PAURA D’AVERTI.

 

Pubblico un primo stralcio di un racconto che vinse il Premio speciale per gli inediti del Presidente di Giuria al premio Nazionale “Ho diritto a…” di Massa Carrara, e voluto poi pubblicare nel 2012 dall’allora emergente Book Sprint Edizioni. L’intenzione è quella di pubblicarlo tutto, a “puntate” sul blog, se ci sarà un riscontro. Naturalmente è un po’ datato e molto è cambiato nel frattempo, sia nello stile che nel “modo” di vedere e interpretare il “mondo”, ma qualcosa rimane sempre costante. Non è lungo, una quarantina di pagine ed è di facile e piacevole lettura, due o tre paginette adatte per prendere sonno la sera. Buona lettura.

 

PAURA D’AVERTI.

 

A volte mi domando come sarebbe stata questa storia se tu fossi nata in settembre, in ottobre, oppure in novembre. Se davanti ai tuoi primi mesi di vita non ci fossero stati il tepore di giugno, l’afa di luglio e lo schiocco del sole di agosto, quando, immobile e senza pensieri apparenti, stavi, vestita solo del tuo pannolino, a braccia aperte, pugni serrati e occhi socchiusi, nella culla o nella carrozzina. Attorno la penombra delle serrande chiuse, l’ovattato rumore di passi delicati per evitare inutili disturbi, il frusciare di un ventilatore stanco nell’altra stanza.

Cosa sarebbe accaduto se invece dei corpi seminudi e dei visi rossi congestionati o abbronzati, avessi visto volti pallidi, maglioni e berretti, mani ruvide ricoperte da guanti. E lana sulla tua pelle tenera e delicata, odore di termosifoni nell’aria chiusa e stantia della stanza. Probabilmente non sarebbe cambiato nulla, o forse tutto, non ci è dato di saperlo; né a te e tanto meno a me.

Ma intanto, perché sei venuta?

Semplice: perché ti abbiamo disperatamente cercato, per mesi, per anni. Mentre tu te ne stavi nascosta in qualche parte sconosciuta, forse divertita, sogghignante, ironica, perfino cattiva e non volevi attecchire. Chissà in quale piega del nostro cervello avevi preso residenza? Forse in quella dell’immaginazione o della speranza. Una speranza che si tramutava lentamente in ansia, in fretta, quella tipica di chi si vede restringere il tempo, di chi si convince che non ci sarebbero potute essere altre opportunità, che ormai tutto si era compiuto, e l’orologio biologico non avrebbe concesso altre chance. Perché le occasioni sono poche e sono piccole, soprattutto, e, se vengono, il momento per coglierle è rapido. Sfuggite è inutile e patetico rincorrerle lungo le parallele metalliche dei binari, i treni non tornano indietro.

 

Tu, comunque, eri fonte di lunghe discussioni, di progetti, di sogni più o meno a occhi aperti, che si concludevano sempre con il rammarico di avere atteso troppo, sarebbe meglio dire temporeggiato troppo.

Quindi, ti dirai, “quando avete avuta la certezza della mia presenza siete scoppiati di gioia”.

Tua madre credo di sì. Certamente sì. Per me fu diverso.

Un panico mai provato prima si è impossessato di me. Un panico egoistico, una voce che diceva dentro di me: “e ora che accadrà? Come cambierà la mia vita?”. Paura immotivata, paranoia senza base.

Ora con il senno di poi, posso affermarlo.

Dopotutto e in un certo senso, allora pensavo, che eri ancora solo una cellula fecondata che attendeva di essere scinda in altre cellule, non ancora una vita, non ancora mia figlia o mio figlio.

Tua madre invece era certa che tu fossi già sua figlia e, sottolineo, figlia. Persona che viveva dentro di lei, simbiosi perfetta, ma potremmo dire, a voler essere proprio cattivi, parassita. Parassita perché io non capivo, o non volevo capire. Tu, lì dentro la donna che amavo, che succhiavi la sua linfa vitale, che la rendevi ai miei occhi spesso odiosa, insoddisfatta, intrattabile. La responsabilità la davo chiaramente a tua madre, ma nell’intimo del mio subconscio era la tua la colpa, perché non ti conoscevo, non sapevo cosa tu fossi, mentre la donna che ti portava dentro era una guida, qualcosa di irrinunciabile per me.

