L’ASPRA DULCEDO, DI MARIA LENTI.

A volte (spesso) una frenesia strana e indistinta mi coglie e mi porta a prendere tra le mani, anche casualmente, un libro di poesia: Paul Celan, Sandro Penna, Edza Pound, Thomas Dylan, Gregory Corso, gli amati Giorgio Caproni e Vittorio Sereni, la compagna di sempre Alda Merini, Stéphane Mallarmé, Maria Lenti, non ha importanza, è bisogno di poesia. Poi, se ne ho voglia, scrivo per meglio capire, più che altro. Forse perché la narrativa ormai, tranne pochi casi (e mi salta in mente il nome di Torino e dei suoi bei romanzi e, forse solo in tono un po’ minore, quello di Cuppini, tanto per restare in loco), ha raggiunto livelli di quasi illeggibilità notevoli; tutti scrivono e sempre le stesse cose, sembra che l’importante sia pubblicare per il proprio cortile e null’altro, nulla da dire. Sono questi tempi che saranno ricordati per la poesia e per la saggistica, quella buona, ma è un discorso complesso. La poesia sovente risponde a un’altra esigenza, ben più urgente, specie quando non è l’illuminazione di un attimo, ma un percorso che attraversa l’ansia della vita stessa. Così è, rileggendola a distanza di qualche anno, quella di Maria Lenti.

Quando anni fa incontrai personalmente Maria per la prima volta in un bar del centro con un caffè o un tè, o forse un ace, davanti, dovendo sostenere una lezione sulla sua poesia, mi aspettavo un personaggio complesso, nel quale avrei dovuto distinguere vari aspetti per potere avere un’idea quanto più chiara possibile del suo versificare: separare cioè la donna, dalla professoressa, dalla parlamentare e dalla poesia. Sono state sufficienti poche frasi per farmi capire quanto tutto ciò fosse inutile: la politica, la docente, pur occupando un ruolo importantissimo nel suo essere donna, anzi prima di tutto persona, avevano comunque un ruolo in qualche modo decentrato, non costituivano la vera cifra di Maria; ciò che le urgeva, che usciva da ogni parola, da ogni espressione era piuttosto poesia. Stessa sensazione rileggendo i suoi versi, quelli di allora e quelli di adesso.

La poesia non serve per conoscere, la poesia è conoscenza, questo mi sembra emergere, e mi ha colpito, da questi versi. Non è nella contemplazione del essere che si capisce il mondo, ma nel suo divenire, nelle azioni, anche e soprattutto, emotive che si susseguono, si sovrappongono. La Lenti è brava in questo gioco e lo fa attraverso la struttura spesso non formale e consueta del componimento, ma, soprattutto, tramite la parola che si assume il compito di elemento risolutivo. Voglio dire che, ad esempio, nella nota Sinfonietta, il canto si svolge quasi a segmenti, donando un senso di crescente attesa che, però, tutto si risolve proprio nel verso finale, in quelle due parole, “aspra dulcedo”, nelle quali sono racchiuse sì, le suggestioni di tanta letteratura a partire da Dante, per essere limitativi, ma che si vestono di un moto risolutivo, di una tensione alla conoscenza di se stessi che si placa senza tuttavia rinunciare alla coscienza dell’asperità della vita, forse del contingente.

L’attimo di questo divenire costante non si esaurisce nella ricerca spasmodica del nuovo, ma neppure nel rimpianto incondizionato del passato, del “come eravamo”, ma si sviluppa nel tempo soffice con un “battito d’ala”, lieve, sommesso, ma percepibile anche nel mezzo del “trapestio” della vita, delle contraddizioni e delle apparenti certezze e dove l’importante rimane “sentirsi nel gioco”, come dei bambini, capaci attraverso proprio al gioco, forse, di scandagliare la vita e lo scandaglio privilegiato, mi appare essere in Maria proprio la poesia. Si leggano questi bei versi:

Per voce (ed eco)

Un battito d’ala solo
un battito soltanto nel trepestio
di sconti riscontri rendiconti
un respiro alito-vicinanza
gettare-tirare a riva qualche rete
un girotondo capriccio di bambini
un nero contingente da giocare
sentirsi nel gioco
del desiderare e fare
sul pieno di un insieme

insieme che eravamo.

