paure, lettera alla figlia appena nata. (Talmente femminista, la lettera, da sollecitare alla fine il critico, me-donna nel caso, a un augurio alla figlia: nell’ascoltare tutte le parole del padre fino in fondo, perché giuste e belle per lei bambina e donna, facesse poi tutte le sue scelte secondo i propri e soggettivi intendimenti fuori dalle dritte femministe paterne). Un’apertura, ancora.

In Io, Icaro e il telecomando, radici, giorni, prospettive non solo più non sono ma non hanno ragione di essere nemmeno in nomine. Si va come si va. Nessuna strada alle spalle, nessuna via davanti. Urbino rifiuta probabilità di partenze, non offre ritorni consolatori. Gli uni e le altre pari sono in un’epoca indifferenziata. Per estensione, in una Italia fissata ad un presente sbancato. Gli anni Ottanta-Novanta. Vi avverto sintomi, indizi, inizi di anni successivi, compresi quelli che sto vivendo: e tanto basta a dire la valenza del romanzo di Guidi.

M. Lenti

Agosto 2015

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