 

Panico.

Panico totale.

 

La vita, quella quotidiana, si faceva intanto sempre più difficile. Non pareva più possibile vivere un po’ per se stessi, tutto era in funzione di tua madre o, meglio, di te. I pasti, le ore di sonno e di veglia, il tempo da dedicare al lavoro, persino la scelta dei programmi televisivi, dei colori dei vestiti, dell’andatura dell’auto, del livello di colesterolo o del tasso alcolico nel sangue. Il grado di fetore dei piedi o delle ascelle la sera non erano più gli stessi e, quel che peggio, non erano mai gli stessi, l’imprevedibilità era diventata il leitmotiv dell’esistenza.

Paranoia, paranoia totale.

Qualcosa tanto deve averti emozionato in quell’attesa”, penserai.

Sì, l’allarme. Una specie di sirena che mi ha trapanato il cervello, mi ha bloccato la voce e schiantato le articolazioni delle ginocchia. Una sensazione simile a quella che provai più di vent’anni fa quando correvo in moto per raggiungere un televisore e guardarmi la partita dell’Italia ai Mondiali dell’Ottantadue, una semifinale, e la moto è impazzita e mi sono fatto venti metri di asfalto sulle ginocchia. Ma, quella volta, si sono sbucciate solo le ginocchia, e neppure tanto, ottimi i jeans di un tempo, e la partita l’ho vista ugualmente, e abbiamo anche vinto, tanto che sono andato in corteo per le vie della città dimenticandomi delle escoriazioni.

 

Si dice che i ricordi si accavallano col tempo e che quelli più recenti tendono a scomparire per un certo periodo. Io, ti garantisco, quel particolare momento, quell’ansia totale e totalizzante che tua madre mi trasmise, l’ho registrato nel mio computer interiore ed è indelebile. Mangiucchiavo distrattamente dei tortellini alla panna riscaldati nel microonde di un baretto durante la pausa pasto di un corso, uno di quelli che si fanno per avanzare di carriera, per divenire dirigente. Quello strumento geniale, per quanto diabolico, che è il cellulare squillò. Una. Due. Tre volte. Pulsante invio, il tortellino gommoso e bollente in bocca. Risposta. Era tua madre, ricoverata in ospedale per contrazioni anticipate. Di un paio di mesi almeno.

Il piatto di tortellini divenne una specie di mistura indegna, un pappone per porci o una di quelle sbobbe che ho sempre immaginato nelle ciotole sporche del Conte di Montecristo o di Papillon. Il mio stomaco si era contratto, una palla da biliardo, un grumo annodato o un’assenza totale di materia, simile a quello del tuo bisnonno dopo la sua asportazione per un tumore.

La bocca completamente priva di saliva e la lingua secca e percorsa da tagli, quasi non avessi bevuto per giorni o ingoiato per divertimento lamette da barba spezzettate. Il cuore accelerato, come se mi fosse tornata l’antica tachicardia ormai sconfitta grazie ai betabloccanti.

Perché tanta apprensione”, dirai, “al limite avrebbero potuto farmi nascere. Non sarebbe stata la prima né l’ultima volta. Tanti bambini nascono o vengono fatti nascere prematuri”.

Il problema c’era e quel problema eri tu.

I medici ci avevano assillato per settimane inculcandoci che eri troppo piccola, che non crescevi in maniera normale. Per tua madre era diventata un’ossessione, una paranoia vera e propria. Soffriva, passava intere serate ad attendere un tuo movimento, un calcio e cercava, per quel che poteva, di non muoversi, di non affaticarsi. Insomma, facendoti nascere con quell’anticipo, si rischiava di ucciderti. La mamma ti chiamava la mia piccola pulce. Per questo, penserai, quella notizia mi aveva gelato il sangue. Forse, ma non solo per quello, anzi non principalmente per quello.

Sia ben inteso, avevo già cominciato ad affezionarmi a te. Perché? Semplice, per il fatto che ti avevo visto. Non intuito, non sentito come avvenne poi quando hai preso a scalciare nella pancia di tua madre, non immaginato, ma visto con i miei occhi. Sì, sono un Tommaso e non mi rincresce esserlo.

