OSSERVAZIONI SU “CUORI IN PIENA” DI A. TORINO.

Si è parlato soprattutto di bildungsroman, di romanzo di formazione, a proposito dell’ultimo bel lavoro di Alessio Torino, Cuori in piena (Mondadori); dell’iter, naturalmente drammatico se non traumatico, di un pre-adolscente verso un’età più matura: la famiglia, l’autorità, il mondo differente da quello in cui si vive, il mondo degli altri, il sesso, la follia o tale presunta, il disincanto, la realtà così come si presenta nello scorrere del tempo psichico e fisico. Sì, certamente tutto ciò c’è nel romanzo, ma non è tutto, anzi a dire il vero non mi appare neppure l’aspetto più rilevante, anche se forse più immediato. Piuttosto a me sembra che il vero grande protagonista, o almeno uno dei protagonisti principali, del racconto sia il Fiume, il fiume senza un nome preciso, senza, forse, neppure una collocazione geografica definita. Il fiume nel romanzo di Torino assume il ruolo e il senso del Mito.

Intanto però, una cosa importante c’è da notare, e che ha implicazioni dirette con il mito stesso. Come in ogni romanzo deve esistere una “crisi”, una situazione di dissidio iniziale che pilota la diegesi verso il proprio sviluppo. Il “giuramento” a cui è chiamato il giovane Corsi sottintende, mi sembra, qualcosa di più della semplice preoccupazione di un genitore per il destino del figlio, di una precauzione. L’annegamento di Andrea Gori è, in un certo senso, un peccato di hybris, la punizione che spetta a colui che ha sfidato i limiti della natura, che ha voluto tentare di oltrepassare le sue leggi comunque vada, come Prometeo, come Icaro. Il fiume è un mito inserito nella natura e ha le proprie leggi che l’uomo comunque conosce e sa che varcarle significa affrontare un pericolo e una sfida che non può che perdere. Un argomento di grande attualità che sta coinvolgendo tutte le sfere della cultura al giorno d’oggi, con opinioni che spesso divergono dalle interpretazioni canoniche e si spingono verso un possibile (per alcuni certo) superamento di quei limiti imposti dalla natura, ma questo è un altro discorso. Rimaniamo all’interno del romanzo.

Nella narrazione chi ha vissuto più o meno direttamente la tragedia che ha colpito la famiglia Gori, i compaesani, non sembrano avere molti dubbi al riguardo, il ragazzino è affogato perché è un “coglione”, chiunque in quei luoghi e pure i giovanissimi abituati a fare il bagno nel fiume, sanno che ci sono regole, leggi che l’acqua detta, come il pericolo della piena o l’effetto mulinello o risucchio che esercita una cascata proprio in prossimità della roccia. Chi sfida quelle regole è un “coglione”: “«L’ha fregato» disse lui alla fine «la piena di qualche giorno prima.» Aggiunse che quando quelli della sua compagnia erano andati a fare il bagno, la portata del fiume era nettamente diminuita rispetto ai giorni della piena, ma non era ancora nella norma. Secondo tutti, Andrea si era tuffato troppo vicino al getto. «La pressione l’ha tenuto sotto» precisò. E mi raccontò anche come un paio di nuotatori esperti che si trovavano sul posto si fossero subito tuffati. L’avevano visto ballonzolare sott’acqua come un pupazzo animato da pile all’uranio. Il getto lo teneva sotto e contemporaneamente gli impediva di allontanarsi, come se ci stesse giocando, come a volte gli animali giocano con le prede, senza crudeltà. I due avevano provato ad avvicinarsi, ma c’era quel sifone che li avrebbe trascinati giù. Le bolle risalivano intorno ad Andrea Gori e scoppiavano sulla superficie come se fossero del suo respiro” (pp. 17-18), da cui ne viene che: “«Ba’» disse Giorgio, «gli ho raccontato di Andrea Gori.» «Quel coglione.»” (p. 19).