Però è necessario fare attenzione. Quella della Lenti non è evasione dal tempo, non è un rifugiarsi in un mondo a parte, quello della poesia magari, perché sotto la patina dell’effetto artistico rimane un senso di attaccamento alla realtà, anche la più dura, e non in maniera occasionale, ma come la coscienza del destino dell’uomo o forse della storia, che non sono le stessa cosa, e del continuo, non tanto ripetersi, poiché nulla si ripete, ma riproporsi secondo un’altra realtà che va letta di nuovo anche alla luce di quelle che erano le sensazioni, le sensazioni pure di pelle, che scaturiscono e ricoprono di brividi la pelle sensibile come di fronte a un improvviso spavento o al gelo che investe la faccia e il corpo svoltato l’angolo di un vicolo urbinate in gennaio. Quando Maria scriveva questi versi la situazione internazionale non era quella attuale, se c’era una guerra era un’altra guerra, eppure la sensazione di desolazione, di allarme psicologico e sentimentale, di rifiuto istintivo per lo sgomento, non sembrano scaturite dalla visione di uno dei tanti show giornalistici che attualmente ci ossessionano, ma vissuti e recepiti non con l’indifferenza di un audio che riempie la stanza, o di immagini troppo forti per non divenire abituali, non con gli occhi e la mente assuefatti, ma piuttosto con la carne aperta di chi vive o rivive un dramma e di conseguenza, ne fa strumento di indagine e conoscenza, fin dove possibile.

Chiasmo

ancora insistono gli aerei

gli arei ancora uccidono

e le granate come crepitano

come scoppiano altri arnesi

sabbia non è deserto o steppa

(qui è la vita microrganica silente

pulsare di granelli infinitesimi

di anellini occhi zampettini)

deserto è landa distesa di corpi

bruciati crivellati abbandonati

di dolore avvoltolati d’innocenza

sotto strisciate stelle danarose

avide di rose

del deserto.

Ciò che però mi ha più sorpreso nella poesia recente di Maria è questo uso del vernacolo. Perché il dialetto? Perché il bisogno di una lingua madre? Intanto nella maggior parte della poesie non si trova un dialetto puro, quello che era dei miei nonni per intenderci, ma un misto, quasi un ibrido che miscela la lingua italiana con il vernacolo, molto abilmente bisogna ammettere, ma lasciando un senso quasi di depistamento. Perché? Non è un rifiuto della lingua, della lingua italiana, e tanto meno una stanchezza della parola poetica diciamo pura, per quanto anche la parola vernacolare ha tutta una propria purezza. Anzi mi verrebbe da dire una sua verginità. Mi sembra che in Maria ci sia stata come una svolta, e cioè la consapevolezza, sofferta, di non potere più avere l’urgenza unica di scrivere nella lingua nazionale, una lingua al fine e per molti aspetti violentata dalla contemporaneità, dal mondo dei media e dei controsensi. Una lingua, che almeno nel suo uso comune, non è più in grado di mantenere il mandato etico che impone alla poesia di salvarsi dalla violenza e dal degrado, dall’imbarbarimento, e, dall’altro canto, il bisogno di riappropriarsi di una lingua come lingua materna, originaria, incontaminata. Per fare ciò o si finisce nel silenzio, nella parola del silenzio, come per Celan, o la si strappa dall’annientamento, la si mescola con qualcosa di ancora vivo, qualcosa che per lo più è rimasto intatto, una lingua vicina, unica, che la rilevano nelle pause, negli inceppamenti che crea con le spoglie di quell’altra lingua. In questo senso la lingua madre, il vernacolo, si definisce come l’affermazione di un modo di dire che recupera il ritmo e la misura di ciò che in altro modo non si vuole esprimere. La lingua dialettale diviene quasi un gesto, c’è, e sta a testimoniare quel qualcosa che forse non c’è più, che si sta o si è già perduto.

Disordine

Vagh a la pesca tel mi dialett
trov subit sei parole
ravaston
rapascet
ravell
ratatuia
spolvaricc
sprocchj
ho preso il disordine per la cravatta
dentra c’è el mond e la mi confusion
el chiass di bordèj e quel di talk show
il girovagare senza meta
el schiamass d’ogni gener
il lavorìo della vita
l’erosione lenta dei giorni
le rob dla polittica della polis-cosa pubblica
poco gratificanti ch’en van
o van per cont di chi le fa girè
com vòl
ho dett tutt
qualca pessa da atacacc sopra
qualche gioia personale
felicità a volte per presenze ancora
plurime in avanti
csa vo’ de più
de sti tempi balordi
de stuffa de muffa de truffa
sensa storia
senza ideali senza memoria.

Sensa storia / senza ideali senza memoria”, appunto, torniamo al tema cruciale di Maria: aspra dulcedo.

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