Prima sullo schermo, poi in foto. Inizialmente solo un puntino di uno strano colore tra il giallo e il rosso, ma un puntino che pulsava e a una velocità che non avrei mai immaginato. Il tuo cuore certo, ed era già strano che la prima parte che potessi vedere e sentire era il proprio il cuore. Non che creda che quell’organo vitale sia il centro, il deposito del sentimento, ma sono comunque cresciuto in una cultura che per tanto tempo lo ha asserito e qualche suggestione è rimasta anche dentro di me.

(A proposito non credere mai alla rima cuore-amore, anzi non credere mai a nessuna rima).

Poi, di nuovo su quello schermo, una foto. Finalmente qualcosa che assomigliava a una figura umana. Un profilo, con la bocca, il naso, la fronte e gli occhi, persino il mento. Un tratto marcato e al tempo stesso indefinito, come quelli di Licini, gli angeli di Licini. Nella mia memoria il fondo era blu, proprio il blu di fondo dei quadri di Licini.

Insomma sapevo che c’eri ed eri una persona.

Ma non fu questo che mi terrorizzò, quando sentii la voce soffocata e tremante di tua madre dall’ospedale. Dopotutto, pensavo insensibilmente, se questo è il corso della natura e la nostra scienza non può farci nulla, non resta che accettarlo, soffrendoci, naturalmente, ma alla fine, è inevitabile, bisogna elaborare il lutto. Ciò che mi mandava in totale paranoia erano le conseguenze su tua madre.

Sentivo, anzi avevo la certezza che la tua perdita l’avrebbe distrutta, resa quasi un vegetale. Vedi, per lei eri già tutto, più di ogni altra cosa, eri parte di lei, una parte indelebile di lei, perderti sarebbe stato come strapparle un organo interno, magari il fegato o l’intestino da sveglia, senza nessuna anestesia. Nella maggior parte dei casi, per una madre, un figlio o una figlia è una parte integrante del proprio corpo, separarsene è un po’ come morire.

Ti aveva voluto a tutti i costi, aveva rischiato di perderti già durante i primi pericolosi accertamenti per essere sicura che tu fossi sana, un coraggio che io non avrei mai avuto. Farsi infilare un ago in pancia con te lì dentro, con il rischio di trafiggerti. Se tu fossi morta sicuramente si sarebbe accollata una colpa che non aveva, sarebbe andata verso l’autodistruzione.

Permettimi di aprire una parentesi e raccontarti tua madre così come non la vedrai mai, non la conoscerai mai, proprio perché è tua madre e i tuoi occhi sono quelli di una figlia e non potrai mai immaginare, rappresentarti, tua madre, e anche tuo padre, come dei ragazzi che hanno vissuto gli stessi problemi che tu vivrai. Con le dovute differenze generazionali, chiaramente, ma credimi, cambiano solo i modi di viverli, non i contenuti.

Verrà un momento in cui crederai anche di odiarla, la tua mamma, entrerai in competizione con lei e desiderai di andartene lontano da lei, senza capire che sta ancora proteggendoti, magari anche quando non sarà più necessario. Le madri sono fatte così, se sono madri. Non te ne importerà nulla, ma ricordo che mia nonna, allora aveva quasi novant’anni, rimproverava mio padre, che aveva passato la sessantina, quando rientrava tardi senza preavviso, anche se il ritardo era stato causato da un’urgenza di lavoro.

La tua mamma è una donna dalla forza straordinaria. Non ti annoierò raccontandoti tutto quello che ha passato, i lutti in giovane età, la costanza a sopportare tutta la fatica che pochi adolescenti sono capaci di affrontare per raggiungere i propri obiettivi, gli abbandoni, i tradimenti. Eppure non l’ho mai vista vacillare, mai piegarsi, solo girarsi indietro un attimo e poi avanti, si ricomincia da capo.

Sai, tua madre e io non ci siamo conosciuti cinque anni fa, quando è cominciata questa relazione che con gioia immensa ci ha portato a te. Diciamo pure che di vista, nel senso che uno sapeva dell’esistenza dell’altro, ci conoscevamo da sempre. E non è una cosa strana, la città, diciamo pure il paese, è piccola, apparteniamo entrambi a famiglie note. Come se non bastasse i nostri padri sono amici d’infanzia, hanno frequentato la stessa classe al Liceo come, d’altronde, noi due, anche se non nello stesso corso. Però non ci eravamo mai frequentati, prima perché lei era troppo più piccola di me, per un adolescente tre anni di differenza possono essere tanti, poi per il fatto di avere preso strade diverse, quasi all’opposto.