Il fiume però non è un’entità malefica, non del tutto, non è insomma una “natura matrigna” (“come se ci stesse giocando, come a volte gli animali giocano con le prede, senza crudeltà.”), ma un qualcosa che fa il suo corso e che ha “logiche misteriose” del tutto proprie che è inutile indagare con la razionalità. In altre parole è un mito e spigherò meglio questo concetto. Sta di fatto che i personaggi, anche se non in maniera esplicita, in tale modo lo vivono, tanto che il padre del giovane Gori, uomo razionale al contrario dei paesani, si è lasciato suggestionare dalla morte del ragazzino al punto di chiedere al figlio di giurare di non andare alle Caldare e, almeno agli occhi del ragazzo, a piombare quasi in una contraddizione, tra, appunto, la sua razionalità e la superstizione: “Lui era quanto di più lontano ci fosse da ogni forma di superstizione. Non credeva a niente che non fosse comprovato dalla ragione. La sua mente vietava l’accesso tanto a Dio quanto alle scie chimiche e quindi pure, ovunque si trovassero nella gamma della credulità, ai giuramenti” (p. 10).

Nell’opera di Alessio il mito sembrerebbe identificarsi con una delle esperienze umane tra le più alte che si possano provare, non si configura come una credenza o come una particolare interpretazione della realtà, ma un vero e proprio sfondo, sostrato, che attraversa lo spazio e il tempo dell’esperienza dell’uomo, si potrebbe dire in senso diacronico e diatopico, e coinvolge ogni essere umano. Ma non solamente come un concetto astratto o teorico, il mito coinvolge direttamente la nostra vita, il modo di essere, sia che questo si presenti come conscio o come inconscio, nel senso che vedere le cose in un certo modo genera una weltanschauung, che opera una selezione tra ciò che si vede, percepisce o no. Il fiume è l’incarnazione di un mito, è parte “leale” di noi che sa parlarci della nostra esistenza, anche negli aspetti che vogliamo o che ci sono nascosti: Giorgio e Achille Spada erano rimasti sul ponticello. Contemplare un’acqua che scorre tranquilla è sempre d’aiuto, perché un fiume ha quella voce leale che parla per noi, soprattutto quando ci sono cose che non vogliamo ammettere e ancora meno accettare “(p.308). Non è necessario neppure che sia un vero e proprio fiume a muovere determinate suggestioni più o meno consapevoli, basta un rivolo d’acqua, magari unito alla suggestione del posto, il cimitero, e all’occasione della visita, la cremazione del padre, a risvegliare sensazioni che stimolano e fanno riflettere sulla vita e sul suo significato, sulla sua forza, e non è più la memoria che ricorda e rivive sensazioni della prima giovinezza, ma quelle di un uomo maturo: “Soltanto quel mattino avevo osservato come il ruscello d’acqua attraversasse il vialetto del cimitero di Pieve Lanterna per gettarsi gorgogliando nella chiavica – l’acqua era trasparente sopra la ghisa, l’energia lucente della vita che continua con forza immutata” (pp.323-324).

Tutto si lega al mito in un modo o nell’altro, non solo attraverso il ricordo, ma anche tramite le sensazioni sensoriali, gli odori, i rumori, che echeggiano e riportano all’origine, a una situazione primordiale inaspettata e sconosciuta, al centro stesso dell’essere. Perché il mito seduce, permette solo di intravedere qualcosa, stupisce, eccita e affascina, è in esso, nel mito, che l’uomo può scoprire le proprie radici e, forse, pure le proprie origini come facenti parte del suo esclusivo modo di essere. E la memoria, quella che di fatto conduce tutto il racconto nel romanzo di Torino, si rivela nel mito stesso non solo come rimembranza cosciente di fatti che hanno segnato e caratterizzato l’esistenza dell’individuo, ma un ricordo che sa viaggiare attraverso epoche e millenni, fino quasi a raggiungere le origini stesse del suo stesso linguaggio e si incarna nelle cose che attraverso il simbolo rinviano a una dimensione archetipica, non solo il Fiume, ma anche, ad esempio, la lytoceras, la piccola ammonite vecchia di centottanta milioni d’anni, capace di spostare la mente verso immagini e sensazioni che immediatamente richiamano un modo mitico e arcaico: “Osservai la Lytoceras sotto la lente. Le coste ingrandite dal 10x sembravano le dune del deserto. Glielo dissi” (p.195). In altre parole nel mito è possibile scoprire ciò che l’uomo è, il suo ruolo forse, forse quale è il suo destino uguale a quello di ogni altro ente del cosmo: “«È la loro storia. E in questa storia si legge quello che dobbiamo fare tutti. Vivere le nostre ere. Questo è quanto. Vivere ognuno la nostra era con una qualche disciplina. E poi estinguerci.»” (p.196), e ancora ribadito nella mente del giovane Corsi: “Vivere la propria era. E poi estinguerci” (p. 236). Persino le presenze umane possono diventare secondarie e essere sostituite da sensazioni che colgono il soggetto e lo trasportano in una dimensione altra che gli permette di scoprire il proprio cuore attraverso ciò che lo circonda e che gli giunge attraverso i sensi e lo conduce al centro del mondo: “E anche se non ci fosse stato nessuno di loro, c’era pur sempre l’odore notturno degli ippocastani del parco e l’odore forte del fiume dietro il muretto. La tenue marcescenza di fine estate come conferma di un dolore tanto selvatico quanto casuale. Ho scoperto quanto fosse grande il mio cuore perché in quel momento si aprì e ci entrò la notte, con le luci stroboscopiche dell’autoscontro, ci entrò la Vernosa, che smise di gettarsi dal monte per riversarsi dentro di me. Il Ciao di Brat avrebbe potuto coprire qualsiasi distanza ma non avrebbe potuto sfuggirgli. Ovunque fosse andato, il mio cuore lo avrebbe lentamente risucchiato indietro, perché non era soltanto grande, era enorme, e aveva la stessa massa del buco nero massiccio al centro dell’universo, era il buco nero massiccio al centro dell’universo” (pp. 298-299).

