LA FALAGELLAZIONE DI ARGAN

 

La Flagellazione di Piero della Francesca è stata soggetta a molte interpretazioni, alcune interessanti, altre che lasciano il tempo che trovano, ma tutte interpretazioni. Insomma non se ne sa nulla, e il suo enigma credo rimarrà tale, a meno del ritrovamento di qualche eccezionale documento, come accadde per esempio per la Patente destinata al Laurana da parte dei Federico Dux. Ci sono tuttavia pagine sul quadro che meritano, al di là dell’interpretazione storica e della lettura simbolica, che affascinano anche solamente per come sono scritte, per la prosa. Tralasciando alcune di queste in lingua straniera che richiederebbero una traduzione e quindi non sarebbe prosa originale, penso ad esempio alle righe di Roberto Longhi e di Carlo Giulio Argan. Ripropongo un breve pezzo di quest’ultimo, dove non si lancia in interpretazioni ardite, ma descrive il quadro e la prospettiva, a mio parere, in maniera magistrale.

(…) Come Assisi alla fine del Duecento e Roma nel Cinquecento, Urbino è insieme punto di confluenza e centro di irradiazione, perché crogiuolo in cui le diverse esperienze si confrontano, si modificano, si fondono: l’universalismo di Piero della Francesca sovrasta come una grande cupola questo convergere di culture e tradizioni diverse, favorisce la nascita di una cultura originale, che sarà la premessa indispensabile su cui Bramante e Raffaello, entrambi urbinati, fonderanno l’universalismo storico del classicismo romano del primo Cinquecento.

Il significato della Flagellazione, dipinta da Piero per Urbino, non è stato ancora chiarito definitivamente dalla critica; l’interpretazione tradizionale riconosce nel giovane biondo del gruppo di destra Oddantonio da Montefeltro, il predecessore di Federico, circondato dai consiglieri fraudolenti dai quali è stato, come Cristo, tradito e portato al martirio; un’altra interpretazione, più recente e maggiormente attendibile, vede nella flagellazione un’allegoria delle sofferenze patite dalla Chiesa orientale caduta sotto il giogo degli infedeli e, nel gruppo di destra, il costituirsi di un’alleanza anti-turca.

Qualunque sia l’interpretazione esatta del dipinto (e altre ancora sono state avanzate), è fuor di dubbio che una prospettiva rigorosissima mette in rapporto due scene distanti nel tempo (i personaggi del gruppo di destra vestono abiti moderni, quindi non contemporanei alla scena evangelica di fondo) e nello spazio (la flagellazione si svolge in un interno la cui architettura è caratterizzata senza ombra di dubbio come antica; il colloquio dei tre personaggi di destra avviene al contrario in uno spazio aperto, sul quale si affacciano edifici moderni). Non è certo una novità: già l’Angelico, nella Annunciazione di Cortona, si era servito della prospettiva per stabilire un rapporto tra i due episodi diversi; ma, mentre tra annunciazione e cacciata dal paradiso terrestre un legame storico e una relazione logica tra causa ed effetto esiste (Cristo si incarna appunto per riscattare l’umanità dal peccato originale), non altrettanto si può dire per il quadro urbinate, dove tra le due scene esiste invece un rapporto di tipo simbolico e ideologico. La prospettiva non corrisponde più ad uno sviluppo spaziale o temporale; di conseguenza, le colonne del portico quasi contraendo lo spazio si sovrappongono in una fuga rapidissima, accelerata dalla rapida scansione della luce, per rendere visivamente immediato il nesso tra le due scene (ed una eguale funzione adempie anche la fascia bianca del pavimento, che segna il confine, e quindi mette in rapporto i due episodi). Uno studiato gioco di ben calcolate corrispondenze formali rinvia dall’uno all’altro; i tratti somatici della figura giovanile in primo piano sono simili a quelli di Cristo; come lui, è scalza e identica e la posizione dei piedi sul suolo; le due figure sono inoltre le uniche presentate frontalmente, mentre il profilo di Pilato si ripete in quello del personaggio in primo piano a sinistra. Ancora: la posizione del cosiddetto Oddantonio è eguale, ma opposta, a quella del personaggio con turbante che ordina la flagellazione. La stessa luce è in funzione di questa logica strutturalmente simbolica, concentrandosi il massimo della luminosità, nel dipinto già luminosissimo, sulle due figure principali: Cristo, quasi origine di luce (lo dimostra l’alternarsi ombra-luce-penombra nel soffitto a cassettoni); Oddantonio, il cui volto si staglia sulla scura aureola formata dalle fronde degli alberi. Piero si propone dunque di dimostrare, con la Flagellazione, l’identità di forma tra due episodi storicamente distanti, in quanto l’uno e l’altro aventi identico valore.

“Convenerunt in unum”, si leggeva, ancora nell’Ottocento, alla base della tavola di Urbino: e la citazione biblica può essere assunta come metafora involontaria della situazione urbinate, dove la fusione di culture diverse è possibile solo all’interno dell’ampio universalismo pierfrancescano che le assume, destoric izzandole, come elementi diversi da mettere proporzionalmente in rapporto reciproco, come frammenti di una forma che si dà come immediatamente simbolica di valori. Con la Pala di Brera, Piero dimostra che non esistono grandezze incommensurabili, dacché tra minimo e massimo (il piccolo uovo e la vasta concavità architettonica) esiste una media (la testa della Vergine); con la Madonna di Senigallia, estende l’enunciato oltre la quantità delle cose, alla loro qualità luminosa; con la Flagellazione dimostra che, essendo lo spazio uno, episodi diversi non possono non entrare in rapporto tra loro; nella Madonna di Williamstown, una delle sue ultime opere, abolisce quasi l’architettura, ponendo le figure in uno spazio formato dall’incontro di due superfici rette; come nella facciata del palazzo ducale di Urbino, uno spigolo non si dà come asimmetria, ma come ulteriore dimostrazione dell’equivalenza generale delle cose, della possibilità di instaurare un rapporto tra superfici che la luce nata all’interno stesso del dipinto dall’accostamento di colori freddi, qualifica diversamente, ma che la forma, e la ragione, definiscono identiche. (…)”.

G. C. Argan, Storia dell’Arte Italiana, pp 361-364.

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