Ancora mi racconta che d’estate mi vedeva spesso sulla spiaggia di Pesaro e si avvicinava al mio ombrellone, perché proprio lì accanto, c’era quello di un’amica comune, o meglio di un’amica di mio fratello, quindi più piccola di me. Avrò avuto sedici anni e tua madre dice che ero un vero e proprio patacca, che snobbavo e mi davo delle arie dall’alto di quei tre o quattro anni in più. Probabilmente aveva ragione, è una forma di difesa anche quella, atteggiarsi a superiori per nascondere il proprio disagio e la propria debolezza.

 

Vuoi qualcosa di romantico? Eccotelo servito. Fu un viaggio. Entrambi diretti a New York. E a quei tempi, primi anni Ottanta del secolo scorso, un viaggio quasi di studio a New York era qualcosa che superava l’eccezionale. Ti ripeto quasi non ci salutavamo, ma già nel pullman che ci avrebbe portato a Milano, all’aeroporto, ci sedemmo l’uno accanto all’altra, e poi ancora sul boeing come fosse la cosa più naturale.

La Grande Mela ci ha poi visto sempre assieme, ovunque, nella metro, sulla 5th Avenue, nei musei, nel Bronx, al Rockefeller Center. Non accadde nulla, tornammo alla nostra piccola città, ma da quel momento divenimmo amici inseparabili, ci frequentammo con assiduità e, dopo pochi mesi, ci mettemmo assieme dopo una cena di pesce con altri compagni di viaggio. Restammo fermi fino alle tre di notte dentro il mio BMW a parlare di stronzate. Nessuno dei due voleva scendere. Poi, squilli di tromba e archi al massimo, il fatidico bacio. Era fatta. Cotti come due hot dog alla brace.

Durò qualche mese, cinque, forse sei. Poi in un freddo pomeriggio di ottobre, lungo il portico della passeggiata cittadina, di punto in bianco le dissi che era finita. Non batté ciglio, solo mi domandò il motivo. Non ricordo cosa le risposi, sicuramente una scusa buttata lì a caso e non ribatté, mi salutò e se ne andò a casa. Se dovessi confessarti ora perché allora decisi così non saprei dirtelo. Immaturità? Paura delle relazioni lunghe? Qualche residuo del complesso edipico? Sindrome di Peter Pan? O forse l’eterna stupidità dei venti anni? Tutto assieme? Probabile.

Continuammo a vederci, come amici e per molti anni.

Poi un periodo di buio, nove anni forse, altre storie, un grande amore per lei. Mai fidarsi dei grandi amori, credimi, e non fu proprio un caso, penso, se fu lei a telefonarmi dopo tanto tempo per dirmi che era finito, e non in maniera indolore, ma che finalmente aveva riconquistato la sua libertà. Ne fui immensamente felice, per lei, non mi piaceva quell’uomo. Ricominciammo a vederci da amici e dopo un anno di nuovo assieme ad aspettare te, che avresti tardato cinque anni prima di degnarci della tua irrinunciabile presenza.

Vedi che casino sarà gestire la propria esistenza e la propria esperienza? Non come ora dove sei tu a dettare tempi e luoghi, a rendere la nostra vita un susseguirsi di attimi, giorni sempre pieni di se stessi, di te. È una fatica della madonna, ma è una fatica piacevole.

Capisci comunque perché il pensiero di vederla distrutta, irrecuperabile pensavo, era più forte di quello di poterti perdere. Sai, madri si nasce, padri si diventa e non sempre. Ricordatelo, anche se cercheranno di convincerti del contrario, un uomo è padre dal momento che ha un figlio e neppure questa è una legge infallibile. Spesso credo che non esista neppure un desiderio paterno, forse un istinto paterno, quello sì, tramandare i propri geni, questo è inconsciamente importante per un uomo, come per un cervo o per un cane, o, nella migliore delle ipotesi, per uno scimpanzé, almeno inizialmente.

