PENSIERO DEL MIO CANE.

Eccolo lì, dietro gli schermi ultrapiatti, il dolore degli altri, un dolore sempre a metà, tra il non esserci e il compianto per quello che sarà. Che importa se le labbra sono celate da bande di diversi colori pastellati o con bandiere che poco hanno di nazionale, se nascondono sorrisi storti o smorfie seghettate come tagli di lamette sottili, indolori, ma pur sempre sanguinanti. Il giocoliere di carta si illude che il trucco funzioni ancora e che lo spiraglio inventato delle emozioni promuova una nuova sensazione, magari differente da quella che, per caso, sfiora le pupille annoiate di immagini stereotipate consuete e inflazionate, dalla pelle che cade dalla schiena infantile della bimba orientale abbronzata dal napalm sullo sfondo di un mare di palme in combustione, da simboli desueti e insensati di falci che non tagliano il grano e martelli che maccano cervelli, dal corpo abbandonato sulla spiaggia dalla marea dell’intolleranza di quell’essere minuscolo con l’orsacchiotto accanto. Se ne vanno le immagini, come le nuvole, e tornano, come le nuvole, ma non si dissolvono, non cadono in pioggia, permangono in astratto, quasi a dimostrare che la vera libertà è l’indifferenza. Protetti e esiliati in quei lazzaretti personali o famigliari, chiusi i portali di tante Sante Maria di Nazareth personali e non più veneziane, al riparo dall’ombra che da preventiva si fa ossessiva, coercitiva, quasi obbligati a attendere inermi ciò che accadrà; questi strani animali bipedi, glabri, senza istinti e difese, ammaestrati, mostrano i canini minuti solo per obbligarsi a un sorriso di convenienza, di addomesticata coerenza, dimentichi della loro antica funzione d’offesa. Non è più loro possibile difendere l’indifendibile, latitanti cercheranno i latitanti, rei cercheranno i rei, e a un orizzonte che si fa e.commerce di chi piange con tutta la faccia sveleranno come il possibile sia impossibile, e s’immagineranno che l’impossibile sia possibile.

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