SCHEDE D’ARTE. JACKSON POLLOCK: BLUE POLES.

J. Pollock, Blue poles, 1953.

Quello di Jackson Pollock è un nome che ormai è divenuto un mito dell’arte contemporanea, un po’ come Andy Warhol, ma le sue opere spesso, al di là dell’aspetto spettacolare dato dai colori e dalle dimensioni, rimangono difficili da fruire e comprendere in toto, almeno inizialmente, per lo spettatore, anche se sarebbe forse sufficiente a spiegare tutta la sua poetica (brutto questo termine) una sua famosa frase che, quando gli domandarono perché si fosse così allontanato dal concetto di opera e di pittura come li si era sempre concepiti, rispose: “ma secondo voi nel ventesimo secolo, come faccio io a rappresentare la bomba atomica, i campi di concentramento, la teoria della relatività con la prospettiva rinascimentale?” .

Noto è che l’artista è uno dei massimi rappresentanti di quello che viene nominato l’Espressionismo Astratto americano, definizione in realtà coniata dal critico Alfred H. Barr Jr. nel 1929 a proposito di un quadro di Vasily Kandinsky. A fondamento di questo modo di fare arte non vi è più la rappresentazione di un corpo o di un oggetto, ma il corpo in atto, in altre parole l’opera è il risultato, la traccia, dell’azione che il corpo dell’artista ha compiuto per crearla. Ciò avviene tramite la tecnica dell’action painting o meglio del dripping, lo sgocciolamento del colore, che in Pollock costituisce un elemento fondamentale. La tela non trova più il cavalletto, ma viene distesa a terra e l’artista è libero di girarle attorno, entrarci dentro, spruzzando, versando il colore direttamente dal barattolo (soprattutto smalti industriali), o imprimendo violente o delicate pennellate, usando bastoni e altri mezzi fisici. Per rifarsi a Peirce si può affermare che le opere di Pollock non hanno un carattere iconico, non sono immagini riconoscibili, ma tracce di un gesto, di un’azione, di un agire (dell’indice, direbbe il semiologo statunitense), che libera le energie interiori, inconsce e irrazionali dell’artista quasi come in rito sciamanico, rivelando la volontà o l’angoscia di vivere dell’autore.

Ne viene una pittura in cui non esiste più nessuna gerarchia, dove sembra regnare il caos, una sorta di superficie labirintica in cui non è possibile identificare un sotto o un sopra, un centro o un margine. Non è quindi una pittura figurativa, ma nemmeno astratta, nel senso che non c’è un sistema pensato di forme geometriche, ma neppure è disordine totale, perché la nostra percezione sa cogliere forme particolari, forse solo evocazioni di forme, anche organiche, se si vuole instabili e avviluppate.

Una delle opere più note e più catartiche di Pollock è, senza dubbio, Blue poles, Pali blu, una tela di circa 2 metri per 5 realizzata con smalti sintetici-vernici all’alluminio nel 1953. Nel 1951, dopo avere raggiunto il successo, l’artista piombò in una crisi depressiva grave che lo riportò all’abuso dell’alcol dal quale si era disintossicato precedentemente. Fu un periodo in cui i suoi dipinti si incupirono notevolmente e anche l’ispirazione sembrò affievolirsi. Blue poles sembra nata da uno di quei rari momenti di lucidità e di quasi serenità che attraversarono l’esistenza di Pollock in quei primi anni Cinquanta e, per questo, è ritenuta una delle opere più importanti del pittore, capace di gettare una luce sulla sua concezione della vita e sulla disperazione che lo condusse a minare in maniera grave fisico e psiche, fino alla morte avvenuta per un incidente stradale, causato probabilmente dalla guida in stato di ebbrezza, l’11 agosto 1956 a 44 anni.

La tela è di grandi dimensioni e l’artista l’ha realizzata stendendola a terra per poi spruzzarla di vari tipi di colori (olio, smalti, vernici all’alluminio), usando prima batuffoli di cotone, ripassati con pennelli di grandi e medie dimensione e in fine strisciandola con travi di legno. Quindi, sempre con pennelli di differenti misura, ha cominciato a colare gli smalti, prima il rosso, poi il giallo e l’argento, colore che domina il quadro nello sfondo. Ne viene che l’opera perde il punto di vista centrale, non ha più direzioni di lettura, è come se non avesse dei limiti o dei confini. La zona attorno ai pali è realizzata sgocciolando la vernice con moto circolare e in maniera del tutto casuale, come casuali sono i punti in cui si rivela una minore o maggiore densità.

Si può notare come, nonostante il titolo, il blu non sia presente nell’opera. Ci sono invece i pali, obliqui e neri, unico elemento che può avere un corrispettivo figurativo. Il blu è solitamente significante di serenità e la sua assenza, resa più evidente dal nero dei pali, e dalle sgocciolature che assorbono tutto, appare come una nota angosciosa nella danza quasi scomposta e farneticante dei colori, nel caotico, senza un reale senso, senza una vera direzione teleologica della vita. Vi è una certa aggressività spigolosa nella tela, nella quale a me pare intravedere una rappresentazione della parte o delle parti più nascoste e recondite del nostro inconscio; quella dove solitamente, secondo la lezione, per quanto datata, di Freud, ma in Pollock è certo vivo anche il magistero di Jung, risiedono i tabù, le paure inconfessate, e un rifiuto angoscioso della realtà, dalla quale l’artista sembra voler prendere le distanze. In realtà le interpretazioni di questa opera sono state molteplici e varie e c’è stato chi ci ha visto una rappresentazione della caotica megalopoli americana, con i suoi grattaceli e la frenesia del vivere per il produrre, o chi, partendo dal titolo, ha ipotizzato invece una sorta di spiraglio verso una visione migliore della vita, il blu che, pur nella sua non-presenza, in qualche modo si fa strada sul nero.

Ciò che però è chiaro è che un quadro simile, come tanti altri di Pollock e di altri artisti, sono opere aperte all’interpretazione di chi le ammira e che sa coglierne il lato misterioso, qualunque esso sia.

Lascia un commento