 

Poi sei arrivata.

Ti dispiacerà forse, ma non ci hai colto di sorpresa. Non finirai in una fiction televisiva per massaie e professioniste annoiate, con gli occhi lacrimanti incollati allo schermo, mentre trangugiano bevande a basso contenuto calorico e snack dietetici. Nessun allarme, nessuna emergenza. Niente valigia pronta da chiudere in fondo al letto, niente automobile posteggiata in maniera sicura per poter scattare via senza rimanere incastrati nel parcheggio, niente urli improvvisi pieni di terrore per la rottura delle acque o doglie fulminee. E tanto meno nessuna corsa in macchina, clacson a palla, fazzoletto o drappo fuori dal finestrino, con il rischio di uccidere tutti e tre qualche passante e un paio di cani sfuggiti al padrone, nessuna telefonata dell’ultim’ora ai parenti, magari pacificamente al secondo sonnellino pomeridiano.

Tutto era programmato: il giorno, il modo, persino l’ora. Cosa positiva devo dire. Perché vedi dietro alla mia indifferenza olimpica si nasconde l’incertezza di Paride, dietro il mio ottimismo sfrenato un’ansia biblica che non accetta senza capire, che non si rassegna inevitabilmente e non smette di lottare. E tutto ciò crea in me uno stato di deprimente logorio interno.

Tua madre dice in continuazione che sono un pantofolaio perché posso passare, anzi in prevalenza trascorro, ore e giorni seduto in casa a leggere, studiare, scrivere senza avvertire nessuna necessità di far altro se non esplicare i bisogni fondamentali. Ha ragione, dopotutto, ma io non credo che la vita debba essere inseguita, non credo che sia una tensione verso l’eterno o cos’altro. La vita è vita e basta, ora, in questo momento. È il presente che ci logora, non il passato o il futuro che alla fine non esistono. Sono un uomo del mio tempo, nient’altro, e non posso fingere di non esserlo, non sono capace di mutare il mio essere e il mio pensiero solo per il fatto che qualcuno ne ha formulato un altro per lui e per i più forse nuovo. E poi credo di saper leggere abbastanza bene la mia contemporaneità, perché è questa che conta soprattutto.

In questo modo non si costruisce nulla” dirai. Probabilmente hai ragione, ma ho fatto e realizzato, non tanto, ma a sufficienza. Ho scritto libri, più o meno interessanti, ma i libri scritti sono scritti, ho insegnato per anni, più o meno bene, cose forse interessanti, non so se utili, ma interessanti, ma gli allievi sono andati, e ciò che andato non mi interessa, ho fatto te e tu non sei passata, non passerai mai, perché ogni volta sei nuova. Qualcosa di buono insomma l’ho fatto, fossi anche solamente tu.

È un gioco duro questo, un gioco dove non vinci mai, soprattutto perché si gioca al ribasso. Credo negli altri, ma non troppo in me stesso, o meglio non penso che tutto ciò abbia veramente un senso se non quello del presente, dell’immediato. È un pensiero distruttivo, certo, ma dopotutto non ho fatto altro nella mia vita che procedere in una lenta ma inesorabile autodistruzione (ma poi penso sia il destino di tutti), anche rendendomi conto che questo mio processo, inevitabilmente, trascina con sé anche gli altri, logora in qualche modo anche chi ti sta attorno.

 

Torniamo a te.

Dunque siete entrate in sala operatoria. Nulla di eccessivamente preoccupante a prima vista; un’anestesia locale, un taglio e i vagiti. Tutto normale al giorno d’oggi. Intanto devo deluderti e privarti delle immagini che forse ti creerai quando più grande cercherai di immaginarti il giorno della tua nascita, le ore e i minuti immediatamente precedenti alla tua venuta al mondo, dell’urto dell’aria sui tuoi polmoni vergini e dell’acuto tormento alle tue pupille, improvvisamente contratte, all’impatto con la luce dei neon ospedalieri, la meraviglia di scoprire che esistevano altre persone oltre alla tua mamma e a te.

