SCHEDE D’ARTE: IL “SALVATOR MUNDI” DI BRAMANTINO.

Una delle opere più intense e pregiate per la sua bellezza e per la capacità magnetica che sa trasmettere, esposta nella Galleria Nazionale delle Marche di Urbino a Palazzo Ducale, è il Cristo benedicente attribuito a Bartolomeo Suardi, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Bramantino, pittore che la tradizione vuole presente in Urbino al seguito di almeno uno dei viaggi di ritorno di Bramante, e, di fatto, nell’ambito di quella corte sembra possa riscontrarsi, se non la committenza dell’opera che interessa, almeno l’humus culturale che percorreva l’ambiente urbinate.

Per quanto questa tela rappresenti uno dei vertici della pittura del XV secolo, si può affermare che sia tutto sommato stata poco studiata. Le motivazioni di tale negligenza possono essere, come di consueto, numerose e, in qualche modo, tutte motivate, ma sicuramente la difficoltà di una attribuzione certa ha avuto un suo ruolo fondamentale. Come molte altre opere il Cristo benedicente venne trovato praticamente in stato di abbandono da Lionello Venturi agli arbori del secolo scorso nei depositi del Palazzo Ducale di Urbino in uno stato alquanto precario. Era infatti ricoperta di carta ridipinta e solo dopo un accurato, quanto mai eccellente intervento di restauro, si è potuto riportare alla luce il dipinto originale e evitare che finisse in qualche altro scantinato, sopra il caminetto di qualche urbinate devoto o addirittura gettato via, magari durante la pulizia dei depositi stessi. Fu quindi inizialmente attribuito a Melozzo da Forlì, ma Ciardi Duprè dal Poggetto ne metteva in discussione l’esattezza, prediligendo, con argomentazioni più che valide, la mano del Bramantino e, ultimamente, Alessandro Marchi ha avanzato l’ipotesi che sia piuttosto opera di Bartolomeo della Gatta. Non ci si vuole addentrare in tale disputa, per la quale tra l’altro mancherebbe la dovuta competenza, ma si può sottolineare che sarebbero sufficienti i nomi degli artisti menzionati e candidati alla paternità della tela per fare cogliere il valore artistico di quest’opera.

Rappresenta Cristo Salvator Mundi in atto benedicente e si può presumere che la mano sinistra reggesse il globo con sopra la croce tipica dei reliquari e che ricorda in maniera sorprendentemente marcata quella posta nelle mani di San Francesco nella Pala di San Bernardino (oggi a Brera) di Piero della Francesca.

Quella del Cristo è una figura monumentale dove predomina la geometria del viso in cui si innesta uno sguardo fisso, ma magnetico, le cui iridi, quasi diafane, catturano lo spettatore immergendolo nel misticismo e nel mistero della figura di Cristo.

Ci si trova di fronte a un’opera che riflette pienamente la modernità e l’innovazione pittorica del periodo in cui è stata realizzata. La stesura del colore è fluida, le pennellate brevi, rapide e parallele, con schiarite veloci attraverso le quali la luce stessa, incontrando il colore, tende a sfogliarsi. I colori portati al bruno raggiungono un tono quasi olivastro nel volto del Cristo, per poi concentrarsi nel rosso vivo della veste e nell’azzurro intenso del manto, quasi la figura fosse avvolta dalla penombra di un tramonto settembrino.

Anche la costruzione prospettica e geometrica si allineano alle ricerche e alle scoperte condotte nel Rinascimento, dove il punto di fuga della prospettiva si colloca proprio al centro dello scollatura della tunica del Salvatore. Il punto di vista è quindi frontale, posto proprio all’altezza dell’occhio dello spettatore così da catturarne l’attenzione e a stimolarne la concentrazione e la riflessione. Vi è in tutto ciò una ricerca di astrazione geometrica a cui concorre l’abile uso del chiaroscuro.

Inutile affermare, anche per lo stato in cui il dipinto ci è giunto, che il protagonista assoluto del quadro è il volto di Cristo. La testa la si può definire perfettamente geometrica, e dona alla figura un’espressione quasi immobile, sospesa nel tempo, ma al tempo stesso di una dolcezza e di una comunicazione altissime. La trasparenza degli occhi ha un che di universale, come se tutta la luce possibile si fosse concentrata in quel colore diafano, ma nel medesimo modo, con quella fissità puntata sullo spettare o sull’umanità intera, emanano quasi una forza magnetica dalla quale sembra impossibile potersi separare, distogliere lo sguardo. E proprio questi caratteri riportano la memoria a un altro Cristo, ugualmente immobile come una colonna di marmo, ugualmente magnetico nello sguardo fisso davanti a sé, indifferente, o meglio, immune da tutto ciò che attorno gli sta accadendo: quello del Battesimo di Piero della Francesca di Borgo San Sepolcro oggi alla National Gallery di Londra.

Sono questi solo pochi tratti di una descrizione che potrebbe andare ben oltre, di un’opera che si pone, a mio parere, a uno dei vertici della pittura italiana rinascimentale e da iscrivere, almeno come suggestione, all’ambiente urbinate; un’opera di fronte alla quale però troppo spesso si notano gli avventori del Palazzo Ducale, passare con una certa indifferenza, forse non catturati dalla firma, importantissima per il periodo, ma non così pubblicizzata e mediatizzata come per altri eccellenti artisti.

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