E il mito attraverso la sua rappresentazione e narrazione, al limite del divenire mitologia, si incarna nella parola e collima con la realtà, ma rimane nascosto sotto un velo che lo rende misterioso e, forse, per questo essenziale, tanto che pure il vocabolo lanciato come invettiva, con rabbia, l’urlo che può rivelare l’istinto violento dell’uomo, si frange contro di esso e in esso viene assorbito, quasi annullato: “«Bastardo!» gridò Achille Spada. Anche quella parola risuonò sotto l’arcata, ma in un modo diverso, più potente rispetto all’urlo di prima. Ci echeggiò dentro. Poi il fiume se la portò via” (p. 160).

Probabilmente ci si potrebbe domandare a questo punto a cosa mira il mito, diciamo pure, del “Fiume”, nell’opera di Torino, quale è il suo significato in altre parole. Ma fare un’ermeneutica del mito vuol dire ucciderlo, annullarlo, interpretarlo ha l’effetto di privarlo della sua efficacia, del suo agire inconscio o archetipico. Come per il gatto di Schroedinger la presenza contemporanea di due stati classicamente distinti, il gatto è vivo ed è morto, prima dell’apertura della scatola, si adegua bene alla possibile (o impossibile) interpretazione e comprensione del mito.

Sta di fatto però, che una storia deve essere raccontata e la sua forza risiede soprattutto nel come la si racconta, la si narra. Risiede lì il nucleo dell’arte, nello stile dell’autore. Scriveva Walter Benjamin in Angelus Novus (più precisamente nel saggio Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov): “(…) l’arte di narrare si avvia al tramonto. Capita sempre più di rado d’incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve: e l’imbarazzo si diffonde sempre più spesso quando, in una compagnia, c’è chi esprime il desiderio di sentir raccontare una storia. È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze” (ed. Kindle pos. 4804), ebbene Alessio Torino dimostra pure in questo nuovo romanzo di sapere narrare, con uno stile che nella sua chiarezza racchiude ansie e aperture di riflessione, e di scavare non con una trivella, ma con il lavoro metodico della vanga, nella concezione umana, proprio attraverso quell’apparente facilità dei periodi che celano, e al tempo stesso, rivelano a un occhio allenato, il lavoro lento e metodico sulla frase, sulla parola, persino sui suoni, rendendo il lettore partecipe di un’esperienza che rimane aperta; non dà conclusioni o sentenze l’autore, ma instaura un dialogo tra sé, la propria opera e il lettore, cioè coglie il significato primo dell’arte, il “contatto”, come diceva Robert Rauschenberg, in cui il fruitore entra egli stesso come protagonista e interprete. Torino sa, con la sua prosa, introdurre coloro che si apprestano a leggerla nell’esperienza stessa della narrazione che si fa viva e si impersona, quasi si incarna, nel lettore che diviene in certo senso esso stesso parte di quella storia e dei suoi personaggi, proprio ciò che accadeva e accade per i miti, rappresentati o raccontati nei riti iniziatici e in quelli di passaggio, come il nascere, il conoscere, lo sposarsi, il morire e, appunto, il crescere, il passaggio da un’età della vita all’altra, dall’adolescenza all’età adulta, e torniamo così al bildungsroman.

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