Devo deluderti, perché il tuo mondo immaginario a quel punto sarà ormai pieno delle scene viste in film e soap opere, lette in libri (spero) e sentite narrare da voci amiche. Ti immaginerai un lungo corridoio attraverso il quale il tuo futuro padre cammina, magari condividendolo con altri futuri padri, fumando una sigaretta dopo l’altra in un’ansia di attesa indescrivibile. Mi spiace tradire le tue speranze, ma non è andata così. Intanto oggi negli ospedali è vietato fumare. Se fosse stato concesso confesso che lo avrei fatto e, forse, avrei bevuto anche qualcosa di molto alcolico per placare lo stress (è una mia brutta abitudine, non reggo più di un tanto l’emozione e l’alcol mi narcotizza, rende lucido e freddo), anzi no, era mattino e io, come sempre al mattino e fino a pranzo, ero a digiuno e con la mia gastrite latente non avrei sopportato l’alcol. Bruciori che neppure il Malox avrebbe placato. (A proposito, tieni a mente il nome di questo medicinale, gli antiacidi sono una costante nella vita di tua madre e nella mia, acidi e reflussi gastrici da stress sono un contrassegno indelebile delle nostre giornate e credo che ora che ci sei tu aumenteranno, sarà un’idea, ma ho l’impressione che sarà così).

Probabilmente ho percorso quel corridoio chiaro e asettico più volte, non ricordo, magari sorridendo alle battute che i parenti lanciavano nel tentativo di allentare la loro e la mia tensione, naturalmente senza alcun risultato. Perché, sì, tensione ce n’era e tanta. Ma, ancora una volta, non era tanto rivolta a te. Tua madre si era sottoposta a decine di esami, l’eco aveva esplorato ogni antro del suo ventre, ogni millimetro del tuo corpo. Stavi bene, eri in salute e perfettamente formata. Ma l’ansia dell’imprevisto che permaneva sempre nel presente si era inserita come un tarlo nel mio cervello, come un virus che il mio Norton interiore cercava di sconfiggere o mettere in quarantena senza riuscirci. Ogni volta che mi dicevo e convincevo che tutto era sotto controllo, mi comparivano davanti agli occhi le immagini di bambini nati senza occhi, o con malformazioni interne che da sempre vedo ogni tanto nei libri di patologia o nelle riviste specialistiche di pediatria del tuo nonno.

Qualcosa poteva ancora accadere e l’eventuale reazione di tua madre era come una spada di Damocle sulla mia testa. Perché l’imprevisto c’era e tu l’avevi in qualche modo causato. Quel cordone ombelicale girato tre volte attorno al tuo piccolo collo, un triplo cappio che avrebbe potuto ucciderti o menomarti per sempre e che nessuna macchina e nessun medico aveva visto in nove mesi di studio. Mi viene in mente quello che raccontava Pontiggia. Non hanno, d’accordo, la “sfera di cristallo”, ma apparecchiature molto sofisticate sì. Chissà se sono sempre in grado di leggerle?

Con il senno di poi e con l’emergenza rientrata oserei dire che hai voluto subito mettere in chiaro che anche a te, come a tua madre, piacciono i gioielli e che per questo ti eri ornata di quella strana, micidiale, collana. Anche io adoro i gioielli, mi piace osservarli nelle loro custodie, esposti in vetrine o mostre, adoro vederli indossare dalle donne, specialmente da tua madre. Ma i gioielli, nella loro sfolgorante lucentezza, richiamano alla mia mente anche un senso di morte, forse perché sopravvivranno a chi li ha portati con tanta fierezza. Per questo probabilmente preferisco i rubini ai diamanti, il corallo alle perle.

 

7 commenti su “PAURA D’AVERTI.”

  1. Molto bello, ti prende e ti costringe a leggerlo tutto d’un fiato. Anche se si racconta quello che avviene da quando è nato il mondo…….. lei riesce a renderlo straordinario.
    Quando possiamo avere il resto?

  2. Molto coinvolgente, rispecchia tutte le ansie che noi genitori ,non per nostra volontà,attraversiamo…..poi ognuno di noi le affronta in maniera differente in base al proprio carattere…… buona vita 😉

  3. Donatella Paceschi

    Trovo qui e rileggo queste pagine con lo stesso stupore del 2012… come allora qualcosa preme dentro: l’ incontro di una umanità squisita, profondamente densa di rispetto…

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